Fecondazione omologa post mortem: nell'atto di nascita la paternita' in capo al padre defunto

Alberto Figone
20 Novembre 2019

L'art. 8 della l. n. 40/2004, recante lo status giuridico del nato a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all'ipotesi di fecondazione omologa post mortem.
Massima

L'art. 8 della l. n. 40/2004, recante lo status giuridico del nato a seguito dell'applicazione delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, è riferibile anche all'ipotesi di fecondazione omologa post mortem avvenuta mediante utilizzo del seme crioconservato di colui che, dopo avere prestato, congiuntamente alla moglie o alla convivente, il consenso all'accesso alle tecniche suddette, ai sensi dell'art. 6 della medesima legge, e senza che ne risulti la successiva revoca, sia poi deceduto prima della formazione dell'embrione, avendo altresì autorizzato, per dopo la propria morte, la moglie o la convivente all'utilizzo suddetto. Ciò pure quando la nascita avvenga oltre i trecento giorni dalla morte del padre.

Il caso

I coniugi Tizia e Caio intraprendono un percorso di fecondazione assistita omologa, nel corso del quale Caio apprende di esser affetto da un tumore e di doversi sottoporre a cicli di chemioterapia, tali da compromettere la sua capacità riproduttiva. In una struttura spagnola Caio procede alla crioconservazione del liquido seminale e conferma la volontà di avere un figlio, anche dopo la propria morte. Intervenuto il decesso del marito, Tizia chiede a quella struttura che si dia corso alla fecondazione di un proprio ovocita con il seme del marito; a distanza di numerosi mesi dal luttuoso evento, nasce in Italia una bimba, che l'ufficiale di stato civile registra come figlia non matrimoniale di Tizia, non operando più la presunzione di paternità di Caio. Tizia ricorre in sede giudiziale, chiedendo l'accertamento della paternità della figlia e l'attribuzione a lei del cognome di Caio. I giudici di merito respingono tali richieste, accolte invece dalla Corte di Cassazione.

La questione

Si può attribuire lo stato di figlio nato nel matrimonio a chi è stato concepito con liquido seminale crioconservato, appartenente al marito della partoriente, quando la nascita sia intervenuta oltre trecento giorni dalla morte del padre genetico?

Le soluzioni giuridiche

Come è noto, l'art. 232 c.c. prevede che si presume concepito nel matrimonio colui che nasce trecento giorni prima dello scioglimento del matrimonio stesso (in primis, per morte del marito di colei che ha partorito), ovvero da altri eventi, rappresentativi del venir meno dell'affectio coniugalis, che qui non rilevano. La norma è stata parzialmente novellata dalla riforma del 2012/2013, essendo stata espunta la presunzione di paternità anche per chi fosse nato centottanta giorni dopo le nozze. Detta presunzione è in oggi legata al momento della nascita, mentre quello del concepimento assume rilevanza quando il matrimonio si scioglie o la convivenza fra i coniugi viene ufficialmente meno. Da tanto consegue come, in base ai principi generali, l'ufficiale di stato civile non possa formare un atto di nascita come figlio nato del matrimonio, quando la nascita stessa sia avvenuta oltre i trecento giorni dalla morte del marito della madre. È possibile peraltro dimostrare giudizialmente il concepimento durante il matrimonio ex art. 234 c.c.. Prima che le scoperte della scienza consentissero la crioconservazione del seme maschile, ovvero dell'embrione con esso formato, le controversie in materia erano estremamente rare e relegate per lo più a livello teorico: il rifiuto dell'ufficiale di stato civile alla formazione di un atto di nascita quale figlio legittimo poteva essere giudizialmente superato con la prova della straordinaria durata della gestazione, protrattasi oltre i normali termini fisiologici.

Le moderne tecniche di procreazione assistita hanno innovato in modo sensibile nel campo della filiazione, in oggi non più legata al solo dato genetico, ovvero all'esistenza di una famiglia (e di una famiglia strutturata sulla diversità di sesso dei componenti della coppia). In particolare, per quanto rileva ai fini del presente commento, la crioconservazione del seme maschile (o dell'embrione) permette nascite anche molto tempo dopo il decesso del coniuge, in un momento in cui non opera più alcuna presunzione di paternità. Il tema era già stato affrontato, sotto il profilo giuridico, prima dell'entrata in vigore della l. n. 40/2004, in un momento in cui la materia era priva di disciplina normativa. Si discuteva se fosse lecita la fecondazione post mortem ed in caso di risposta affermativa, quale fosse lo status del figlio (cfr. Trib. Palermo 8 gennaio 1999, in Dir. Fam. Pers. 1999, 226 che aveva affermato lo stato di “legittimo” al figlio nato, a seguito di provvedimento cautelare d'urgenza che avesse disposto l'impianto dell'embrione). La citata l. n. 40/2004, pur dopo l'opera demolitrice operata dalla Consulta, è chiara nel disporre, all'art. 5, che il ricorso alle tecniche di p.m.a. è ammissibile solo per "coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi". Malgrado la norma non sia di univoca interpretazione, come ricorda la sentenza annotata, si ritiene che il requisito dell'esistenza in vita debba sussistere sia al momento in cui è formato l'embrione (con conseguente illiceità dell'utilizzo di gameti prelevati dal cadavere dell'uomo, come pure della formazione di un embrione dopo il decesso dell'uomo stesso), sia in quello dell'impianto dell'embrione nell'utero femminile (in diversa prospettiva v. Trib. Bologna 16 gennaio 2015, in Foro it. 2015,I,1101, sulla scorta delle linee guida del Ministero della Salute del 2004 e 2008, in relazione ad embrioni formati peraltro in epoca antecedente l'entrata in vigore della l. n. 40/2004).

Come tiene a ribadire più e più volte la Corte di Cassazione, la fattispecie in esame esula dall'ambito di operatività del divieto di cui all'art. 5; la fecondazione post mortem, era stata infatti realizzata in Spagna, la cui legislazione ammette questa tecnica, se pur nell'osservanza di limiti temporali precisi (entro un anno dal decesso del padre genetico). Oggetto della controversia è la rettifica dell'atto di nascita formato in Italia, a fronte del diniego dell'ufficiale di stato civile di attribuire al nato la paternità del defunto marito della madre, con conseguente attribuzione del cognome paterno al nato stesso. Precisa la Cassazione, sulla scorta di precedenti anteriori alla riforma del d.P.R. n. 396/2000, che le dichiarazioni rese davanti all'ufficiale di stato civile, sono di duplice natura. Talune hanno la funzione di dare pubblica notizia di eventi, quali la nascita e la morte, che hanno rilevanza per l'ordinamento per il solo fatto di essersi verificati (si tratta dunque di meri fatti giuridici), a prescindere dagli effetti che ad essi la legge ricollega. L'ufficiale di stato civile ha l'obbligo di ricevere quelle dichiarazioni, senza che a lui competa valutazione alcuna della compatibilità di detti eventi con l'ordinamento italiano (e dunque con l'ordinamento pubblico interno); altre dichiarazioni invece attengono allo status della persona e trovano nei predetti fatti giuridici (in particolare, la nascita) il proprio presupposto: si pensi al riconoscimento di un figlio nato fuori del matrimonio, ovvero proprio all'attribuzione dello stato di figlio matrimoniale, in assenza della presunzione di paternità. L'ufficiale dello stato civile non ha il potere di sindacare la veridicità di quanto dichiarato e dovrà rifiutare di ricevere la dichiarazione, ove la ritenga in contrasto con l'ordine pubblico interno, in conformità al disposto dell'art. 7 del d.P.R, n. 396/2000. Compete solo ed esclusivamente al giudice, in sede di opposizione all'atto di rifiuto, accertare se quella dichiarazione sia conforme al vero e coerente con i principi di ordine pubblico.

Muovendo da tale premessa, la Suprema Corte osserva come, nella specie, il marito della madre avesse espresso la volontà di crioconservare il seme, in previsione di una futura gravidanza della moglie, confermando detta volontà anche poco prima del prematuro decesso; l'interesse del nato è quello di veder riconosciuta la propria identità genetica, con l'attribuzione della genitorialità in capo al defunto genitore. Del resto, la soluzione è del tutto coerente con l'art. 8 l. n. 40/2004, in base al quale i nati a seguito di applicazione delle tecniche di p.m.a. hanno lo stato di figli matrimoniali, piuttosto che di figli riconosciuti della coppia che ha deciso di ricorrere alle tecniche medesime (fattispecie che qui non rileva). Come osserva la sentenza annotata, in caso di fecondazione post mortem, praticata all'estero in un Paese che la ritiene legittima, si pone un problema di coordinamento con il già richiamato art. 232 c.c., che esclude - di regola – la presunzione di paternità del marito, ove la nascita sia avvenuta oltre trecento giorni dalla morte di lui. Non si tratta, nella specie, di dimostrare una gravidanza ben più lunga dell'ordinario, ma di superare la rigorosa applicabilità della norma in questione. L'«odierno dinamismo nella procreazione» che consente oggi anche a coppie sterili o infertili di avere un figlio tramite iI ricorso alla fecondazione eterologa, non può non avere effetti anche per il caso di p.m.a. di tipo omologo. La disciplina contenuta nell'art. 8, l. n. 40/2004 presenta caratteri di specialità rispetto a quella generale dell'art. 232 c.c. E, dunque, l'attribuzione della genitorialità discende in automatico dalla stessa scelta della coppia di far ricorso alle tecniche di p.m.a., sebbene il progetto procreativo abbia a realizzarsi in un momento successivo rispetto ai tempi di un'ordinaria gravidanza. Nella fecondazione post mortem di tipo omologo si realizza al massimo l'equiparazione tra genitorialità genetica e genitorialità intenzionale, come se il figlio fosse stato concepito in modo naturale.

Osservazioni

La sentenza in commento si dilunga (in maniera forse eccessiva) nell'affermare un principio, per il quale sarebbe stata anche sufficiente pure una più concisa motivazione, afferente direttamente il "cuore" della questione. Dopo un lungo preambolo, con cui del tutto condivisibilmente viene esclusa la rimessione del giudizio alle Sezioni Unite e si supera l'apparente vizio procedimentale afferente la mancata notifica del ricorso al Procuratore generale presso il giudice a quo, la Suprema Corte affronta il tema dello status del figlio, nato da donna vedova con utilizzo del liquido seminale del defunto marito. Come ricorda la sentenza, l'art. 5 della l. n. 40/2004 richiede l'esistenza in vita di entrambi i genitori anche al momento dell'impianto dell'embrione nell'utero femminile, sanzionando medici e struttura sanitaria che al divieto di fecondazione post mortem dovessero contravvenire. Ove ciò accadesse, al nato non potrebbe comunque essere negato lo status filiationis, sulla scorta del già richiamato art. 8 l. n. 40/2004. Tali conclusioni sono inconfutabili quando la fecondazione poster mortem viene effettuata in una Nazione il cui ordinamento la riconosca legittima. Si tratta in buona sostanza della corrispondente situazione che si verificava sotto la vigenza dell'art. 4 l. cit., in ordine al divieto di fecondazione di tipo eterologo, prima dell'intervento della Corte costituzionale (Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162). Ed invero, ove si fosse fatto ricorso comunque a tecniche fecondative di tal genere, in Italia o all'estero (dove, di regola, sono sempre state ritenute lecite), lo status di figlio nato nel matrimonio (in caso di progetto genitoriale condiviso da una coppia sposata) non avrebbe potuto essere rimosso in forza di azione di disconoscimento di paternità, pure con riferimento alla simmetrica fattispecie di figlio nato da coppia non sposata.

In oggi, i problemi legati alla sterilità della coppia di aspiranti genitori non sono più risolvibili solo con il tradizionale ricorso all'istituto dell'adozione, posto che la scienza medica, parafrasando la pronuncia in commento, ha reso la procreazione un fatto "dinamico", con accesso alla genitorialità anche per quelle coppie che non sarebbero in grado di procreare in modo naturale. Solitamente è più agevole pensare che la causa della sterilità o dell'infertilità sia attribuibile alla componente maschile (di qui l'immagine diffusa delle "banche del seme") e della conseguente fecondazione della donna con seme diverso da quello del marito (o del partner). Ben può accadere tuttavia che l'impossibilità di concepire sia riferibile alla donna, la quale potrebbe essere affetta da patologie che rendano non praticabile la sola gestazione di un embrione, comunque formato in modo naturale, ovvero non produca ovociti fertili. Si ripropone in quest'ultimo caso il complesso problema della surrogazione di maternità, che l'art. 12 della l. n. 40/2004 vieta espressamente, come del resto prevedono molti altri ordinamenti. Pur nella vigenza di tale divieto, non può dimenticarsi l'esistenza del figlio, che comunque sia venuto al mondo; questi deve vedersi riconosciuti i propri diritti, in primis quello all'identità personale e all'attribuzione di una maternità "d'intenzione", in base alla quale il progetto condiviso di genitorialità ben può superare il profilo strettamente genetico. In questo senso è opportuno il richiamo della Corte di Cassazione alle pronunce della Corte EDU nelle vertenze che vedevano coinvolto lo Stato francese, che, nella specie, ha una disciplina simile al nostro (v. le decisioni, entrambe del 26 giugno 2014, n. 65192/11 e 65941/11).

La fattispecie affrontata dalla decisione in commento è più semplice sotto l'aspetto fattuale: il nato è stato concepito in vitro con liquido seminale crioconsevato del defunto marito della madre. Se si ritenesse di escludere la paternità in capo al nato (per essere la nascita sopravvenuta dopo trecento giorni dalla morte del donatore del seme), questi resterebbe privo di una parte della genitorialità (salvo prospettare il ricorso ad un'autonoma azione di dichiarazione giudiziale della paternità, che, per quanto possa rilevare, non attribuirebbe comunque al nato lo stato di figlio nato nel matrimonio; nella specie infatti non risulterebbe ammissibile l'azione di cui all'art. 234 c.c., volta a comprovare il concepimento durante il matrimonio). La situazione sarebbe certamente pregiudizievole per il minore, che non vedrebbe rispettato quel progetto di "famiglia" che i suoi genitori biologici avevano inteso costituire, con danni di natura personale (l'attribuzione del cognome) e patrimoniale (l'accesso alla successione legittima). Il tutto in un contesto in cui l'identità personale, sub specie del riconoscimento del diritto alle origini, coincide con il diritto al l'identità genetica. Se il divieto di fecondazione post mortem dovesse incidere sullo status dei figli comunque nati, si darebbe luogo ad un vulnus gravissimo, che la stessa l. n. 40/2004 ha inteso scongiurare con il già più' volte citato art. 8.

Coerente con i principi sopra espressi dalla Suprema Corte è una decisione di merito di poco successiva (Trib. Lecce 24 giugno 2019). Nella specie, il Tribunale, adito in via d'urgenza, ha ordinato ad un centro medico di procedere all'impianto nell'utero di una donna, dell'embrione crioconservato, formato con l'utilizzo di gameti della medesima e del marito, nel frattempo deceduto. Questi in ogni caso, anche prima della morte, aveva ribadito il proprio consenso per quel progetto di genitorialità, che il sopravvenire di una grave patologia tumorale gli aveva impedito di veder realizzato. A differenza dunque di altre fattispecie, il consenso dell'uomo all'accesso della moglie alle tecniche di p.m.a. era rimasto inalterato nel tempo. Come è noto, è ben ammissibile la revoca del consenso all'utilizzo del proprio liquido seminale, ma comunque fino alla formazione dell'ovulo; da quel momento, la scelta circa l'impianto è rimessa alla sola donna.

Guida all'approfondimento

A. Fasano, A. Figone (a cura di), Pratica professionale. Famiglia, II, Milano 2019;

Veronesi, Procreazione medicalmente assistita, in ilfamiliarista.it.

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