Conseguenze derivanti dalla falsa attestazione di non aver riportato condanne per essere assunto nel pubblico impiego

04 Novembre 2019

Con la sentenza che si annota la Corte di Cassazione è tornata a occuparsi delle conseguenze penali derivanti dalle false attestazioni rese in sede di compilazione della domanda di inserimento nelle graduatorie per l'accesso al pubblico impiego.Nella vicenda in esame, l'imputato...
Massima

La falsa attestazione di non aver avuto condanne penali per ottenere un lavoro nel pubblico impiego non è punibile quando concerne una sentenza di patteggiamento con pena della reclusione non superiore a 2 anni. L'interessato non ha pertanto alcun obbligo di riferirne l'esistenza, come di recente stabilito dal nuovo art. 28, comma 8, d.P.R. n. 313/2002.

Il caso

Con la sentenza che si annota la Corte di Cassazione è tornata a occuparsi delle conseguenze penali derivanti dalle false attestazioni rese in sede di compilazione della domanda di inserimento nelle graduatorie per l'accesso al pubblico impiego.

Nella vicenda in esame, l'imputato aveva presentato domanda di inserimento nelle graduatorie del personale ATA per il triennio 2011-2014, omettendo però di riferire che in precedenza aveva subìto una condanna con sentenza di patteggiamento. Per tale ragione, era stato tratto in giudizio per rispondere del reato di falso ideologico in atto pubblico (art. 483 c.p.) in continuazione con il reato di truffa aggravata (art. 640, comma 2, n. 1 c.p.), atteso che dalle mendaci dichiarazioni aveva in seguito ottenuto un contratto di lavoro a tempo determinato.

La Corte d'appello di Ancona, in riforma della sentenza di primo grado, pronunciava sentenza di condanna per entrambi i reati. L'imputato proponeva quindi ricorso per cassazione, affidandolo a tre motivi.

La questione

Con il primo motivo, osservava che la sentenza di patteggiamento non può essere equiparata a una sentenza di condanna, in ragione della natura e degli effetti diversi, così come specificati nell'art. 445 c.p.p.

Con il secondo motivo, sottolineava che il modulo dichiarativo faceva riferimento a “condanne penali” senza menzionare il differente genus del patteggiamento. Di conseguenza, non poteva pretendersi nulla di diverso dall'interpretazione “letterale” della domanda sottoposta all'imputato che, nella specie, aveva agito in assenza di dolo e sulla base di un errore comunque giustificabile.

Con il terzo motivo, lamentava infine la mancata concessione della sospensione condizionale della pena, negata dalla Corte territoriale sulla scorta della precedente fruizione del beneficio, senza però spiegare per quale ragione non potesse essere ricondotta nel limite di 2 anni stabilito dall'art. 163 c.p.

Su tali questioni la Corte di Cassazione è intervenuta, soffermandosi principalmente sulla natura della dichiarazione presentata dall'imputato e sugli effetti riconosciuti dalla legge.

Le soluzioni giuridiche

Più nel dettaglio, i Giudici di legittimità hanno osservato che l'imputato aveva sottoscritto una dichiarazione sostitutiva di un atto notorio, che trova la sua disciplina nell'art. 46, comma 1 lett. aa) d.P.R. n. 445/2000.

Tale norma si occupa delle dichiarazioni sostitutive delle certificazioni attinenti a stati, qualità personali e fatti, includendo nella sua elencazione anche: “non aver riportato condanne penali e … non essere destinatario di provvedimenti che riguardano l'applicazione di misure di prevenzione, di decisioni civili e di provvedimenti amministrativi iscritti nel casellario giudiziale ai sensi della vigente normativa”.

La questione controversa è dunque se vi fosse un obbligo da parte dell'imputato di dichiarare la precedente condanna con sentenza patteggiata a 4 mesi di reclusione.

Su tale aspetto, la Suprema Corte ha preliminarmente ricordato che, in epoca antecedente ai fatti di causa, la fattispecie era regolata dall'art. 688, comma 1, c.p.p., in base al quale ogni organo avente giurisdizione penale ha diritto di ottenere, per ragioni di giustizia penale, il certificato di “tutte le iscrizioni esistenti al nome di una determinata persona”. La norma precisava inoltre che “uguale diritto” è riconosciuto a tutte le amministrazioni pubbliche e agli enti incaricati di pubblici servizi “quando il certificato è necessario per provvedere a un atto delle loro funzioni”.

In aggiunta a ciò, l'art. 175 c.p.p. disponeva però che, se con una prima condanna è stata inflitta una pena non superiore a 2 anni, ovvero una pena pecuniaria non superiore ad Euro 516, il Giudice può ordinare in sentenza che non sia fatta menzione della condanna “nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati”.

Dalle disposizioni sopra citate la Corte ha ricavato che, in base alla normativa anteriore ai fatti di causa: nei certificati richiesti dalle pubbliche amministrazioni dovevano risultare anche le iscrizioni inerenti le sentenze di applicazione della pena su richiesta; ciò a prescindere dall'eventuale beneficio della non menzione concesso ai sensi dell'art. 175 c.p.p. per condanne inferiori a 2 anni di reclusione, essendo quest'ultimo riferibile ai soli certificati penali richiesti da privati.

Il quadro normativo è progressivamente mutato con l'entrata in vigore del d.P.R. 14 novembre 2002 n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti).

È stato infatti abrogato l'art. 688 c.p.p., mentre all'art. 28 d.P.R. n. 313/2002 (nella sua iniziale formulazione) è stato previsto che le amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi hanno diritto di ottenere i “certificati di cui all'art. 23 e all'art. 27” relativi a persone maggiori di età, “quando tale certificato è necessario per l'esercizio delle loro funzioni”.

Più nel dettaglio, il rinvio all'art. 23 d.P.R. n. 313/2002 permette alle pubbliche amministrazioni di ottenere il certificato generale, il certificato penale e il certificato civile di cui agli artt. 24, 25 e 26 rilasciati a privati. Il rinvio all'art. 27 D.P.R. n. 313/2002 consente invece di ottenere il certificato dei carichi pendenti rilasciato ai privati.

Sul punto, osserva la Corte che tanto il certificato generale (art. 24 co. 1 lett. e d.P.R. n. 313/2002) quanto il certificato penale del casellario (art. 25 ,comma 1, lett. e) d.P.R. n. 313/2002) prevedono l'annotazione di tutte le iscrizioni presenti nel casellario giudiziale rilasciato all'autorità giudiziaria penale “ad eccezione di quelle relative a … provvedimenti previsti dall'art. 445 c.p.p. e ai decreti penali”.

Si tratta di una puntualizzazione legislativa assai significativa, in quanto – rispetto all'abrogato art. 688 c.p.p. – è venuta meno quella generale “equiparazione” tra la pubblica amministrazione e l'autorità giudiziaria in relazione al contenuto del certificato del casellario richiesto per finalità istituzionali.

La normativa prevede infatti che l'autorità giudiziaria conservi il potere – per ragioni di giustizia penale – di ottenere il certificato di tutte le iscrizioni esistenti al nome di una determinata persona, senza i limiti della non menzione di cui all'art. 175 c.p. Diversamente, si riconosce alla pubblica amministrazione e ai gestori di pubblici servizi il potere di ottenere soltanto i “certificati di cui all'art. 23 e all'art. 27”, vale a dire il certificato generale, quello penale, quello civile e quello dei carichi pendenti, ma con le “esclusioni” sopra indicate.

Dall'insieme delle disposizioni richiamate la Suprema Corte ricava che: quando l'imputato redigeva la dichiarazione con l'atto sostitutivo di un atto notorio non era affatto tenuto a dichiarare nulla di più di quanto sarebbe risultato dal certificato penale di cui all'art. 25 co. 1 lett. e) D.P.R. n. 313/2002, che esclude espressamente la sentenza di patteggiamento.

I Giudici delle leggi hanno inoltre aggiunto che tale approdo esegetico trova una più puntuale conferma nella nuova formulazione dell'art. 28 D.P.R. n. 313/2002, a seguito delle modifiche introdotte con il d.lgs. 02.10.2018, n. 122.

Più precisamente, l'art. 28 co. 8 del decreto citato stabilisce che: “l'interessato che, a norma degli artt. 46 e 47 D.P.R. 28 dicembre 2000 n. 445, rende dichiarazioni sostitutive all'esistenza nel casellario giudiziale di iscrizioni a suo carico, non è tenuto ad indicare la presenza di quelle di cui […] all'art. 24 co. 1”.

L'interessato, pertanto, non ha l'obbligo di indicare – neppure in sede di dichiarazioni sostitutive di certificazioni – le iscrizioni dei provvedimenti previsti dall'art. 445 c.p.p. quando la pena irrogata non superi i 2 anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria” (art. 24, comma 1, lett. e) d.P.R. n. 313/2002).

Per tali ragioni, i Giudici di legittimità hanno disposto l'annullamento senza rinvio della sentenza di secondo grado perché il fatto non sussiste.

Osservazioni

La Corte di Cassazione, con una pronuncia senz'altro innovativa, ha ridefinito la portata applicativa del reato dell'art. 483 c.p. per le ipotesi di dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà. In particolare, ha stabilito che, rispetto al passato, la nuova disciplina ha posto un limite al contenuto delle iscrizioni presenti nei certificati del casellario accedibili alle pubbliche amministrazioni.

A questo riguardo, l'esclusione delle annotazioni relative a sentenza di patteggiamento con pena non superiore a 2 anni di reclusione consente al privato – chiamato a rendere dichiarazioni sostitutive di certificazioni ai sensi degli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000 per usi amministrativi – di non farne espressamente menzione in sede di compilazione o rilascio delle suddette dichiarazioni.

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