Struttura ospedaliera complessa: responsabilità del primario e “delega di funzioni”

Vittorio Nizza
07 Novembre 2019

La Corte nella sentenza in oggetto analizza la problematica della cooperazione colposa ex art. 113 c.p. tra le condotte dei vari sanitari intervenuti sul piccolo paziente e, in particolare, considera il ruolo del medico che rivesta una posizione apicale, nel caso di specie il primario del reparto
Massima

Il medico in posizione apicale che abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo, non risponde dell'evento lesivo conseguente alla condotta colposa del medico di livello funzionale inferiore a cui abbia trasferito la cura del singolo paziente, altrimenti configurandosi una responsabilità di posizione, in contrasto con il principio costituzionale di personalità della responsabilità penale (La S.C. in applicazione di tale principio, ha escluso la responsabilità penale di un primario di reparto per l'omicidio colposo di un paziente che non aveva visitato personalmente, verificatosi nell'arco di dieci giorni, senza che in tale ambito temporale gli fosse segnalato nulla dai medici della struttura).

Il caso

La vicenda riguardava il decesso di un giovane paziente in conseguenza di peritonite, cid, acidosi metabolica e respiratoria, insufficienza multiorganica e shock settico in soggetto operato per invaginazione intestinale e per ernia diaframmatica. Il giovane paziente era stato portato al pronto soccorso pediatrico a causa di uno stato patologico ed immediatamente ricoverato, durante i dieci giorni di degenza era stato sottoposto a due interventi chirurgici, prima del decesso.

Nella complessa vicenda clinica erano state individuate ipotesi di responsabilità in capo a tutti i medici intervenuti. Ai medici del reparto era stata contestata una sottovalutazione dei sintomi, con omissione degli specifici accertamenti clinici e conseguente ritardo nella formulazione della corretta diagnosi e predisposizione degli interventi chirurgici. Ai medici chirurghi venivano contestati una serie di errori nell'esecuzione di entrambi gli interventi.

Veniva inoltre imputato il primario del reparto per la mancata verifica dell'appropriatezza della diagnosi e delle terapie, condotta a cui era tenuto per la sua posizione apicale e direttiva.

La sentenza di appello, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, dichiarava prescritto il reato di omicidio colposo contestato ai medici del reparto, mentre assolveva i due chirurghi perché il fatto non costituisce reato.

Avverso la sentenza della Corte d'Appello proponevano ricorso le difese di tutti i medici del reparto presso cui il piccolo paziente era stato ricoverato e le parte civili.

La Corte di Cassazione annullava senza rinvio la sentenza nei confronti del solo primario per non aver commesso il fatto, mentre annullava agli effetti civili nei confronti di tutti gli altri imputati con rinvio al giudice civile competente.

La questione

La Corte nella sentenza in oggetto analizza la problematica della cooperazione colposa ex art. 113 c.p. tra le condotte dei vari sanitari intervenuti sul piccolo paziente e, in particolare, considera il ruolo del medico che rivesta una posizione apicale, nel caso di specie il primario del reparto.

Le soluzioni giuridiche

La Corte preliminarmente critica la sentenza impugnata, evidenziando come nel caso di specie non si tratti tanto di un'ipotesi di responsabilità medica di equipe, ma sia più opportuno riferirsi al tema della cooperazione colposa ex art. 113 c.p.

Per il configurarsi del concorso di persone del reato, secondo la giurisprudenza consolidata, è sufficiente la consapevolezza della partecipazione di altri soggetti, indipendentemente dalla specifica conoscenza sia delle persone che operano sia delle specifiche condotte da ciascuna poste in essere. Nel caso di specie, i sanitari intervenuti che in successione avevano visitato la piccola vittima erano tutti consapevoli che altri medici si erano occupati o si sarebbero occupati del medesimo paziente.

In materia rileva il principio di affidamento, che trova però il suo limite nel fatto che il soggetto che lo invoca verta a sua volta in colpa. “Quando il soggetto su cui grava l'obbligo di garanzia abbia posto in essere una condotta colposa, con efficienza causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa di chi sia intervenuto successivamente, persiste la responsabilità del primo soggetto, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che tuttavia deve aver avuto caratteristiche di eccezionalità tali da far venir meno la situazione di pericolo originariamente provocata o tali da modificare la pregressa situazione, a tal punto da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata”.

In ogni caso, specifica la suprema Corte, anche in ipotesi di cooperazione colposa non può prescindersi dall'accertamento del nesso causale in relazione a ogni singola posizione dei sanitari intervenuti. Tale valutazione deve essere effettuata attraverso il ricorso al c.d. giudizio controfattuale, previa esatta ricostruzione della sequenza causale che ha condotto all'evento. In ambito medico è necessario ricostruire tutto il decorso della malattia, dal momento inziale, in particolare individuando tutti gli elementi rilevanti della sua causa. Solo in tal modo, infatti, è possibile analizzare le singole condotte omissive colpose addebitabili a ciascun sanitario.

Il giudizio controfattuale, secondo l'insegnamento delle SS.UU. del 2002 (sent. Franzese) deve essere condotto sulla base di un coefficiente di probabilità non automaticamente dedotto dalla legge di copertura utilizzata, ma verificato nel caso concreto, sulla base delle circostanze di fatto e dell'evidenza disponibile, che porti in giudice ha ritenere all'esito del ragionamento probatorio che la condotta omissiva del medico, esclusa l'interferenza di fattori eziologici alternativi, è stata condizione necessaria dell'evento lesivo “con alto grado di probabilità logica”. Stante le specificità dell'attività medica, la giurisprudenza ha anche precisato che il nesso di causalità sussiste anche quando la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, non solo nel senso che l'evento non si sarebbe verificato, ma anche che si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minor intensità della sintomatologia dolorosa.

Nella sentenza in oggetto, la Corte evidenzia come la problematica del nesso causale non sia stata adeguatamente ricostruita nel tessuto motivazionale della sentenza impugnata che pertanto annulla ai soli effetti civili con rinvio nei confronti di tutti gli imputati, ad accezione del primario del reparto, sia quelli per i quali era stata confermata la sentenza in appello, sia nei confronti dei due chirurghi assolti.

La Corte analizza infine la posizione del primario del reparto ove il piccolo paziente venne ricoverato per una decina di giorni. La disciplina di settore attribuisce al medico in posizione apicale non solo compiti medico-chirurgici, ma anche l'obbligo di distribuire il lavoro tra i medici del reparto e di verificare che le direttive e le istruzioni impartite vengano correttamente attuate.

I possibili profili di colpa in cui può incorrere il medico in posizione apicale possono essere ricondotti alla c.d. culpa in eligendo e alla c.d. culpa in vigilando. La prima attiene al momento della distribuzione del lavoro, con una scelta inadeguata del soggetto chiamato a cui vinee affidato il paziente. La seconda, invece, si verifica qualora non vengano esercitati i poteri di direttiva e controllo e rappresenta la tipologia di colpa addebitata nel caso di specie al primario.

Specifica però la Corte nella sentenza in commento come si debba però escludere che il medico di vertice abbia effettivamente in carico tutti i malati ricoverati nel proprio reparto. La divisione del lavoro e l'assegnazione dei pazienti ai vari medici del reparto ha infatti la finalità di razionalizzare l'erogazione del servizio e risponde anche ad esigenze di carattere cautelare per il paziente, che potrà ricevere cure più efficaci ed efficienti essendo stato affidato a medici specificatamente incaricati di seguirne il decorso diagnostico-terapeutico.

L'assegnazione dei pazienti ai medici del reparto rappresenta una vera a propria “delega di funzioni impeditive dell'evento”. In capo al medico delegante rimarrebbe un obbligo di vigilanza e controllo sull'operato altrui: tale obbligo di controllo, specifica però la Corte, non può essere tanto pervasivo da non consentire alcun margine di affidamento sull'operato altrui, diversamente si finirebbe per rendere il medico in posizione apicale responsabile per ogni evento lesivo verificatosi presso il suo reparto a prescindere da fattori quali le dimensioni della struttura, il numero di pazienti ricoverati, l'assegnazione degli stessi a medici di livello funzionale inferiore, ma comunque dotati per legge di un'autonomia professionale il cui rispetto è imposto alla stessa figura apicale.

Secondo la Corte, pertanto, occorre verificare che il medico in posizione apicale abbia correttamente svolto i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo: in tali casi, qualora si verifichi un evento infausto nel suo reparto, di tale evento risponderà unicamente il medico o i medici subordinati a cui il paziente era stato affidato. Diversamente, infatti, si finirebbe per configurare in capo al primario una responsabilità per posizione, non potendosi pretendere che il vertice di un reparto possa controllare tutte le attività che vi si svolgono. Lo stesso quindi non sarebbe tenuto a valutare tutti i casi che entrano in reparto, a meno che non gli venga segnalata la portata anomala.

Nel caso di specie, il paziente era rimasto in reparto dieci giorni, durante i quali il primario non lo aveva mai visitato poiché non era stato coinvolto nella gestione del caso da nessuno dei medici a cui era stato assegnato.

La Corte pertanto conclude ritendo di dover assolvere il primario del reparto per non aver commesso il fatto, con l'annullamento della sentenza senza rinvio.

Osservazioni

La sentenza in commento rappresenta una pronuncia in controtendenza rispetto alla giurisprudenza maggioritaria in materia di colpa medica rispetto alla posizione del primario o del responsabile di reparto. In ambito medico è ormai abituale che il medesimo caso clinico sia sottoposto all'attenzione di più sanitari, della medesima o di specialità differenti. Tutti i medici sono comunque mossi dalla medesima finalità di perseguire la tutela della salute del paziente.

Secondo un orientamento prevalente, infatti, in ambito medico trova applicazione il “principio di affidamento”, che consente ai sanitari che si trovino ad operare nell'ambito del medesimo caso clinico, di confidare che i colleghi coinvolti operino secondo le regole della miglior scienza ed esperienza. Ciascuno pertanto risponderà esclusivamente degli errori derivanti dalla propria condotta. In principio di affidamento è espressione del principio costituzionale della responsabilità penale ed è posto a tutela non solo del singolo operatore, ma del paziente stesso, perché consente al medico di concentrarsi prevalentemente sul proprio operato. La giurisprudenza, ormai consolidata, ha individuato due limiti al principio suddetto. In primo luogo, il medico che confida nel corretto operato altrui non deve vertere in colpa, non può cioè confidare che gli altri emendino il suo eventuale errore. In secondo luogo, ciascun medico è tenuto comunque a intervenire per correggere eventuali errori altrui qualora siano evidenti e dunque rilevabili ed emendabili, anche senza le conoscenze specialistiche: diversamente sarà chiamato a sua volta a risponderne.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria, inoltre, deve tenersi in considerazione anche la specifica posizione rivestita da ciascun sanitario intervenuto, ossia è diversa la valutazione da effettuarsi rispetto alla condotta dello specializzando rispetto a quella del primario o del capo-equipe. Il primario di un reparto ospedaliero, infatti, secondo la normativa, ha come compiti non solo la cura del paziente ma anche la gestione del reparto, ossia la corretta distribuzione del lavoro e la verifica che le sue direttive vengano rispettate. Potrebbe essere chiamato a rispondere anche per un errore commesso da un medico del proprio reparto per colpa in eligendo, ossia per aver affidato ad esempio un paziente ad un medico senza le adeguate capacità o già eccessivamente carico di lavoro, o per colpa in vigilando, ossia non aver verificato che le sue indicazioni venissero eseguite.

La giurisprudenza maggioritaria è piuttosto rigida nel giudicare la posizione del primario, in particolare in relazione alla colpa in vigilando, per non aver posto in essere adeguati controlli sulle cure prestate dei medici a lui sottoposti. In molti casi sono stati riconosciuti compiti al capo primario o al capo equipe che non possono essere affidati ad altro personale (si veda ad esempio il conteggio della strumentazione all'esito di un intervento chirurgico – Cass. Pen. 7346/2014).

La sentenza in commento si inserisce i un filone giurisprudenziale minoritario che enfatizza il ruolo di coordinatore del capo-reparto, al quale non può essere richiesto di analizzare tutti i casi dei soggetti che vengono ricoverati presso il suo reparto.

In realtà, nel caso di specie la Cassazione avvicina il concetto dell'organizzazione in ambito sanitario a quella aziendale, infatti equipara l'affidamento del paziente al singolo medico del reparto come una vera e propria “delega di funzioni”. In questo modo si avrebbe un trasferimento della posizione di garanzia dal primario al singolo sanitario; rimarrebbe comunque al capo-reparto un dovere di vigilanza del rispetto delle sue disposizioni. La sentenza in oggetto sembrerebbe però escludere che il primario sia tenuto ad informarsi sul decorso clinico di tutti i pazienti, proprio perché non sarebbe possibile per lo stesso visitarli tutti, ma solo nei casi in cui venga coinvolto dai medici che hanno in cura il paziente.

Nel caso di specie la Corte ha quindi ritenuto di mandare assolto il primario proprio perché aveva correttamente gestito il proprio reparto sia sotto il profilo dell'attribuzione dei compiti e sia sotto quella di vigilanza, poiché non era mai stato interpellato dei suoi sanitari nei dieci giorni di ricovero della persona offesa.

Tale decisione che suscita alcune perplessità, posto che il decorso ospedaliero del giovane paziente pare essere stato caratterizzato da una serie di mancanze dei vari medici che si sono succeduti, sia nell'errore e/o ritardo nella diagnosi, sia nella tardiva effettuazione degli esami diagnostici. Tra l'altro in una condizione di costante declino delle condizioni generali del giovane paziente. Sebbene possa essere condivisibile sotto certi aspetti la considerazione della Corte per cui non si possa prendere che il primario visiti tutti i pazienti – in particolare in base alle dimensioni del reparto - non è però ben chiaro quali siano allora i contenuti del dovere di indirizzo, vigilanza e controllo che permane in capo allo stesso rispetto all'operato dei delegati. Nel dovere di controllo non rientrerebbe, sembrerebbe affermarsi in sentenza, nemmeno un onere di informarsi sul decorso clinico: infatti la sentenza assolutoria afferma che il primario non venne mai informato di alcuna anomalia, non venne coinvolto nella gestione del caso dagli atri medici e quindi non visitò mail il bambino. Il dovere di informazione si avrebbe solo ove il caso venisse portato all'attenzione del primario.

Sembrerebbe quasi una delega di funzioni “totale” con un vero e proprio trasferimento della posizione di garanzia. In tal modo sicuramente la Corte sposa quell'orientamento che riconosce in capo al primario un ruolo, anche a seguito dell'evoluzione legislativa, più “gestionale – amministrativo” che “clinico” all'interno della struttura ospedaliera. Però la struttura ospedaliera è comunque molto diversa da una realtà aziendale dove in sistema della “delega di funzioni” consente al datore di lavoro, l'unico che instaura un rapporto con i dipendenti, di trasferire alcune funzioni e quindi responsabilità (ossia della posizione di garanzia), a delle figure intermedie che in base alla struttura aziendale stessa meglio possono per alcuni aspetti interagire direttamente con il lavoratore, ossia il soggetto “da proteggere”.

Insomma: nel momento in cui il paziente accede ad una struttura ospedaliera, il singolo medico che lo prende in cura ha già una posizione di garanzia nei suoi confronti che deriva dell'instaurazione della relazione terapeutica medico-paziente, indipendentemente da alcuna delega che gli provenga da medici in posizione sovraordinata. Il singolo medico, tra l'altro, ha anche per legge un'autonomia decisionale sulle scelte clinico-terapeutiche da effettuare. Autonomia che è riconosciuta già allo specializzando. Infatti il medico è chiamato a rispondere delle proprie scelte. Nella sentenza in esame, pertanto, non è ben chiaro quale sarebbero la funzione ed il contenuto della “delega”, né quali compiti di controllo e vigilanza residuerebbero poi effettivamente in capo al primario.

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