Separazione e assegno di mantenimento: sparisce il criterio del tenore di vita?

31 Ottobre 2019

L'addebito non è una conseguenza automatica della violazione dei doveri coniugali e l'assegno di mantenimento dovuto in seguito alla separazione non deve essere calcolato con riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.
Massima

L'addebito non è una conseguenza automatica della violazione dei doveri coniugali e l'assegno di mantenimento dovuto in seguito alla separazione non deve essere calcolato con riferimento al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio.

Il caso

Nell'ambito di un procedimento per separazione giudiziale, la moglie ha chiesto che fosse dichiarato l'addebito al marito e le fosse riconosciuto un assegno di mantenimento dell'importo di € 400,00; il Tribunale ha respinto entrambe le domande. A seguito di appello, la corte territoriale, in parziale accoglimento del gravame, ha onerato il marito del versamento di un assegno di € 170,00 mensili, affermando che i comportamenti ascritti al coniuge – sebbene provati – non erano idonei a causare la crisi coniugale, mentre sussiste una «relativa differenza di capacità reddituale, una difficile situazione economica della moglie tali da giustificare il riconoscimento di un assegno in suo favore, sia pure in misura ridotta, tenuto conto della breve durata del matrimonio».

Avverso la decisione la moglie ha proposto ricorso per cassazione deducendo: che non era stato correttamente valutato che le condotte osservate dal marito costituivano violazione dei doveri coniugali e che a tali violazioni doveva conseguire automaticamente la pronuncia di addebito; la mancata pronuncia in ordine alla decorrenza del diritto all'assegno; l'omesso esame delle istanze relative alla richiesta di esibizione ed informazione ex art 210 e 213 c.p.c. al fine di accertare l'effettiva capacità contributiva del marito; infine, la mancata pronuncia sulle spese del primo grado.

La questione

Quali sono i requisiti per la pronuncia di addebito della separazione e quali i criteri da utilizzare per determinare l'ammontare dell'assegno di mantenimento.

Le soluzioni giuridiche

Con l'ordinanza del 19 giugno 2019 la Corte ha, preliminarmente, ribadito un principio pacifico e consolidato nel tempo: la pronuncia di addebito non consegue automaticamente alla dimostrazione dell'avvenuta violazione dei doveri coniugali, pertanto, il coniuge che lo richiede deve provare non solo che l'altro ha tenuto una condotta contraria ai doveri che nascono dal matrimonio, ma deve altresì dimostrare la sussistenza del nesso eziologico tra tali comportamenti e il fatto che la prosecuzione della convivenza sia divenuta intollerabile. L'addebito deve quindi escludersi se è accertata la mancanza di nesso causale tra violazione e crisi coniugale, all'esito di una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi – da compiere in maniera rigorosa - da cui risulti inequivocabilmente che la crisi coniugale era già irrimediabilmente in atto.

Ne consegue che «è onere di chi eccepisce l'inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda (...) provare le circostanze su cui l'eccezione si fonda, vale a dire l'anteriorità della crisi matrimoniale» (tra le più recenti, Cass. civ. sez. VI, 19 febbraio 2018, n. 3923 e Trib. Catania sez. I, 23 febbraio 2019, n. 826; Trib. Novara 24 gennaio 2019, n. 76; App. Catanzaro, sez. I, 22 gennaio 2019, n. 99).

Con riferimento alla richiesta di onerare il coniuge di un assegno di mantenimento di importo superiore a quello riconosciuto dalla corte territoriale, gli ermellini, nel rigettare il ricorso, hanno affermato i seguenti principi:

1. che la durata del matrimonio è un elemento rilevante per la determinazione dell'ammontare dell'assegno di mantenimento;

2. che quella relativa alle differenze di reddito tra i coniugi è una valutazione di fatto, non sindacabile nel giudizio di legittimità;

3. che la funzione dell'assegno non è quella di realizzare un tendenziale ripristino del tenore di vita goduto dai coniugi nel corso del matrimonio, ma di assicurare un contributo che consenta al beneficiato di conseguire un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare.

Il primo principio richiama ancora una volta la giurisprudenza consolidata - sia di merito sia di legittimità – che afferma che se la breve durata del matrimonio non è ostativa al riconoscimento del diritto all'assegno di mantenimento, tuttavia tale elemento è rilevante al fine della determinazione della misura del medesimo (Cass. civ. sez. I, 18 gennaio 2017, n. 1162; Trib. Milano, sez. IX, 2 dicembre 2014, n. 14269).

Sempre con riferimento al motivo di ricorso con il quale si lamentava l'errata quantificazione del contributo per il mantenimento, la Suprema Corte ha evidenziato altresì che non poteva essere censurata la decisione di merito per aver calcolato l'importo tenendo conto solamente dei redditi relativi all'anno 2014 e non a quelli successivi - in relazione ai quali erano state formulate istanze di esibizione e di acquisizione di documentazione - sia perché trattasi di questione di merito non sindacabile in sede di legittimità, sia per difetto di autosufficienza del riscorso, che non consentiva di comprendere quali fossero gli elementi dai quali dedurre la sussistenza di un incremento dei redditi del marito.

Fatta tale premessa, la Corte ha dichiarato, però, che deve essere “ribadito” che la funzione dell'assegno di mantenimento non è più quella di realizzare un tendenziale ripristino del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, con un completo revirement rispetto a quanto affermato in precedenza.

L'art. 156 c.c., infatti, è sempre stato interpretato nel senso di ritenere che i “redditi adeguati" indicati nella norma, ai quali deve essere rapportato l'assegno di mantenimento in favore del coniuge, fossero quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto durante il matrimonio. Tale interpretazione trovava la propria giustificazione nella considerazione che con la separazione personale il vincolo coniugale permane e, conseguentemente, resta fermo il dovere di assistenza materiale tra i coniugi, che non è incompatibile con la condizione di separazione, dalla quale deriva solo una sospensione degli obblighi di natura personale (fedeltà, convivenza e collaborazione) e che ha una consistenza diversa dalla solidarietà post-coniugale, che invece costituisce il presupposto dell'assegno divorzile.

Tale principio è stato ribadito anche recentemente (Cass. civ., sez. VI, 20 marzo 2018, n. 6886) sia pure con la precisazione che il richiedente non deve aver creato le condizioni che hanno poi determinato la differenza di redditi, omettendo colpevolmente di attivarsi per reperire un'occupazione lavorativa idonea alle proprie capacità e attitudini.

A tale riguardo, si è altresì precisato che è irrilevante il fatto che sia stato tollerato un tenore di vita assai modesto, laddove sia comunque comprovata una consistente disparità economica tra le parti, in quanto il concetto di “tenore di vita coniugale” deve essere desunto dalle “potenzialità economiche del coniugi, ossia dall'ammontare complessivo dei loro redditi e dalle loro disponibilità patrimoniali” (Cass. civ. sez. I, 15 gennaio 2018, n. 770).

Sul punto, quindi, l'ordinanza in commento risulta decisamente innovativa, atteso che vengono applicati anche nella separazione i criteri adottati per la quantificazione dell'assegno di divorzio (richiamati mediante l'espresso riferimento alla pronuncia delle Sezioni Unite Cass. civ., sez. un. 11 luglio 2018, n. 18287).

In riferimento agli ultimi due motivi di ricorso, la Corte ha affermato che la mancata indicazione, nella sentenza impugnata, del termine di decorrenza del diritto a percepire l'assegno deve essere interpretata come “indicazione implicita” del fatto che lo stesso decorra dalla data della domanda, in applicazione del principio in virtù del quale un diritto non può restare impregiudicato dal trascorrere del tempo necessario per farlo valere in giudizio.

Sull'ultimo motivo di gravame - relativo alla mancata pronuncia sulle spese del giudizio di primo grado – infine, il giudice di legittimità ha evidenziato che la corte di merito ha, da un lato, preso atto dell'omessa specifica contestazione sul punto e, dall'altro, operato una «sostanziale compensazione tra due gradi di giudizio»: in primo grado infatti il Tribunale – sebbene la moglie fosse totalmente soccombente – l'aveva condannata alla rifusione della sola metà delle spese di lite, mentre in appello era stato il marito ad essere condannato a rifondere la metà delle spese legali, a fronte di un accoglimento parziale del gravame.

Osservazioni

L'ordinanza in commento, per quanto attiene ai requisiti per la pronuncia di addebito, si è attenuta scrupolosamente al principio ormai consolidato in forza del quale la domanda non può fondarsi esclusivamente sulla prova della violazione dei doveri che l'art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, essendo invece necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza (Cass. civ. sez. VI, 12 maggio 2017, n. 11929).

Con riferimento, invece, all'affermazione relativa alla finalità dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge “debole” la decisione merita qualche riflessione.

È noto che con la separazione non viene meno il vincolo coniugale, con la conseguenza che un legame tra i coniugi rimane, sia pure in maniera affievolita: tale considerazione ha portato la dottrina e la giurisprudenza ad affermare che con la separazione non viene meno il dovere di assistenza materiale tra i coniugi e che, proprio per questo motivo, si deve fare in modo di garantire ad entrambi, per quanto possibile, il regime di vita precedente la crisi coniugale.

Con l'andare del tempo, però, tale principio è andato via via affievolendosi, talché è stato dato rilievo - come nella fattispecie – alla durata del matrimonio, tanto da escludere il diritto al mantenimento quando il legame sia stato di durata assai breve. Più recentemente si è dato risalto anche all'incolpevole inerzia del coniuge titolare di reddito inferiore, rilevando che la sussistenza del vincolo di coniugio non esime la parte più debole dal dovere di operarsi fattivamente e concretamente per trovare un'idonea occupazione, che gli consenta di sostenersi dopo la crisi coniugale.

Con riferimento alla richiesta di riduzione dell'assegno in seguito al peggioramento delle condizioni economiche dell'onerato, inoltre, già in precedenza si è affermato che il titolare – che si oppone alla richiesta – non può invocare unicamente la necessità di mantenere il tenore di vita precedente: una volta operata la comparazione tra i redditi percepiti e, più in generale, della condizione patrimoniale delle parti, l'assegno deve essere determinato tenendo conto non solo del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma anche dell'eventuale progressiva diminuzione delle possibilità economiche dell'onerato (App. Roma 20 dicembre 2013, n. 644 confermata da Cass. civ., sez. I, 28 giugno 2017, n. 16190 che, pur limitandosi ad affermare la correttezza della valutazione dei redditi operata dalla corte territoriale, non ha negato il principio dalla medesima applicato, in virtù del quale il decremento delle risorse giustifica la riduzione dell'assegno anche se l'importo ridotto non consente di mantenere il precedente tenore di vita).

Si erano quindi già determinate della “aperture” che potevano far pensare ad un superamento del riferimento al tenore di vita, anche se non sono mancate decisioni che, invece, lo hanno riaffermato, sia pure con le precisazioni suindicate.

Con la pronuncia in esame, invece, la Suprema Corte ha affermato non solo che quello del tenore di vita è un criterio che non deve più essere utilizzato, ma, soprattutto, che la funzione dell'assegno di separazione è quella di consentire al coniuge economicamente più debole di realizzare un livello reddituale «adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare», alla stregua di quanto previsto dall'art. 5 della legge sul divorzio, come interpretata successivamente alla pronuncia delle Sezioni Unite n. 18287/2018.

Viene quindi definitivamente meno, anche in ipotesi di separazione, il diritto di continuare ad mantenere le stesse condizioni di vita, ma sarà possibile ottenere un contributo al proprio mantenimento unicamente se si dimostra che si è partecipato concretamente alla realizzazione del progetto di vita matrimoniale.

Viene però da chiedersi a questo punto quale sia, e se vi sia, una differenza ontologica con l'assegno divorzile e, nello stesso tempo, non si può dimenticare che i due istituti sono disciplinati da norme diverse, formulate con termini differenti, e che tale circostanza non può restare irrilevante.

L'art. 156 c.c. infatti fa riferimento alla necessità di “ricevere quanto necessario al mantenimento” in mancanza di “redditi propri”, mentre l'art. 5 l. n. 898/1970 si riferisce genericamente allo “assegno” - senza alcun richiamo alla necessità di doversi mantenere - per colui che è privo di “mezzi adeguati” – che, evidentemente, sono cosa diversa dal reddito - e non è in grado di procurarseli per “ragioni oggettive”.

È evidente che negli ultimi tempi l'applicazione pratica delle norme che disciplinano il diritto al mantenimento – nate per riequilibrare le posizioni dei due coniugi, in un'epoca in cui le donne erano generalmente prive di redditi propri – ha creato, in alcuni casi, situazioni di ingiustizia sostanziale e si ha l'impressione che le recenti pronunce giudiziali stiano cercando, con interpretazioni restrittive, di evitare che la crisi coniugale possa determinare ingiustificati vantaggi economici, ma questo non fa che confermare che è ormai urgente una riforma complessiva ed organica del sistema che, invece, il legislatore continua a rinviare.

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