Distruzione di atti relativi a un concorso pubblico: la normativa privacy può avere rilievo scriminante?

Ferdinando Brizzi
14 Ottobre 2019

La distruzione di atti e documenti relativi a una procedura di selezione (in un ente pubblico), penalmente rilevante ex art. 490 c.p., non può essere scriminata invocando la disciplina della tutela dei dati personali che, da un lato, non rende affatto necessaria la distruzione dei documenti...
Massima

La distruzione di atti e documenti relativi a una procedura di selezione (in un ente pubblico), penalmente rilevante ex art. 490 c.p., non può essere scriminata invocando la disciplina della tutela dei dati personali che, da un lato, non rende affatto necessaria la distruzione dei documenti, ciò non essendo affatto previsto dalla normativa di settore, dall'altro, gli obblighi di conservazione e catalogazione dei documenti avrebbero imposto ben altre condotte, rientrando i documenti in esame nel concetto di archivio corrente dell'Ente territoriale, con conseguente applicabilità della relativa disciplina.

Il caso

La vicenda processuale concerne una procedura di selezione ad evidenza pubblica avviata tra il 2011 e il 2012 da un'azienda speciale municipalizzata istituita presso il comune di Verona, al fine di nominare il nuovo direttore generale.

A questa prima procedura, contrassegnata da irregolarità rivelatesi poi penalmente rilevanti, ne seguiva altra nel 2014: questa volta il bando predisposto dall'azienda non prevedeva l'espletamento di alcuna prova, né conteneva il riferimento a titoli, essendo stata seguita, in tal caso, una procedura esclusivamente privatistica.

Il procedimento penale scaturiva dalla denuncia presentata dal direttore generale dell'azienda nominato a seguito di quest'ultima procedura.

Le indagini sfociavano in una contestazione di abuso d'ufficio continuato a carico del precedente direttore generale, del presidente del Consiglio di amministrazione, del presidente del Collegio dei revisori dei conti (a costoro, oltre che in tale veste, anche in quella di componenti della commissione giudicatrice per la selezione e nomina del direttore generale), dei membri del Consiglio di amministrazione, di un revisore dei conti, della dirigente dell'area legale dell'azienda nonché segretaria del Consiglio di amministrazione, del direttore dei servizi istituzionali dell'azienda, risultato poi vincitore della selezione.

Veniva poi mossa la contestazione di distruzione di documenti al presidente del Consiglio di amministrazione dell'azienda, ai consiglieri del Consiglio di amministrazione, al precedente direttore generale dell'azienda, alla dirigente del servizio area legale dell'azienda nonché segretaria del Consiglio di amministrazione.

Le sentenze di merito hanno ricostruito i fatti ricordando come essi avessero avuto origine da due missive riservate, inviate dal precedente direttore generale, nell'ottobre e nel novembre 2011, al presidente ed ai componenti del Collegio dei revisori dei conti, in cui il primo manifestava la sua volontà di non accettare alcun rinnovo nell'incarico, che sarebbe scaduto il successivo 31 marzo 2013, per motivi personali non meglio chiariti, proponendo, quindi, di attivare la procedura di selezione.

La proposta del direttore generale veniva accolta dal Consiglio di amministrazione dell'azienda che, in data 7 novembre 2011, deliberava, ai sensi dell'art. 10, comma 1, dello statuto, la procedura di selezione per la nomina del nuovo direttore, svolta secondo modalità tali da essere ritenute integranti il delitto di abuso in atti di ufficio. La condotta era stata funzionale a procurare al precedente direttore generale ed a colui che era risultato vincitore della selezione un ingiusto vantaggio patrimoniale, concernente rispettivamente: per il primo, la riconferma nell'incarico di direttore generale per un ulteriore triennio e la stipulazione di un contratto estremamente vantaggioso, oltre all'istituzione della carica di vicedirettore generale, da assegnargli automaticamente in caso di sue dimissioni da quella di direttore generale; per il vincitore della selezione, la proclamazione di vincitore e, quindi, la nomina quale direttore generale in caso di dimissioni del precedente.

Inoltre, gli imputati si erano resi responsabili della condotta di distruzione, deliberata dal Consiglio di amministrazione in data 8 febbraio 2012 ed eseguita materialmente dal direttore generale il successivo 7 maggio 2012, di tutta la documentazione relativa alla procedura di selezione, consistente in n. 232 curricula presentati dai candidati, allegati al verbale della seconda riunione della commissione giudicatrice, fatta eccezione per una terna comprendente i candidati tra cui è stato scelto il vincitore.

La questione

Tra i motivi di ricorso, veniva eccepita la carenza dell'elemento soggettivo in riferimento al delitto di cui all'art. 490 c.p., asseritamente evincibile dalla disciplina in tema di privacy.

In particolare, si contestava l'aver ritenuto sussistente l'elemento soggettivo dei reati contestati, avendo la Corte territoriale ritenuto il dolo in re ipsa, senza alcuna valutazione della sfera soggettiva del singolo soggetto agente, omettendo di analizzare individualmente le posizioni degli imputati, soprattutto alla luce delle circostanze evidenziate nell'atto di appello – preparazione delle delibere da parte dell'avvocato responsabile dell'area legale, convinzione che la procedura esperita non fosse un concorso pubblico – non essendosi verificata, in questo caso, alcuna macroscopica illegittimità dell'atto da cui desumere, sotto altro aspetto, il requisito del dolo intenzionale.

Da ciò, quindi, ne sarebbe discesa anche la carenza dell'elemento soggettivo in riferimento al delitto di cui all'art. 490 c.p.: a tal riguardo veniva prospettato l'attento esame della disciplina in tema di privacy, atteso che il d.lgs. n. 196 del 2003 “individua due differenti regimi normativi in tema di trattamento di dati, subordinando al consenso dell'interessato il trattamento dei dati in caso di ente privato ed ente pubblico economico; inoltre, nel caso in esame, nell'inserzione di lavoro pubblicata era stato espressamente richiesto il consenso al trattamento dei dati personali, cosa che non sarebbe stata necessaria se l'azienda speciale municipalizzata fosse stata un ente pubblico non economico; nel caso di specie, quindi, l'art. 16 del d.lgs. n. 196/2003 imponeva la distruzione dei dati acquisiti in relazione ad un trattamento cessato”.

Ancora, si sosteneva, in riferimento al reato di cui all'art. 490 c.p., la sussistenza della causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 51 c.p., quanto meno sotto il profilo della putatività, in riferimento all'applicazione della normativa sulla privacy per quanto riguarda la distruzione degli elaborati e dei curricula dei partecipanti alla procedura, atteso che, in merito, il dirigente dell'Ufficio legale dell'azienda nulla ebbe ad obiettare, in tal modo essendo stati rassicurati i componenti del Consiglio di amministrazione circa la correttezza della delibera, dovendosi, infine, escludere la sussistenza del falso per soppressione alla luce del contenuto delle mail dell'8 febbraio e del 9 febbraio 2012 scambiate tra il direttore generale ed uno dei consiglieri ed il consiglio di amministrazione, attestanti la preoccupazione del Consiglio medesimo circa la corretta applicazione della disciplina sulla privacy, ed i cui si qualificava l'avvocato responsabile dell'area legale garante della legittimità delle norme applicate in delibera.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha respinto il ricorso innanzitutto fugando ogni dubbio in merito alla natura pubblica degli atti in questione.

Così la Corte: «in riferimento alla configurabilità della fattispecie di cui all'art. 490 c.p., va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte, superando un più risalente orientamento, ha affermato che “La prova scritta del candidato di un pubblico concorso costituisce atto pubblico e non già scrittura privata, ove sia redatta su fogli appositamente timbrati, firmati e progressivamente numerati dai componenti della commissione. Tali incombenti rappresentano, infatti, il risultato di un'attività di controllo posta in essere dal pubblico funzionario, nell'esercizio delle funzioni a lui demandate, al fine di attestare la genuinità e la provenienza delle scritturazioni che il candidato è abilitato ad apporre sui fogli appositamente vistati e numerati. Sicché, non essendo concepibile che nello stesso atto possano coesistere due distinte nature (una, pubblica per la parte contenente le dette attestazioni, e l'altra privata, per la parte grafica redatta dallo stesso candidato) deve ritenersi che il carattere pubblico informi l'intero documento, dato il contesto unitario ed inscindibile, e dunque anche nella parte relativa alla componente grafica proveniente dal privato cittadino)”».

Sotto altro profilo, i Giudici hanno osservato come il richiamo alla disciplina sulla privacy, contenuta nei ricorsi a sostegno della tesi difensiva in riferimento al delitto di cui all'art. 490 c.p., appaia del tutto inconferente e riduttiva.

Difatti, sotto un primo aspetto, esiste una procedura specifica che disciplina la distruzione dei documenti in ambito pubblico.

In particolare: «La documentazione amministrativa di cui si discute rientra, senza alcun dubbio, nella tipologia dei documenti facenti parte dell'archivio corrente dell'ente territoriale, alla luce della complessa ed articolata normativa […] per archivio corrente si intende il complesso dei documenti relativi alla trattazione di affari in corso; esso è, di norma, organizzato su base annuale, nel senso che ad ogni inizio d'anno i fascicoli delle pratiche non chiuse entro il dicembre precedente vengono “trascinati” nell'archivio del nuovo anno. Per archivio di deposito, invece, si intendono i fascicoli di cui è terminata la trattazione e che richiedono un accesso poco frequente, mentre l'archivio storico è costituito dai documenti relativi agli affari esauriti da oltre quaranta anni. L'archivio deve essere periodicamente sottoposto ad una selezione razionale […]. I termini di conservazione si calcolano dalla data di chiusura della trattazione dell'affare, e non dalla data dei singoli documenti. In ogni caso lo scarto di documenti dell'archivio dell'Ente è subordinato ad autorizzazione della Soprintendenza Archivistica, […]; la distruzione non autorizzata di documenti dell'archivio, non a caso, è punita con l'arresto da sei mesi a un anno e con l'ammenda da euro 775,00 ad euro 38.734,50, ex art. 169, comma 1, d.lgs. 42/2004».

Sotto un secondo aspetto, la Cassazione evidenzia l'interesse pubblico sotteso al regime di trasparenza amministrativa esistente.

E quindi «[]ai sensi della normativa sulla trasparenza amministrativa, í documenti dell'archivio corrente e di deposito, compresi gli atti interni, si presumono accessibili a chiunque vi abbia interesse per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, ai sensi degli artt.22 e 23 legge n. 241/1990, come modificata dalla legge n. 15/2005, salvo le eccezioni previste dalla legge e dal regolamento dell'Ente, venendo meno il dovere di rendere accessibili i documenti quando viene meno l'obbligo di detenerli».

In conclusione, anche la normativa sul trattamento dei dati personali comporta obblighi specifici di riservatezza, che non fanno venir meno il generale principio della trasparenza amministrativa, come si evince dalle disposizioni di cui al d.lgs. 30 giugno 2003 n.196 contenente il Codice in materia di protezione dei dati personali.

Da detto impianto normativo discende, in via conclusiva, secondo i giudici di legittimità, che, «anche a norma dell'art. 16 d.lgs. n. 196/2003, la cancellazione di dati, su richiesta dell'interessato, o in occasione della cessazione del trattamento, deve essere equiparata alla distruzione dei documenti, e come tale va autorizzata dalla Soprintendenza archivistica, a norma degli art.22, comma 5, d.lgs. n. 196/2003 e 21, comma 1, lett. d), d.lgs. 42/2004.

Il risultato è stato, nella ricostruzione dei giudici di legittimità, che la condotta degli imputati è apparsa macroscopicamente eccentrica rispetto a quella delineata dalle normative di riferimento, rendendo i rispettivi motivi di ricorso sul punto ai limiti dell'inammissibilità.

Osservazioni

Se, sotto un profilo sostanziale, nessuno può dubitare della bontà delle affermazioni che si rinvengono nella sentenza in commento, perplessità emergono invece in relazione al ragionamento giuridico sotteso alla motivazione.

Si fa riferimento in particolare alle seguenti argomentazioni: «la normativa sul trattamento dei dati personali comporta obblighi specifici di riservatezza, che non fanno venir meno il generale principio della trasparenza amministrativa, come si evince dalle disposizioni di cui al d. lgs. 30 giugno 2003 n.196 contenente il "Codice in materia di protezione dei dati personali". Da detto impianto normativo discende che, anche a norma dell'art. 16 d.lgs. 196/2003, la cancellazione di dati, su richiesta dell'interessato, o in occasione della cessazione del trattamento, deve essere equiparata alla distruzione dei documenti, e come tale va autorizzata dalla Soprintendenza archivistica, a norma degli art.22, comma 5, d. lgs. 196/2003 e 21, comma 1, lett. d), d.lgs. 42/2004).

In primo luogo, va osservato che tanto l'art. 16 che l'art. 22 d.lgs. n. 196/2003 sono stati espressamente abrogati dal d.lgs. 101/2018. Come noto, si tratta del decreto di adeguamento del cd. codice della privacy al Regolamento europeo 27 aprile 2016, il cd. GDPR, che ha comportato l'abrogazione degli artt. da 3 a 45.

Deve evidenziarsi come la prima sentenza di merito – GUP Verona – era stata emessa in data 16 dicembre 2015, la seconda sentenza – Corte d'appello Venezia – in data 18 maggio 2017.

I ricorsi avverso questa seconda sentenza sono stati presentati nel dicembre 2017: quindi il rinvio ivi contenuto alle previgenti norme del d.lgs. n. 196/2003 era senz'altro coerente ratione temporis,essendo stato approvato il D.lgs. 101/2018 solo in data 10 agosto 2018.

La sentenza della Corte di Cassazione, essendo stata decisa all'udienza del 29 aprile 2019, non poteva che confrontarsi con il mutato quadro normativo ed in particolare con il GDPR.

Il riferimento contenuto nella sentenza alle pregresse disposizioni ora abrogate attribuisce loro una ultrattività che non pare autorizzata da alcuna previsione normativa.

Il GDPR, art. 6, fa venir meno la pregressa centralità del consenso quale base giuridica del trattamento dei dati personali, tant'è che il D.lgs. 101/2018 introduce l'art. 111 bis nel d.lgs. n. 196/2003: il consenso al trattamento dei dati personali presenti nei curricula non è dovuto, senza alcuna distinzione tra ambito pubblico o privato.

Ne discende che, alla luce del mutato quadro normativo, tutte gli argomenti spesi dalle difese sul rilievo, o meno, spiegato dal consenso paiono perdere ogni rilievo.

Ma vi è di più.

Il d.lgs. 101/2018 introduce, nel d.lgs. n. 196/2003, l'art. 2-sexies: trattamento di categorie particolari di dati personali per motivi di interesse pubblico rilevante. Si considera rilevante l'interesse pubblico a trattamenti effettuati da soggetti che svolgono compiti di interesse pubblico o connessi all'esercizio di pubblici poteri, tra l'altro, in materia di instaurazione, gestione ed estinzione di qualunque tipo anche non retribuito o onorario.

I giudici di legittimità hanno evocato la nozione di interesse pubblico, ma sotto altro profilo, quello della trasparenza amministrativa.

Ad avviso di chi scrive, questa sentenza poteva essere l'occasione più adatta per confrontarsi con la riforma “copernicana” attuata dall'art. 6 del GDPR nel fissare le alternative basi giuridiche del trattamento dei dati: oltre a venir meno la centralità del consenso, l'interesse pubblico rilevante diventa una della basi giuridiche – lett. e) – che legittima il trattamento: una puntuale ricognizione del novum normativo avrebbe consentito ai giudici della Cassazione di rafforzare la propria motivazione in merito al presunto rilievo scriminante della normativa privacy nel caso di specie.

Per altro, l'interesse pubblico viene in rilievo nella normativa privacy anche sotto altro profilo: il titolo VII del d.lgs. n. 196/2003 è dedicato al trattamento dei dati ai fini di archiviazione nel pubblico interesse. L'art. 99 prevede che il trattamento di dati personali in questo caso può essere effettuato anche oltre il periodo di tempo necessario per conseguire i diversi scopi per i quali i dati sono stati in precedenza raccolti o trattati. Inoltre, si legge al secondo comma, a fini di archiviazione nel pubblico interesse possono essere conservati o ceduti ad altro titolare i dati personali dei quali, per qualsiasi causa è cessato il trattamento.

Ne consegue che i dati personali trattati ai fini dello svolgimento di un concorso pubblico possono essere conservati anche oltre il periodo di svolgimento dello stesso ed anche dopo che sia cessato tale trattamento: non è chi non veda che proprio la nozione di “pubblico interesse” importa che un lecito motivo di ulteriore conservazione e trattamento possa essere rappresentata proprio dalla necessità di valutazioni successive ed ulteriori circa la regolarità stessa del concorso.

Il “pubblico interesse” giustifica dunque un'importante deroga al principio di limitazione della conservazione, secondo cui è necessario provvedere alla conservazione dei dati per un tempo non superiore a quello necessario rispetto agli scopi per i quali è stato effettuato il trattamento (art. 5 lett. e) GDPR).

Queste valutazioni vanno inevitabilmente a rafforzare quanto osservato dai giudici della Cassazione a riguardo dell'interesse pubblico sotteso al regime di trasparenza amministrativa esistente: l'articolo 99 del d.lgs. n. 196/2003 non è stato “intaccato” dalla riforma apportata dal GDPR, che, anzi, sotto tale profilo, pare essersi conformato alla normativa italiana privacy.

Ne discende che, anche a voler considerare la normativa privacy come integrativa di un elemento normativo di una disposizione penale, in questo caso non sussisterebbe alcun fenomeno di successione di leggi in quanto permane l'antigiuridicità del fatto anteriormente realizzato.

Tali conclusioni non sono altro che un possibile percorso interpretativo: le novità e la delicatezza della riformata normativa privacy sono tali da auspicarsi che altri, e ben più autorevoli commentatori, possano avviare una più approfondita riflessione rispetto al rilievo ed alle possibili interferenze che si possono determinare nelle varie branche del diritto: nel diritto penale in particolare come dimostra la vicenda processuale sopra trattata.

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