Confisca per equivalente del profitto illecito in ipotesi di concorso di persone nel delitto di riciclaggio. Alla ricerca della quadratura del cerchio

11 Novembre 2019

Pur se in maniera in parte disorganica, la sentenza affronta molteplici profili legati al tema della confisca per equivalente. Una volta confermata la natura sanzionatoria della stessa, vengono infatti richiamati in ordine sparso alcuni dei principi affermati in altre precedenti pronunce.
Massima

Nei delitti di riciclaggio e reimpiego, in caso di concorso di persone nel reato, trova applicazione il principio solidaristico che implica l'imputazione dell'intera azione in capo a ciascun concorrente e pertanto, una volta perduta l'individualità storica del profitto illecito, la sua confisca e il sequestro preventivo ad essa finalizzato possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato.

Fermo il principio che l'espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel quantum l'ammontare complessivo dello stesso, è dunque irrilevante quale sia la quota di profitto eventualmente incamerata dall'imputato o anche solo se egli abbia effettivamente ricavato una parte dello stesso a seguito della consumazione in concorso con altri.

Il caso

Alcuni soggetti concordano la pena per i delitti di cui agli artt. 416, 640-bis, 648-bis, 648-ter.1, c.p., conseguentemente agli stessi viene applicata la sanzione accessoria della interdizione dai pubblici uffici. Ricorrendo in tal caso una ipotesi di confisca obbligatoria ai sensi degli artt. 640-quater e 648-quater c.p., con la sentenza di patteggiamento è altresì disposta la confisca di beni (mobili e immobili), somme di denaro e valori corrispondenti al profitto di ciascuno.

A fronte della scelta processuale di definire il procedimento con un patteggiamento, gli imputati ricorrono per cassazione avverso la sentenza. Se alcuni dei ricorrenti invocano motivi inerenti la qualificazione giuridica dei fatti e la determinazione della pena, sostanzialmente tutti i ricorsi, pur se con diverse sfaccettature, lamentano la violazione di legge proprio in relazione alla confisca per equivalente del profitto.

In particolare, con riferimento agli artt. 240 e 648-quater c.p., si deduce innanzitutto la violazione di legge, relativamente alla ritenuta applicabilità della confisca per equivalente e all'erronea individuazione della nozione di profitto. Secondo la difesa, infatti, la sentenza ha individuato erroneamente il profitto del reato di riciclaggio nell'ammontare delle somme oggetto delle condotte dirette a ostacolare l'individuazione della provenienza delittuosa di quelle somme. Al contrario, si sostiene, avrebbe dovuto essere valorizzato il lucro realizzato dall'imputato, che era di ammontare completamente diverso e inferiore. Lo stesso andava infatti determinato in ragione delle probabili commissioni che l'imputato aveva ottenuto per la prestazione rivolta a riciclare le somme di provenienza delittuosa, da altri percepite e occultate grazie alla sua intermediazione.

Altra difesa, sempre dolendosi della illiceità della confisca per equivalente, individua la violazione nella circostanza che il ben oggetto di ablazione sarebbe stato acquisito in un periodo precedente rispetto a quello individuato come data di inizio della perpetrazione del delitto. Da ciò si deduce che la confisca finiva per colpire un bene estraneo, anche sotto il profilo temporale, rispetto alla condotta illecita.

Uno degli imputati si duole del fatto che la sentenza aveva inammissibilmente imputato al ricorrente l'intero importo dei proventi tratti dalle condotte di truffa, realizzate in concorso con altri imputati, senza procedere alla possibile ricostruzione dell'esatto importo della quota di profitto ascrivibile al ricorrente.

Un profilo diverso è poi invocato da chi lamenta la violazione di legge nella mancata considerazione del fatto che i profitti sarebbero determinati dalla somma dei proventi conseguiti dalle società attraverso le quali l'imputato aveva perpetrato le proprie condotte delittuose, profitti delle società già oggetto di sequestro preventivo all'ente ai sensi del d.lgs. 231/2001. In ragione di ciò, al fine di evitare un'inammissibile duplicazione della sanzione della confisca per equivalente, il profitto assoggettabile a confisca per equivalente doveva essere determinato sottraendo il quantum sottoposto a sequestro alle società e confiscabile in via diretta.

Comune a più difese è infine la considerazione che la sentenza sarebbe viziata per aver disposto la confisca anche per beni non ancora individuati e riconducibili all'imputato; essendo pacifico che la confisca per equivalente non può essere disposta su beni futuri.

La questione

Pur se in maniera in parte disorganica, la sentenza affronta molteplici profili legati al tema della confisca per equivalente. Una volta confermata la natura sanzionatoria della stessa, vengono infatti richiamati in ordine sparso alcuni dei principi affermati in altre precedenti pronunce.

Volendo isolare le tematiche a nostro avvisto più significative, emerge senz'altro la questione, indipendentemente dalla scelta del rito, della connessione tra la determinazione del profitto sottoponibile a confisca e la fattispecie per la quale vi è condanna.

Appurato che nel caso di specie si tratta - tra le altre imputazioni - di riciclaggio e reimpiego, viene poi affrontato l'ulteriore profilo della ripartizione della somma oggetto di ablazione per equivalente in caso di concorso di persone nel medesimo reato.

Le soluzioni giuridiche

Le soluzioni giuridiche offerte dalla Suprema Corte si pongono sostanzialmente in linea con gli orientamenti ormai consolidati della giurisprudenza di legittimità. A fronte di ricorsi articolati nei profili dianzi sintetizzati, la Corte non procede ad una ricognizione sistematica del tema del profitto confiscabile, cercando piuttosto di fornire risposte specifiche ai singoli motivi di doglianza.

In questi termini, allora è possibile ricostruire il percorso motivazionale secondo l'ordine presentato nel paragrafo che precede.

Innanzitutto, la Corte ribadisce come sia pacifico che la confisca per equivalente del profitto, a fronte della impossibilità di individuare in via diretta il bene o il valore derivato dalla commissione del reato, corrisponda al vantaggio economico tratto dall'imputato attraverso la commissione del reato, distinguendosi così dal prodotto del reato. Tuttavia, la determinazione della misura del profitto è inevitabilmente connessa:

  • alla tipologia del delitto da cui discende il profitto;
  • alla natura dei beni oggetto del delitto stesso.

Ad avviso del Supremo Collegio, ciò deriva dal fatto che il vantaggio economico che può ritrarsi dalla commissione dei singoli reati dipende da «variabili rappresentati dalla tipologia delle operazioni di fatto e giuridiche che si realizzano attraverso la commissione dei reati, dalla loro capacità di incidere sul valore e sulla concreta disponibilità di beni, diversamente incommerciabili o di valore di mercato assolutamente inferiore, in diretta correlazione alle caratteristiche dei beni stessi».

Nel caso di specie, dunque, considerando che l'imputato ha concordato la pena per i delitti di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e di reimpiego (art. 648-ter c.p.) che costituiscono dunque il presupposto della confisca, va considerato che le operazioni sottese alle suddette fattispecie, ove concernano somme di denaro, sono mirate alla ablazione del profitto del reato (e non del profitto conseguito dall'autore del reato) che è rappresentato esattamente dal valore delle somme di denaro che siano state oggetto delle operazioni dirette ad ostacolare l'individuazione della provenienza delittuosa. Senza infatti quelle operazioni, dette somme sarebbero destinate a essere sottratte definitivamente, in quanto provento del delitto presupposto rispetto al delitto di riciclaggio. La condotta di riciclaggio, infatti, assicura l'integrale disponibilità giuridica dei valori riciclati, consentendone l'utilizzazione sia attraverso il godimento diretto, sia mediante il reimpiego in altre attività a contenuto economico.

Il principio è stato affermato recentemente sottolineandosi che, «dal momento che il riciclaggio ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato è l'intero ammontare delle somme che sono state "ripulite" attraverso le operazioni di riciclaggio compiute dall'imputato. Il fatto che l'imputato abbia goduto solo in parte (nella misura del 3%) del profitto del riciclaggio, che sostanzialmente è stato incamerato dal dominus dell'operazione, non cambia la sostanza delle cose, vale a dire che l'intera somma riciclata costituisca il profitto del reato, di cui l'imputato ha goduto in concorso con gli altri coimputati» (Cfr. Cass. pen., Sez. II n. 49003 del 13 ottobre 2017).

A sostegno delle proprie conclusioni, la Suprema Corte ribalta l'argomento difensivo che aveva richiamato la sentenza della Corte Costituzionale n. 112 del 2019 sottolineando come la stessa concernesse una differente ipotesi di reato. In quel caso, infatti, si verteva in tema di abuso di informazioni privilegiate ai sensi del d.lgs. n. 58 del 1998, art. 187-bis, comma 1, lett. a), e dunque il profitto non discende -come invece nel riciclaggio o nel reimpiego- dalla possibilità di disporre di somme o valori diversamente indisponibili perché provento del reato presupposto. Viceversa lo stesso scaturisce dal conseguimento di beni, lecitamente acquistabili in ordinarie condizioni di mercato, attraverso mezzi e strumenti non consentiti (quali appunto il ricorso a informazioni riservate cui il responsabile dell'illecito non può aver accesso) che permettano di acquisirle in condizioni differenti e più favorevoli, godendo successivamente della rivalutazione di quei beni.

In questo caso, secondo i giudici Corte costituzionale, «il profitto consiste dunque nel risultato economico dell'operazione valutato nel momento in cui l'informazione privilegiata della quale l'agente disponeva diviene pubblica, calcolato più in particolare sottraendo al valore degli strumenti finanziari acquistati il costo effettivamente sostenuto dall'autore per compiere l'operazione, così da quantificare l'effettivo "guadagno" (in termini finanziari, la "plusvalenza") ovvero, come nei caso di specie, il "risparmio di spesa" che l'agente abbia tratto dall'operazione. Nelle ipotesi di vendita di strumenti finanziari sulla base di un'informazione privilegiata, il "profitto" conseguito non potrà invece che identificarsi nella "perdita evitata" in rapporto al successivo deprezzamento degli strumenti, conseguente alla diffusione dell'informazione medesima; e dunque andrà calcolato sulla base della differenza tra il corrispettivo ottenuto dalla vendita degli strumenti finanziari, e il loro successivo (diminuito) valore» (cfr. Corte Costituzionale n. 112 del 2019).

Anche in ordine al criterio temporale, cioè al rapporto tra la data di acquisto dei beni e la data del reato, la Corte rigetta il ricorso. In particolare, si legge nella sentenza, la natura sanzionatoria della confisca per equivalente trova corrispondenza nella funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione. Essa si caratterizza cioè per essere una misura ablatoria di carattere afflittivo e non preventivo (come è invece per le misure di sicurezza). Il corollario di tale assunto, ad avviso dei Giudici è l'irretroattività della confisca per equivalente ai fatti commessi anteriormente all'introduzione della previsione normativa che disciplina l'istituto e dunque l'inapplicabilità della misura ai fatti anteriormente commessi. Viceversa l'irretroattività non concerne l'oggetto della misura che ben può colpire entità acquistate prima della commissione del reato.

In conclusione, ad avviso dei giudici, la data di acquisto dei beni oggetto del provvedimento ablativo non rileva ai fini delle valutazioni indicate, per due ordini di ragioni:

  1. concerne un elemento non contemplato dalla norma;
  2. il principio di irretroattività in materia penale attiene al momento della condotta (e non, invece, al tempo ed alle modalità di acquisizione dei beni destinatari in concreto della sanzione). Dunque l'irretroattività deve intendersi riferita al fatto di reato e non certo alla data di acquisizione dei beni su cui cade la sanzione.

Nel respingere il motivo concernente la ripartizione del sequestro tra soggetti concorrenti nel medesimo reato, viene di fatto richiamato il noto orientamento che ritiene applicabile alla confisca il principio solidaristico. In ragione di ciò, l'imputazione dell'intera azione e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente determina la perdita dell'individualità storica del profitto illecito e la conseguente possibilità procedere a confisca nei confronti di ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato.

Ovviamente, però l'espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere l'ammontare complessivo del profitto; è dunque irrilevante quale sia la quota di profitto eventualmente incamerata dall'imputato o anche solo se egli abbia effettivamente ricavato una parte dello stesso a seguito della consumazione in concorso con altri"

Per quanto concerne infine il tema legato al rapporto tra sequestro all'ente e sequestro alla persona fisica, la Corte rigetta il motivo di ricorso precisando come «l'esistenza di un autonomo provvedimento di sequestro che ha colpito i beni delle società, utilizzate dall'imputato per commettere le truffe aggravate poste a fondamento della confisca per equivalente, e dunque un patrimonio autonomo e separato da quello del ricorrente, non incide sull'operatività e sulla misura della confisca per equivalente che deve colpire il patrimonio personale dell'imputato, trattandosi di sanzione autonoma e differente rispetto alla confisca d.lgs. n. 231 del 2001, ex art. 53».

Osservazioni

La determinazione di ciò che può essere oggetto di confisca (e prima ancora di sequestro) è tema particolarmente complesso per il giurista che negli anni ha affaticato dottrina e giurisprudenza. Peraltro tale sforzo risulta particolarmente pressante a fronte dell'uso sempre crescente dell'ablazione patrimoniale quale sanzione privilegiata nelle trame più recenti della legislazione.

Non è infatti un segreto che negli ultimi anni l'ablazione patrimoniale rappresenti, non senza forzature, terreno d'elezione in cui il legislatore conduce la propria battaglia nei confronti delle varie forme di criminalità.

Ciò non di meno non può non sottolinearsi come le disposizioni che hanno rappresentato il risultato di tali opzioni, siano state talvolta prive del necessario dettaglio gravando pesantemente sugli interpreti. Un esempio evidente di quanto testé sostenuto è proprio la nozione di profitto e l'esatta individuazione di quanto confiscabile per equivalente.

In termini generali rientrano, nel concetto di res confiscabili tutti i beni mobili o immobili, le quote di società o le aziende, i beni mobili registrati e le universalità dei beni. Considerando nello specifico le ipotesi di sequestro ai fini di confisca la norma fondamentale resta l'art. 240 c.p. Alla stregua di tale disposizione, sono suscettibili di confisca (facoltativa) le cose che servirono o furono usate per commettere il reato, ovvero quelle che ne costituiscono il prodotto o il profitto.

Viceversa, è sempre disposta la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato ovvero dei beni e degli strumenti informatici o telematici che risultino essere stati in tutto o in parte utilizzati per la commissione dei reati di cui agli articoli 615-ter, 615-quater, 615-quinquies, 617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies, 617-sexies, 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies, 640-ter e 640-quinquies c.p.; nonché dei beni che ne costituiscono il profitto o il prodotto ovvero di somme di denaro, beni o altre utilità di cui il colpevole ha la disponibilità per un valore corrispondente a tale profitto o prodotto, se non è possibile eseguire la confisca diretta del profitto o del prodotto; e ancora delle cose, la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione o l'alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna (art. 240, comma 2, n. 1 e 1-bis, c.p.).

Per quello che concerne le cose destinate ovvero utilizzate per la commissione di delitti, il riferimento include senz'altro gli instrumenta sceleris e, dunque, tecnicamente le cose dotate di una loro materialità. Rispetto agli ulteriori elementi, sicuramente meno problematici si sono rivelati i concetti di prezzo e di prodotto. Secondo l'orientamento ormai consolidato della giurisprudenza, il prezzo, in particolare, è rappresentato dal quantum pattuito o consegnato come corrispettivo per la realizzazione dell'illecito; esso, dunque, coincide in qualche modo con la spinta motivazionale al reato (Cass. Pen., Sez. Un., 6 marzo 2008, n.10280). Altrettanto consolidata appare la nozione di prodotto, che viene identificato nel risultato materiale del reato, costituendo cioè ciò che attraverso la condotta viene creato, trasformato, modificato, acquistato.

Senz'altro più ostica si è rivelata la definizione del profitto sequestrabile. Per quanto qui di interesse, il profitto venne in prima battuta definito come l'insieme dei vantaggi economici che sono conseguenza del reato e che a esso sono connessi (Cass.pen., Sez. Unite, 25 ottobre 2007, n. 10280 e Cass.pen, Sez. I, 21 dicembre 2010, n. 2737). Tale nozione, però, appariva: per un verso troppo ampia, al punto da poter ricomprendere beni non immediatamente collegati con il reato o profitti perfettamente leciti; per un altro, non consente di distinguere con agio il prezzo dal profitto. A fronte di ciò, in giurisprudenza si è affermata un'interpretazione ampia di profitto tale da ricomprendere anche i beni e le altre utilità acquistate o realizzate con denaro illecito e che costituiscono una conseguenza indiretta o mediata del reato, purché vi sia un nesso causale rispetto alla condotta posta in essere (Cass.pen., Sez. Un., 25 giugno 2009, n. 38691).

Tanto in fase di confisca quanto di sequestro, dopo aver individuato l'oggetto è necessario determinare il quantum. In particolare si tratta di stabilire se la valutazione debba essere fatta al netto o al lordo delle spese sostenute. Sul punto si segnala inizialmente una posizione più garantista palesata dalla dottrina rispetto alla giurisprudenza dominante proclive a individuare nel profitto lordo, pur con i temperamenti previsti, quello confiscabile (Cfr. Cass.pen, Sez. III, 19 settembre 2012, n. 1256 per un recupero del principio del netto. In senso decisamente difforme Cass.pen, Sez. III, 30 gennaio 2014, n. 10561). Tuttavia, al fine di isolare il profitto senza eccessive compressioni per il destinatario del provvedimento, le Sezioni Unite, scartando il principio del netto, avevano ideato una sorta di lordo temperato. Per effetto di ciò il profitto ablabile sarebbe quello costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato al netto dell'effettiva utilità conseguita dal danneggiato (Cass. pen., Sez. Un., 27 marzo 2008, n. 26654; successivamente in: Cass.pen., Sez. VI, 27 gennaio 2015,n. 998 e, da ultimo, in Cass. pen., Sez. VI, 22 aprile 2016, n.23013).

In altri termini, se ben si intende l'approdo delle Sezioni Unite, per ottenere il profitto confiscabile si deve individuare il profitto di diretta e immediata derivazione dal reato e detrarre le sole utilità conseguite dal danneggiato e non anche i costi sostenuti dal reo.

Una volta svolta questa premessa, è logico ritenere che la individuazione dell'esatto profitto derivi dal singolo reato. Cioè, solo dopo aver chiarito il concetto di profitto confiscabile può e deve dunque essere compiutamente definito lo stesso in relazione alla singola fattispecie di reato.

Nel caso analizzato in sentenza si tratta sostanzialmente di ipotesi di riciclaggio e reimpiego. L'art. 648bis c.p. che disciplina appunto la prima ipotesi, prevede, le condotte di sostituzione e/o trasferimento di denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto, nonché il compimento di altre operazioni, non precisamente identificate, in modo da ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni stessi. Non vi è alcuna limitazione dal punto di vista del reato presupposto, potendo lo stesso radicarsi in qualsiasi delitto non colposo. Viceversa l'art. 648ter c.p. sanziona l'impiego in attività economiche o finanziarie (fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli artt. 648 e 648bis c.p.) di denaro, beni o utilità provenienti da qualsiasi delitto.

Esula dalle finalità del presente elaborato ogni ulteriore disamina delle ipotesi descritte. Tuttavia è opportuno rimarcare come l'elemento caratterizzante comune ad entrambe le fattispecie dianzi descritte sia rappresentato dalla clausola di esclusione della punibilità per chi abbia concorso alla commissione del reato presupposto.

In altri termini, soggetto attivo del reato può essere chiunque ad eccezione di chi sia autore o concorrente nel reato presupposto.

Analizzando la struttura di entrambe le disposizioni risulta evidente come le stesse si pongano in una sorta di consecutio temporum a fronte del comune obiettivo di fronteggiare i profitti frutto di attività illecite. Per effetto cioè di tali incriminazioni, si tende ad impedire che i proventi del reato vengano trasformati in denaro pulito e, nel secondo passaggio, che i beni possano trovare un impiego in attività legittime.

Le attività di riciclaggio e reimpiego mirano a far realizzare proventi illeciti concernendo entrambe denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto. A fronte di tale dettato normativo, la sentenza in commento si è collocata in quel filone ermeneutico consolidato, alla stregua del quale, nel momento in cui il riciclaggio ha per oggetto somme di denaro, il profitto del reato è l'intero ammontare delle somme che sono state "ripulite" attraverso le operazioni di riciclaggio. Analogo arresto era stato espresso in materia di riciclaggio di beni provenienti da delitti di frode fiscale. Anche in quel caso, si era concluso ritenendo che se il riciclaggio aveva ad oggetto anche i proventi delle frodi fiscali, tali proventi costituiscono il profitto anche del reato di riciclaggio in relazione ai soggetti che sono autori solo di tale ultimo delitto.

Il principio così affermato, ad avviso di chi scrive, finisce con lo spostare interamente il problema del profitto confiscabile sul reato presupposto non lasciando alcun margine alla identificazione di un valore autonomo da attribuire a questa attività. Ma lo stesso mostra le sue potenzialità espansive nel momento in cui viene confermato nuovamente il principio solidaristico che implica l'imputazione dell'intera azione e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente.

Pertanto, con riferimento alla confisca, una volta perduta l'individualità storica del profitto illecito, la sua ablazione (e il sequestro ad essa prodromico) possono interessare indifferentemente ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità del profitto accertato. Resta ovviamente il limite che l'espropriazione non può essere duplicata o comunque eccedere nel "quantum" l'ammontare complessivo dello stesso.

Alla stregua di tale conclusione, è irrilevante quale sia la quota di profitto eventualmente incamerata dall'imputato o anche solo se egli abbia effettivamente ricavato una parte dello stesso a seguito della consumazione in concorso con altri (Cass. Pen. Sez. VI, n. 26621 del 10 aprile 2018,).

La soluzione così prospettata, però, lascia qualche perplessità. La stessa rischia infatti di condurre ad un effetto domino per effetto del quale un soggetto che concorre in veste di consulente in una attività di riciclaggio o reimpiego (magari anche sulla base di un accordo che ne determini il compenso), potrebbe in astratto essere destinatario di un provvedimento di sequestro per un importo pari all'intero profitto del reato presupposto che, come abbiamo visto, rappresenta la misura del profitto di riciclaggio.

Aderendo cioè all'orientamento dominante non appare del tutto peregrina la possibilità di procedere alla confisca per equivalente per l'intero valore corrispondente al profitto anche nei confronti del soggetto abbia ottenuto un profitto minimo o addirittura non ne abbia ottenuto alcuno.

Se sul piano pratico la soluzione lascia dei margini di perplessità, sul piano giuridico le stesse sono destinate ad acuirsi esponendosi ad alcuni rilievi critici, connessi essenzialmente ad una possibile frizione tra la natura sanzionatoria della confisca per equivalente e i principi costituzionali in materia di personalità della responsabilità penale, necessaria proporzione della pena, di uguaglianza.

Invero, infatti, la considerazione dell'istituto in esame quale sanzione non sembra del tutto compatibile con l'applicazione della stessa per l'intero valore corrispondente al profitto del reato nei confronti del soggetto che abbia goduto solo in una minima misura del profitto del riciclaggio, lasciando sostanzialmente immune il vero dominus dell'operazione. In tal modo, infatti, appare chiaro il rischio di vedere frustrata l'esigenza stessa di un sanzione che risulta slegata da ogni canone di proporzionalità rispetto ai reali beneficiari del profitto.

Laddove cioè la confisca per equivalente abbia effettivamente natura sanzionatoria non appare del tutto appagante la conclusione cui giunge la corte secondo la ripartizione proporzionale tra i concorrenti rilevi su un piano dei soli rapporti interni, gravando sul destinatario del provvedimento l'azione di regresso verso i correi.

Vieppiù che rispetto alla sanzione principale l'applicazione dell'istituto del concorso di persone nel reato consente una tipizzazione unitaria della responsabilità penale ma contempla disposizioni di legge volte a graduare la sanzione penale, non si comprende perché analogo principio non possa trovare applicazione rispetto alla confisca per equivalente.

E d'altronde non sono mancate, in tempi anche abbastanza recenti, posizioni della stessa Corte di cassazione in cui si è fatto riferimento alla circostanza che, in caso di pluralità di concorrenti nel medesimo reato, vi sia l'esigenza di una necessaria proporzione tra l'arricchimento derivante al singolo compartecipe dalla commissione dell'illecito e la somma da sottoporre a confisca per equivalente. (Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 2 agosto 2007, n. 31690; Cass. pen., Sez. VI, 14 settembre 2007, n. 34878; Cass. pen., Sez. VI, 20 settembre 2007, n. 35120)

Se si riaffermasse tale principio, a nostro avviso si limiterebbero senza dubbio i potenziali conflitti di un istituto già di per sé critico con i principi costituzionali più volte richiamati, senza peraltro vanificare l'efficacia dell'istituto stesso.

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