Il giudice d’appello deve provvedere alla regolazione delle spese processuali?

Francesco Bartolini
23 Ottobre 2019

Alla Suprema Corte, si è evidenziata la violazione o falsa applicazione di norme di diritto per: avere il giudice di merito omesso di liquidare nel dispositivo le spese a favore della parte vincitrice che ne aveva fatto esplicita richiesta; non aver provveduto a liquidare le spese in applicazione della pronuncia di cui alla motivazione della sua sentenza; ed avere erroneamente rimesso, nel dispositivo, alla decisione definitiva la regolazione delle spese processuali.
Massima

Il giudice di appello, nel decidere il giudizio di impugnazione avverso la sentenza non definitiva di primo grado, deve provvedere alla regolazione delle spese processuali, ex art. 91 c.p.c., posto che la sua pronuncia chiude un grado del processo ed è idonea a passare in giudicato anche se in ipotesi il giudizio di merito sul quantum non prosegue o si estingue.

Il caso

In una controversia per risarcimento del danno il giudice di primo grado dichiarò con sentenza non definitiva sussistente il diritto azionato, dispose per l'ulteriore istruttoria sul quantum e rinviò alla sentenza definitiva la regolazione delle spese processuali. Il convenuto soccombente propose appello che venne rigettato per quanto riguardava il merito. La pronuncia pose, nella motivazione, a suo carico le spese “liquidate come da dispositivo”; ma nel dispositivo ne rinviò ogni statuizione alla decisione definitiva. L'appellato, originario attore, chiese la correzione della sentenza in modo da far eliminare il vistoso contrasto che rendeva inapplicabile la pronuncia sulle spese. Sul punto la Corte territoriale dichiarò l'inammissibilità dell'istanza assumendo che: «… l'invocata diversa determinazione dei compensi professionali inerisce ad un motivo di impugnazione che implica non già una semplice rettifica dei dati formali sulla base delle divergenze tra il contenuto logico della motivazione e la sua materiale rappresentazione grafica bensì una differente e discrezionale determinazione della disciplina delle spese».

A fronte della negata correzione la parte interessata ha proposto ricorso per cassazione.

La questione

Con il ricorso per cassazione la medesima parte istante ha denunciato la nullità della sentenza d'appello per l'insanabile contrasto tra la motivazione e il dispositivo con riferimento alle contraddittorie indicazioni relative alla liquidazione delle spese del giudizio di gravame. Si è, inoltre, evidenziata la violazione o falsa applicazione di norme di diritto per: avere il giudice di merito omesso di liquidare nel dispositivo le spese a favore della parte vincitrice che ne aveva fatto esplicita richiesta; non aver provveduto a liquidare le spese in applicazione della pronuncia di cui alla motivazione della sua sentenza; ed avere erroneamente rimesso, nel dispositivo, alla decisione definitiva la regolazione delle spese processuali (nella specie il processo in ordine al quantum non era stato proseguito).

Le soluzioni giuridiche

Il Collegio ha ritenuto i motivi così formulati esaminabili congiuntamente ed ha accolto il ricorso.

La Corte ha affermato che nel giudizio di appello seguito all'impugnazione di una sentenza non definitiva è dovuto il provvedimento di liquidazione delle spese di quel giudizio, in conformità al disposto di cui all'art. 91 c.p.c. Deve, al riguardo, farsi differenza tra la decisione non definitiva di primo grado che, in quanto per sua natura soltanto parziale, non “definisce” il giudizio davanti al giudice che la pronuncia ma abbisogna di un successivo giudizio che chiuda la controversia; e la decisione sull'appello avverso la detta sentenza non definitiva che, per contro, chiude il giudizio di impugnazione, integrando la fattispecie disciplinata dalla norma processuale.

Questa decisione, infatti, “definisce” un grado di giudizio ed è idonea a passare in giudicato anche se il processo non prosegue per il quantum o si estingue. Da questo principio di ordine generale la Corte ha tratto la conseguenza della nullità della pronuncia impugnata per avere il giudice di appello erroneamente riservato al giudizio definitivo la liquidazione delle spese processuali. La cassazione sul punto ha comportato il rinvio al giudice di merito con il compito di liquidare le spese del grado di appello a favore della parte ritenuta vittoriosa.

Osservazioni

La Corte ha ricordato che, in linea di principio, nel caso in cui il dispositivo si pone in logico contrasto con le statuizioni di condanna enunciate nella motivazione della pronuncia giudiziale, l'atto giudiziale è affetto da una irregolarità formale che può essere ovviata mediante la procedura di correzione e senza che si renda necessario proporre una impugnazione formale. Quella discrepanza configura un difetto riconducibile all'ambito degli errori materiali per la cui sanatoria è predisposto lo specifico strumento della correzione. Sono di tal genere le disfunzioni palesi dell'atto come tale, derivanti da evidenti divergenze tra le disposizioni in esso contenute e non attinenti alla formazione della volontà del giudicante; e lo sono, altresì, le semplici dimenticanze quali l'omessa liquidazione delle spese processuali: sempreché (come di recente ha riaffermato Cass. civ., sez. VI, ord. 27 luglio 2016, n. 15650) l'omissione non evidenzi un contrasto di contenuto tra la motivazione e il dispositivo. La precisazione così effettuata è importante perché indica il limite da riconoscere tra l'errore riparabile con la correzione (errore materiale o di fatto) e l'incongruenza tra le asserzioni della motivazione e il dictum del dispositivo alla quale consegue il vizio di nullità della pronuncia del giudice. Una siffatta nullità ricorre ogni volta in cui la pronuncia appare inidonea a consentire l'individuazione del concreto comando in essa formulato, non risultando possibile ricostruire la statuizione del giudice attraverso il coordinamento tra motivi e disposizioni (Cass. civ., sez. VI, 27 giugno 2017, n. 16014; Cass. civ., sez. I, 2 luglio 2007, n. 14966).

Questo, della nullità della sentenza, era appunto il caso offerto all'esame della Corte di cassazione con l'impugnazione della sentenza d'appello che nella parte motiva poneva le spese a carico del soccombente liquidate come specificato nel dispositivo e che nel dispositivo rinviava alla pronuncia definitoria dell'intero giudizio sull'an e sul quantum. Il contraddittorio tenore dell'atto non permetteva di conoscere quale si era voluto fosse la regolazione delle spese tra le parti e con ragione il giudice di appello aveva respinto la richiesta di correzione indicando nel gravame il mezzo da utilizzare.

La Suprema Corte ha confermato in proposito la presa di posizione del giudice di merito in quanto, effettivamente, nella sentenza impugnata «… la divergenza tra parte della motivazione e dispositivo inficia la comprensione della decisione sull'an della statuizione sulle spese e non consente di percepire con agevolezza l'esistenza di un mero lapsus calami di natura omissiva». Se, dunque, doveva riaffermarsi che per un verso l'errore materiale è di norma riparabile con la procedura sommaria, per altro aspetto doveva seguirsi l'orientamento giurisprudenziale per cui quello stesso errore «… risulta deducibile in sede di giudizio di legittimità nella ristretta ipotesi in cui l'interessato alla correzione intenda veicolare che l'errore sia oggetto di censure astrattamente sussumibili nell'art. 360 c.p.c., come nell'ipotesi in cui il ricorrente lamenti ulteriori motivi, i quali nulla hanno a che fare con l'errore materiale…». In più semplici parole, e con riferimento alla vicenda di specie, il difetto cagionato dall'intima contraddizione della pronuncia e che certamente costituisce un “errore” del provvedimento, si risolve in un motivo di ricorso per cassazione se viene denunciato alla stregua di una violazione di legge nel senso indicato dal citato art. 360. Nell'applicare, a questo proposito, una regola di recente ribadita dalle Sezioni Unite 21 giugno 2018, n. 16415, la Corte si è trovata a percorrere una via obbligata. Già il giudice d'appello aveva negato la correzione sull'assunto che nel caso propostogli il contrasto tra la motivazione e il dispositivo sulla sorte delle spese del grado non era riparabile senza l'impugnazione.

La Corte di legittimità ha risolto senza farne dichiarazione due questioni che avrebbero potuto essere esplicitate ed evidenziate. L'una riguardava l'ammissibilità del ricorso, la cui soluzione positiva è emersa da sé una volta affermatosi che quella del gravame era la strada unica da seguire. L'altra aveva ad oggetto la prevalenza da attribuirsi, in sede di interpretazione della sentenza, al dispositivo piuttosto che alla motivazione. Come è noto, nel caso di loro contrasto si ravvisa nel dispositivo il vero e proprio contenuto della decisione giudiziale ogni volta in cui non sussista con i motivi una incompatibilità tale da rendere incomprensibile la volontà espressa dal giudicante. Nel caso di specie la Corte ha cassato la sentenza d'appello nel capo che rinviava al definitivo la liquidazione delle spese, vale a dire nella porzione dell'atto costituita dal dispositivo: «… la pronuncia è errata laddove nel dispositivo ha riservato al giudizio definitivo la liquidazione delle spese processuali… il giudice del rinvio dovrà pronunciarsi conformemente al principio sopra richiamato, liquidando le spese del giudizio di appello a favore della parte ritenuta vittoriosa».

In sostanza, il Supremo Collegio ha addebitato al giudice di appello di avere omesso la liquidazione delle spese processuali. Con la sua decisione avverso la sentenza non definitiva tale giudice aveva definito il giudizio di gravame e nessuna rilevanza poteva avere che il processo seguitasse oppur no per la determinazione del quantum. Il principio da applicare, ha precisato la Corte, è lo stesso affermato dalle pronunce giurisprudenziali che hanno ritenuto ricorribile immediatamente per cassazione la sentenza di secondo grado che definisce il giudizio di appello avverso una sentenza non definitiva, sull'assunto che pronunciando su tutte le questioni proposte, esso esaurisce la fase del giudizio d'appello: la sentenza infatti deve essere considerata come definitiva e non suscettibile di riserva di impugnazione differita, a nulla rilevando la prosecuzione del giudizio di primo grado per l'accertamento del quantum debeatur (Cass. civ., sez. lav., 29 gennaio 1993, n. 1105; Cass. civ., sez. II, 14 luglio 1988, n. 4607). Esiste anche una ragione di ordine pratico a sostegno dell'arresto giurisprudenziale. Non sempre il giudizio sul quantum prosegue, dopo la pronuncia che dichiara il diritto dell'attore alla prestazione: le parti, assodato questo punto, possono raggiungere l'accordo che era mancato o il convenuto può abbandonare ogni resistenza, rivelatasi ormai probabilmente inutile e defatigante. In questi casi se il giudice di appello rimette la liquidazione delle spese al definitivo le spese non saranno mai sottoposte al vaglio del giudice, con la prospettiva di doverne fare richiesta in un apposito giudizio in difetto di assenso della parte perdente.

La sentenza aggiunge che la soluzione proposta al quesito di cui al ricorso si conforma al ricordato insegnamento delle Sezioni unite soprattutto là dove aveva affermato che il rispetto dei principi (da esse richiamati) di economia processuale e di ragionevole durata del processo) risulta in ultima analisi un adattamento in sede processuale del principio di conservazione degli atti, noto nel diritto sostanziale ma sussistente anche nella vita del processo, nel senso di valorizzazione dello strumento processuale nella massima ampiezza delle sue potenzialità risolutorie e stabilizzanti, con orientamento ossequiente a noti paradigmi sovranazionali, quali quello di cui all'art. 6, par. 1 CEDU.

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