I reati tributari dopo il decreto fiscale 124/2019

20 Novembre 2019

L'art. 39 del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, interviene sul testo del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, a distanza di quasi cinque anni dalla riforma apportata dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158. La nuova riforma, denominata “manette agli evasori”, suona come un ritorno al passato: la memoria non può non rimandare alla legge n. 516/1982, denominata anch'essa manette agli evasori...
Premessa

L'art. 39 del d.l. 26 ottobre 2019, n. 124, interviene sul testo del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, a distanza di quasi cinque anni dalla riforma apportata dal decreto legislativo 24 settembre 2015, n. 158.

La nuova riforma, denominata “manette agli evasori”, suona come un ritorno al passato: la memoria non può non rimandare alla legge n. 516/1982, denominata anch'essa manette agli evasori, che prevedeva la repressione di condotte prodromiche all'evasione, l'inasprimento delle sanzioni, nonché l'eliminazione della nota pregiudiziale tributaria.

Le direttrici politico criminali della riforma si muovono nel senso:

  1. dell'innalzamento delle cornici edittali delle principali fattispecie, unitamente alla previsione di alcune ipotesi circostanziali attenuate;
  2. dell'abbassamento delle soglie di rilevanza penale dell'imposta evasa o degli elementi attivi sottratti all'imposizione;
  3. dell'estensione del reverse charge nel versamento delle ritenute, con una nuova fattispecie penale nei confronti dei committenti di un'opera o di un servizio ad un'impresa;
  4. dell'estensione della confisca allargata prevista dall'art. 240-bis c.p. a specifiche figure di reati tributari;
  5. dell'innesto del delitto previsto dall'art 2 d.lgs. n. 74/2000 nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità degli enti per illeciti amministrativi dipendenti da reato.

Nel seguente contributo verranno analizzati i primi due punti.

Ne deriva un quadro di complessivo inasprimento della risposta penale all'illecito fiscale: sotto tale aspetto, è chiaro come un tale impulso in chiave repressiva sia frutto di una scelta di politica criminale che può essere più o meno condivisibile in virtù della differente sensibilità e dei diversi convincimenti che, sul punto, ciascun interprete può avere. È tuttavia altrettanto vero che il rischio penale dovrebbe opportunamente essere riservato e proporzionato nella misura della pena ai gravi fatti di frode od assimilabili alla frode, lasciando le violazioni fiscali non aventi carattere frodatorio alla mera sfera amministrativa (in cui esistono sanzioni extrapenali di tutto rispetto ed applicabili con garanzie avvicinabili a quelle per l'irrogazione delle sanzioni penali).

Quanto ai profili intertemporali, l'art. 39, comma 3, del decreto dispone che le novità sopra esaminate avranno efficacia dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della legge di conversione del decreto.

Questo differimento nell'entrata in vigore della novella, per vero, lascia sorgere più di un dubbio circa l'effettiva sussistenza di quella straordinaria necessità e urgenza che dovrebbe caratterizzare le materie fatte oggetto di decretazione governativa ai sensi dell'art. 77 Cost.

L'innalzamento dei limiti edittali e le fattispecie attenuate

Procedendo con ordine, nel delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 d.lgs. n. 74/2000), la pena viene elevata dalla reclusione da un anno e sei mesi a sei anni a quella della reclusione da quattro a otto anni.

Viene peraltro introdotto nella norma un comma 2-bis in forza del quale il previgente trattamento sanzionatorio (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni) viene mantenuto nella sola ipotesi in cui l'ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore a 100.000 euro.

La fattispecie di cui all'art. 2 d.lgs. n. 74/2000 oltrepassa quindi nei limiti edittali la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 d.lgs. n. 74/2000), collocandosi al di fuori della sistematica edittale dei reati economici.

Basti pensare che il minimo edittale è superiore a pressoché tutte le pene previste per gli altri delitti in materia economica, con conseguente rischio di irragionevolezza del trattamento sanzionatorio seguendo i parametri dettati dalla Consulta nella sentenza n. 40/2019.

La pena passa a quattro anni nel minimo e otto anni nel massimo, accrescendosi in maniera consistente rispetto a quella originaria, oscillante da un minimo di un anno e sei mesi ad un massimo di sei anni. Risulterà molto difficile dunque usufruire della pena sospesa, salvo le ipotesi di riti alternativi, e sarà molto più frequente l'uso della custodia cautelare in carcere.

All'uso delle intercettazioni ex art. 266, comma 1, lett. a) c.p.p. e delle misure cautelari coercitive più severe (ex artt. 273, 274, 278, 280 c.p.p.) si aggiunge quella di avallare il fermo, al ricorrere degli altri presupposti previsti dall'art. 384 c.p.p.; misura pre-cautelare provvista, nel caso del delitto in esame, di maggior spazio di potenziale operatività rispetto all'arresto facoltativo in flagranza di reato (art. 381, comma 1, c.p.p.), considerato che il momento consumativo del delitto si identifica con la dichiarazione.

La sanzione originaria prevista per il delitto di frode fiscale ex art. 2 cit. è conservata per una particolare configurazione della nuova fattispecie di cui si immagina l'introduzione, con innesto di un comma 2-bis nell'art. 2 del d.lgs. n. 74/2000, per il caso in cui l'ammontare degli elementi passivi fittizi sia inferiore a centomila euro.

È stato rilevato in dottrina (DI VIZIO, Reati tributari: il decreto fiscale innalza le pene e abbassa le soglie, in discimen.it) che “l'accresciuta severità sanzionatoria acuirà i contrasti interpretativi che hanno sin qui accompagnato la fattispecie penale, che, nel tempo, ha guadagnato progressivamente spazi applicativi rispetto alle figure di reato limitrofe. Si pensi, sotto tal ultimo aspetto, all'orientamento favorevole alle configurabilità del delitto ex art. 2 cit. a discapito del delitto ex art. 3 d.lgs. n. 74/2000 in caso di utilizzo di fatture materialmente false (da ultimo cfr. Cass., Sez. III, n. 6360/2019). Si considerino, ancora, le posizioni giurisprudenziali favorevoli alla configurazione del concorso materiale con il delitto previsto dall'art. 8 d.lgs. n. 74/2000 nel caso di utilizzo di fatture autoprodotte dall'utilizzatore, con esclusione dell'applicabilità dell'art. 9 d.lgs. n. 74/2000 in caso di imprenditore cd. “self made”, ove ricorre identità soggettiva tra emittente materiale ed utilizzatore materiale (Cass. Pen., Sez., III, 21 maggio 2012, n. 19247; Cass. Pen. n. 5434/2017) così come quando l'amministratore della società che ha emesso le fatture per operazioni inesistenti coincida con il legale rappresentante della diversa società che le abbia successivamente utilizzate (Cass. Pen., Sez., III, n. 19025/2013)”. È stato ancora rilevato (DI VIZIO, Reati tributari: il decreto fiscale innalza le pene e abbassa le soglie, cit.) che “sia pure in via sommaria, tra i principali temi del dissidio pare annoverabile, anzitutto, la ricomprensione dell'inesistenza giuridica entro la nozione di operazione oggettivamente inesistente (a favore, la prevalente giurisprudenza di legittimità, sia pure con distinguo, a partire da Cass. Pen., Sez. III, n. 13975/2008; nello stesso senso, cfr. Cass. Pen., 10 ottobre 2002, n. 38199; Cass. Pen., 21 gennaio 2004, n. 5804; Cass. Pen., 15 gennaio 2008, n. 1996; Cass. Pen., 7 ottobre 2010, n. 45056; Cass. Pen., 8 luglio 2010, n. 26138; Cass. Pen, III, n. 38754/2012.; Cass. Pen., n. 24540/2013; Cass. Pen., Sez. VI, n. 52321/2016 che ha specificato di condividere il principio «almeno quando l'operazione dissimulata è sottoposta ad un trattamento fiscale diverso da quello riservato all'operazione formalmente documentata»; cfr. anche Cass. Pen., 21996/2018”)”.

L'inasprimento sanzionatorio rende quindi urgente la differenziazione della repressione (quantomeno) dell'utilizzo di due tipologie di fatture relative ad operazioni inesistenti. Il riferimento è alle operazioni oggettivamente inesistenti (ossia operazioni non realmente intervenute, in tutto o in parte) e alle operazioni soggettivamente inesistenti (vale a dire operazioni effettive ma riferite a soggetti diversi rispetto a quali reali). Si tratta di operazioni espressamente equiparate dall'art. 1 lett. a) ma espressione di fenomeni di evasione assai differenti.

L'introduzione dell'ipotesi prevista dall'art. 2 comma 2-bis («Se l'ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro centomila, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni») integra una circostanza attenuante (per la pregressa formulazione cfr. Cass. Pen., Sez. III, n. 25204/2008; Cass. Pen., n. 20529/2011; Cass. Pen. n. 5720/2016; contra Cass. Pen., Sez. III, n. 23064/2008). Ne deriva la sua bilanciabilità ex art. 69 c.p. con ulteriori aggravanti, compresa la recidiva.

Lo speculare delitto di cui all'art. 8 d.lgs. n. 74/2000 viene punito più severamente (art. 39, comma 1, lett. l, d.l. n. 124/2019), vale a dire da quattro a otto anni, con analoghi effetti processuali.

L'art. 39, comma 1, lett. m), d.l. n. 124/2019 prevede poi un'ipotesi punita meno severamente attenuata laddove l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d'imposta, sia inferiore a euro centomila, evenienza in cui si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni.

Anche in questo caso si è al cospetto di una circostanza attenuante, con conseguente regime giuridico della stessa.

Sul punto si osserva che il riferimento alla non rispondenza al vero “dell'importo … indicato nelle fatture” potrebbe essere interpretato nel senso di riguardare non solo la base imponibile ma anche l'imposta sul valore aggiunto che viene indicata in fattura. In conseguenza di ciò, quindi, potrebbe essere ritenuta penalmente rilevante anche una fattura che, pur indicando fedelmente la base imponibile dell'operazione, si limiti ad esporre un'imposta non corretta in quanto, ad esempio, frutto dell'applicazione di un'aliquota IVA non adeguata. Si noti, a tale proposito, che l'art. 6, comma 6, decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, dispone che, “in caso di applicazione dell'imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o dal prestatore, fermo restando il diritto del cessionario o del committente alla detrazione … l'anzidetto cessionario o committente è punito” con una sanzione amministrativa ridotta e avente natura forfettaria. In sostanza, quindi, con la proposta formulazione del comma 2-bis dell'art. 8 rischierebbe di assumere rilevanza penale un profilo di irregolarità che, sotto l'aspetto amministrativo, viene sanzionato in modo particolarmente attenuato.

Per altri delitti sono stati incrementati i minimi edittali e i massimi edittali, senza l'introduzione di ipotesi circostanziali, anche in considerazione della previsione - almeno per alcuni di essi - di soglie di punibilità nella struttura tipica.

Sotto tale aspetto, per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art. 3 d.lgs. n. 74/2000, le pene edittali salgono da tre a otto anni, muovendo dai minori limiti originari oscillanti da un anno e sei mesi a sei.

Non viene in questo caso toccata la soglia di punibilità, che resta dunque quella a) dell'imposta evasa superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 30.000 euro; b) dell'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, superiore al 5% dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o comunque superiore a un milione cinquecentomila euro (soglia così innalzata proprio in occasione della riforma del 2015); ovvero dell'ammontare complessivo dei crediti e delle ritenute fittizie in diminuzione dell'imposta, superiore al 5% dell'ammontare dell'imposta medesima o comunque a 30.000 euro.

Risultano quindi integrate le soglie edittali per autorizzare le intercettazioni, per emettere misure cautelari personali coercitive, (acquisizioni di cui il reato era già provvisto), nonché per adottare l'arresto in flagranza e, ora, il fermo.

Va sul punto ricordato che la riforma del 2015 aveva mutato la condotta "trifasica" in "bifasica".

La riforma precedente aveva eliminato la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie quale distinto ed imprescindibile elemento costitutivo della condotta.

Ne è derivato anche l'ampliamento del novero dei potenziali autori del reato, ora “realizzabile anche dai soggetti tenuti alla presentazione della dichiarazione dei redditi ma non vincolati alla tenuta delle scritture contabili obbligatorie. L'elemento soppresso può essere comunque ricondotto (diversamente dal passato) alla categoria dei “documenti falsi” che valgono ad integrare la condotta del reato in quanto «sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti a fini di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria» (cfr. art. 3, comma 2, d.lgs. n. 74/2000). In secondo luogo, prescindendo dalla necessaria interconnessione delle singole condotte, è stata introdotta una relazione alternativa tra le operazioni simulate (elemento nuovo), l'utilizzo di documenti falsi e gli altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria” (DI VIZIO, Reati tributari: il decreto fiscale innalza le pene e abbassa le soglie, cit.).

La fattispecie penale ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000 è interessata da plurimi interventi riformatori: aumentano i limiti delle pene edittali: da quelli originali, oscillanti da “uno a tre" anni, viene raggiunta nel minimo la soglia di due anni e nel massimo quella di cinque anni (art. 39, comma 1, lett.d), d.l. n. 124/2019). Si abbassa, inoltre, a centomila euro (dall'originario importo di centocinquantamila) la soglia dell'imposta evasa, su base annuale, di rilevanza penale per imposte dirette sui redditi e per l'IVA nonché la soglia degli elementi attivi sottratti all'imposizione di inevitabile rilevanza penale ex art. 4, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 74/2000, fissata ora due milioni di euro (da quella originaria di tre milioni di euro). Al sotto di quest'ultimo importo, resta ferma la necessità che sia integrata la percentuale di rilevanza penale di almeno il 10 per cento tra elementi non dichiarati e quelli indicati in dichiarazione.

Infine, viene abrogato il comma 4-ter, dell'articolo 4 cit., disposizione che, fuori dei casi di cui al precedente comma 1-bis, escludeva l'integrazione di fatti punibili per le valutazioni che singolarmente considerate, differivano in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette, precisando altresì che degli importi compresi in tale percentuale non teneva conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b) dell'art. 4 del d.lgs. n. 74/2000.

I nuovi limiti edittali non consentono le intercettazioni, ma permettono l'adozione di misure cautelari coercitive custodiali, oltre che, in linea teorica, l'arresto facoltativo in flagranza. È prevista l'udienza preliminare.

Come osservato in sede di primo commento (DI VIZIO, Reati tributari: il decreto fiscale innalza le pene e abbassa le soglie, cit.) “l'abrogazione del comma segnala la riconsiderazione parziale di una scelta fondante della riforma del 2015. In quell'occasione sono state fissate una serie di regole per la definizione dell'imposta evasa e degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, di rilievo ai fini della fattispecie penale della dichiarazione infedele. A tal proposito, è stato stabilito che ai fini dell'integrazione delle soglie penali fissate dall'articolo 4 del d.lgs. n. 74/2000 non rilevano i valori corrispondenti a non corrette classificazioni o valutazioni, secondo i parametri tributari, di elementi attivi e passivi oggettivamente esistenti, «rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali» (art. 4, comma 1 bis, prima parte, d.lgs. n. 74/2000). Né possono considerarsi d'interesse penale gli elementi attivi sottratti all'imposizione per l'importo che consegue a violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, ovvero l'indicazione di elementi passivi non inerenti o non deducibili, secondo le regole tributarie (cfr. art. 109 TUIR), a condizione che essi siano reali (art. 4, comma 1 bis, seconda parte, d.lgs. n. 74/2000). Oltre a queste regole, è stato stabilito che non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che, singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette e che degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b) dell'articolo 4 citato (art. 4, comma 1 ter, d.lgs. n. 74/2000)”.

Tale ultima previsione - osserva l'orientamento in esame (DI VIZIO, Reati tributari: il decreto fiscale innalza le pene e abbassa le soglie, cit.) - ha comportato “l'irrilevanza penale di non corrette valutazioni di elementi attivi e passivi, anche in assenza di condizione di trasparenza, ove lo scostamento da quella corretta, per ciascuna di esse, sia di lieve entità (ovvero inferiore al 10 per cento), pur se, assommate ad altre di pari entità e contenuto, valgano a far raggiungere un importo, in cifra assoluta, eccedente i limiti quantitativi delle soglie di punibilità ex art. 4, comma 1, lettera a) e b) d.lgs. n. 74/2000 (cfr. relazione illustrativa della riforma del 2015). Si tratta di una previsione che ha sollevato non rare perplessità. Infatti, l'organizzazione volontaria di una serie di scorrette valutazioni di importo percentuale singolarmente pure modesto, ove complessivamente considerate, quand'anche prive di qualsiasi trasparenza, potrebbe far raggiungere elevati importi assoluti di evasione fiscale, penalmente neutralizzati in forza della previsione ipotizzata; senza essere compensata da un onere di trasparenza, diversamente dalle valutazioni “dichiarate” previste dall'art. 4, comma 1 bis, d.lgs. n. 74/2000. e, prima della riforma del 2015, dall'art. 7 del d.lgs. n. 74/2000, norma che imponeva più precisa ed intensa condizione di trasparenza delle scorrette rilevazioni contabili e delle valutazioni, limitate a quelle estimative, richiedendo che esse si svolgessero secondo criteri di stima indicati nel bilancio”.

Le pene dei reati di omessa dichiarazione dei redditi e dell'IVA (ex art. 5 comma 1, d.lgs. n. 74/2000) e delle ritenute da parte del sostituto di imposta (art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 74/2000) salgono nel minimo (da un anno e sei mesi) a due anni e nel massimo (da quattro anni) a sei anni. Si mantiene la maggior severità del delitto di omessa dichiarazione ex art. 5, comma 1 e 1-bisd.lgs. n. 74/2000 rispetto a quello di dichiarazione infedele ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000, mantenendo la soglia di irrilevanza penale dell'imposta evasa (pari a 50.000 euro), per ciascuna imposta, maturata su base annuale.

Il più elevato limite edittale massimo rende ora autorizzabili le intercettazioni, nonché legittima, al ricorrere delle ulteriori condizioni, l'emissione misure cautelari personali coercitive, nonché l'adozione dell'arresto facoltativo in flagranza.

L'innalzamento del massimo edittale comporta che anche per le fattispecie penali ex art. 5 cit. sarà necessaria la celebrazione dell'udienza preliminare a seguito della richiesta di rinvio a giudizio (arg. ex artt. 550, 416) ma anche praticabile la richiesta di giudizio immediato ex art 453 c.p.p. in presenza degli ulteriori requisiti previsti da tale disposizione.

Anche in questo caso la sanzione subisce un ritocco verso l'alto particolarmente evidente rispetto al massimo edittale, che da quattro anni passa a sei.

Il pensiero corre ai fatti di cosiddetta “esterovestizione”, nei quali l'evasione è il punto di approdo di condotte di delocalizzazione spesso articolate e di non agevole disvelamento. È però altrettanto vero che sia le sanzioni amministrative tributarie che l'operatività della confisca appaiono già rimedi adeguatamente incisivi per contrastare siffatte forme di evasione. Il tema dell'esterovestizione suggerisce, poi, un'ulteriore riflessione che ha a oggetto tutte le forme di evasione fiscale particolarmente strutturate, di dimensioni rilevanti e di considerevole insidiosità. E invero, fenomeno connaturato a tali strategie di sottrazione agli obblighi dichiarativi è quello del successivo reimpiego del quantum oggetto di evasione, in un contesto nel quale il profitto derivante dagli illeciti di natura tributaria è destinato a rifluire nel circuito organizzativo dell'impresa onde finanziarne gli ulteriori sviluppi o, quantomeno, l'ordinario funzionamento. Ebbene, occorre rammentare che, in tali ambiti, alla risposta sanzionatoria derivante dai profili di illiceità tributaria si va ad aggiungere tutto l'acuminato strumentario punitivo previsto dalle fattispecie di “riciclaggio” in senso lato (ossia artt. 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 c.p.), con chiaro rischio di tutela coercitiva multipla e violazione del ne bis in idem sostanziale, trovando il fenomeno di contaminazione dell'economia in altre (e severe) fattispecie un'adeguata risposta punitiva.

Il delitto di l'occultamento o distruzione di documenti contabili ex art. 10 d.lgs. n. 74/2000 viene punito con la stessa pena del delitto ex art. 3 d.lgs. n. 74/2000, raggiungendo le soglie da tre a sette anni, con incremento significativo dei limiti edittali originari.

Risultano quindi ammesse le intercettazioni, le misure cautelari personali coercitive (acquisizione già riferibile al reato), nonché l'adozione del fermo o dell'arresto in flagranza.

Va sul punto evidenziata la sproporzione sanzionatoria, essendo al cospetto di una fattispecie di pericolo meramente sintomatica di fatti di evasione. È vero che la norma trova perfezionamento solo se il pregiudizio al compendio documentale è tale da “non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari”. Tuttavia, è anche nota l'interpretazione giurisprudenziale che viene data di tale fattispecie, per la cui integrazione è sufficiente la presenza di un ostacolo alla ricostruzione delle grandezze rilevanti fiscalmente, sicché appare davvero concreto il rischio di applicazioni eccessivamente penalizzanti della disposizione normativa rispetto al canone della proporzione della pena all'offesa. Del resto, la fattispecie, per la sua particolare struttura, la non contempla alcuna soglia di punibilità.

L'abbassamento delle soglie di punibilità per imposta evasa per i delitti di omesso versamento ex art. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/2000

Per i reati di omesso versamento delle ritenute certificate e dell'IVA l'inasprimento è ricollegato all'abbassamento degli importi complessivi di imposta annuale dovuta e non versata di rilievo penale; per le ritenute la soglia scende da euro centocinquantamila a centomila euro, per l'IVA flette da euro duecentocinquantamila a centocinquantamila euro.

Secondo il condivisibile orientamento della Corte di Cassazione, la soglia di punibilità ha natura di elemento costitutivo del fatto di reato, contribuendo la stessa a definirne il disvalore (in tal senso, Cass. Pen., Sez. Unite, n. 37424 del 28/03/2013, Romano, non mass. sul punto; Cass. Pen., Sez. III, n. 3098/2016; Cass. Pen., n. 35611/2016; Cass. Pen., n.42868/2013).

L'attuale intervento si pone in controtendenza rispetto alla manovra di parziale depenalizzazione operata con la già citata riforma del 2015. Si rammenterà infatti che, fino ad allora, la soglia era fissata sia all'art. 10-bis che all'art. 10-ter nella misura di 50.000 euro; misura che era stata nel 2015 triplicata all'art. 10-bis e quintuplicata all'art. 10-ter con conseguente abolitio criminis parziale.

Con l'odierno decreto fiscale non si ritorna al grado di severità vigente fino al 2015, ma si ridimensiona l'effetto di depenalizzazione prodotto da quella riforma, attestandosi il confine dell'area di rilevanza penale a un livello intermedio, con un conseguente effetto di incriminazione di fatti nuovi, che dovrà evidentemente sottostare al principio di irretroattività in peius.

Questo fenomeno di continua revisione delle soglie dovuto alla successione di leggi comporterà altresì che fatti che costituivano reato nel momento in cui furono commessi prima della riforma del 2015 e che costituiranno reato anche al momento del giudizio in forza del presente decreto non saranno comunque punibili in virtù della regola della c.d. legge intermedia ex art. 2, comma 2, c.p., proprio perché non costituivano reato nel periodo intercorrente tra il 2015 e il 2019. Questa, in concreto, potrebbe essere la sorte delle condotte, commesse prima della riforma del 2015, di omesso versamento di ritenute per un ammontare compreso tra 100.000 e 150.000 euro e di omesso versamento di IVA per un ammontare compreso tra 150.000 e 250.000 euro.

Il reato dell'art. 17-bis, comma 17, del d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241

Il d.l. n. 124/2019, al fine di contrastare l'illecita somministrazione di manodopera, ha previsto l'estensione del regime del reverse charge per il versamento delle ritenute e per le compensazioni in appalti e subappalti.

In base al nuovo sistema, i soggetti ex art. 23, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, residenti ai fini delle imposte dirette nello Stato, ai sensi degli articoli 2, comma 2, 5, comma 3, lettera d), e 73, comma 3, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, che affidano il compimento di un'opera o di un servizio a un'impresa sono tenuti al versamento delle ritenute di cui agli articoli 23 e 24 del citato decreto del Presidente della Repubblica n. 600 del 1973, 50, comma 4, del decreto legislativo 15 dicembre 1997 n. 446, e 1, comma 5, del decreto legislativo 28 settembre 1998, trattenute dall'impresa appaltatrice o affidataria e dalle imprese subappaltatrici, ai lavoratori direttamente impiegati nell'esecuzione dell'opera o del servizio.

In relazione a tale complesso normativo, l'art. 4, comma 2,d.l. 124/2019 punisce ai sensi dell'art. 10-bisd.lgs. n. 74/2000, con le relative nuove soglie di punibilità, “chiunque, obbligato in base alle disposizioni di cui al presente articolo, non esegua, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, il versamento delle ritenute”.

La previsione della confisca allargata

L'innovazione che, con ogni probabilità, appare destinata ad incidere in misura più dirompente sul sistema penale tributario è rappresentata dall'estensione della sfera applicativa della particolare ipotesi di confisca prevista dall'art. 240-bis c.p. a gran parte delle fattispecie di evasione fiscale penalmente rilevante.

Un tale risultato è ottenuto attraverso l'inserimento, nel decreto legislativo n. 74/2000, di un nuovo art. 12-ter volto ad estendere il perimetro della cosiddetta “confisca allargata” di cui all'art. 240-bis c.p. anche ai casi in cui vi sia condanna o “patteggiamento” per talune fattispecie penali tributarie.

Testualmente, l'art. 39, comma 1, lett. d), d.l. n. 124/2019 così dispone: “1. Nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti previsti dal presente decreto, diversi da quelli previsti dagli articoli 10-bis e 10-ter, si applica l'articolo 240-bis del codice penale quando: a) l'ammontare degli elementi passivi fittizi è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall'articolo 2; b) l'imposta evasa è superiore a euro centomila nel caso dei delitti previsti dagli articoli 3 e 5, comma 1; c) l'ammontare delle ritenute non versate è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall'articolo 5, comma 1-bis; d) l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall'articolo 8; e) l'indebita compensazione ha ad oggetto crediti non spettanti o inesistenti superiori a euro centomila nel caso del delitto previsto dall'articolo 10-quater; f) l'ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro centomila nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 1; g) l'ammontare degli elementi attivi inferiori a quelli effettivi o degli elementi passivi fittizi è superiore a euro centomila nel caso del delitto previsto dall'articolo 11, comma 2; h) è pronunciata condanna o applicazione di pena per i delitti previsti dagli articoli 4 e 10”.

Sono esclusi i delitti di omesso versamento delle ritenute e dell'IVA ex artt. 10-bis e 10-terd.lgs. n. 74/2000.

Tale ipotesi di confisca si applica a pressoché tutti i reati tributari: restano esclusi, infatti, solamente i delitti di cui agli artt. 10-bis e 10-ter, mentre per i delitti di cui agli artt. 3, 5, 10-quater e 11 la confisca allargata trova applicazione in presenza di fenomeni di evasione che, pur con la diversa declinazione propria di ciascuna fattispecie, sono di entità superiore a centomila euro.

Per le fattispecie di cui agli artt. 2 e 8 a rilevare, invece, è l'entità degli elementi passivi fittizi oggetto di dichiarazione (art. 2) oppure degli “importi non rispondenti al vero” indicati nelle fatture emesse (art. 8): vale a dire che qui il parametro di riferimento per l'operatività della confisca non è più l'imposta evasa (estranea a tali fattispecie) ma la base imponibile.

Una interpretazione conforme ai principi fondamentali del diritto penale a orientamento costituzionale impone infatti di tenere conto delle fattispecie autonoma di base (dunque con esclusione della conformazione in forma circostanziale), come i delitti ex art. 2, comma 1, e 8, comma 1, d.lgs. n. 74/2000, essendo fissato in oltre centomila euro l'importo degli elementi passivi fittizi o non corrispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti che ne identifica la natura di reati presupposto della confisca allargata.

Si crea dunque un regime differenziato all'interno di ogni singola fattispecie incriminatrice, al dichiarato scopo di colpire più severamente i c.d. “grandi evasori”: superata la soglia di rilevanza penale del fatto, per far scattare l'operatività della confisca allargata sarà necessario superare un'ulteriore soglia. Vi sarà dunque una fascia di condotte sottoposte al solo regime “ordinario” della confisca prevista dall'art. 12-bis, e un'altra fascia di condotte più gravi (che cioè superano anche le soglie indicate dall'art. 12-ter) rispetto alle quali sarà applicabile anche la confisca c.d. allargata di cui all'art. 240-bis c.p.

Fanno eccezione a questo sistema “a doppio schema” le sole fattispecie di cui agli artt. 4 e 10, rispetto alle quali è sempre applicabile la confisca allargata. Scelta, quest'ultima, che appare comprensibile rispetto all'art. 10, in quanto punisce condotte di distruzione o occultamento di documenti o scritture, ma che sembra invece meno scontata rispetto all'art. 4, ove – essendo contemplate delle soglie – avrebbe potuto astrattamente operare il “doppio schema” previsto in relazione alle altre fattispecie incriminatrici. Ulteriore eccezione, ma nell'opposto senso di ritenere che non sia mai applicabile la confisca allargata, è prevista per le fattispecie di omesso versamento ex artt. 10-bis e 10-ter; ciò presumibilmente in ragione della minore gravità che contraddistingue la condotta tipica di queste fattispecie.

L'art. 240-bis, comma 1, c.p. prevede che, nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, per alcuni delitti tipici, è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica. In ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale, salvo che l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge. Nei casi previsti dal primo comma dell'art. 240-bis cit., quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui allo stesso comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità di legittima provenienza per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona.

Malgrado la collocazione contigua, la misura di ablazione patrimoniale si differenzia notevolmente, per plurimi elementi di autonomia, dalla confisca prevista dall'art. 240 c.p.

Si tratta, infatti, di una confisca obbligatoria («è sempre disposta») che opera nei casi di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti (sentenza di patteggiamento) per determinati reati e ha a oggetto «beni o altre utilità» di cui il condannato sia formalmente titolare o di cui comunque abbia la disponibilità diretta o indiretta (per interposta persona) in «valore sproporzionato» al proprio reddito dichiarato o alla propria attività economica.

Si distacca, quindi, dalla matrice originaria della confisca quale misura di sicurezza patrimoniale (art. 240 c.p.) perché prescinde radicalmente dall'accertamento di un nesso di pertinenzialità (in termini di derivazione causale o strumentalità) dei beni confiscabili con il reato per cui è stata pronunciata sentenza di condanna. Nesso di pertinenzialità che è invece implicito nei concetti di profitto, prodotto e prezzo del reato, cui si riconnette l'operatività della confisca, intesa come misura di sicurezza patrimoniale (Padovani, Diritto penale, Milano, 2019, 432 ss.).

In effetti, l'irrilevanza del nesso di pertinenzialità risponde esattamente alle finalità all'origine perseguite dal legislatore con la sua introduzione nel sistema penale: definire uno strumento di contrasto del fenomeno dell'accumulazione di risorse economiche illecite, legato specialmente alla criminalità organizzata, superando i limiti operativi della confisca penale (art. 240 c.p.), connessi all'esigenza di accertare il nesso oggettivo dei beni col reato (Padovani, Diritto penale, cit., 432 ss.).

Per questi rilievi, risulta incerto il suo inquadramento come misura di sicurezza patrimoniale (art. 240 c.p.). A ben vedere, in un sistema penale che conosce una pluralità di confische (non da ultimo, quella di prevenzione di cui all'art. 24 d.lgs. 159/2011) non è più prospettabile una chiave di lettura unitaria. La natura giuridica e la funzione delle singole ipotesi di confisca, infatti, dipendono dal contesto normativo in cui si collocano e dagli specifici presupposti che la legge di volta in volta definisce (Corte cost. sent. nn.29/1961 e 18/1996; si veda anche Cass. pen., Sez. un., n. 26654/2008).

La confisca c.d. allargata si fonda sulla presunzione legale della provenienza illecita dei beni e delle utilità di cui dispone, direttamente o indirettamente, il soggetto condannato.

Questa presunzione poggia, in particolare, su due elementi indizianti complementari: il primo consiste nella qualità di condannato per uno dei reati espressamente previsti dall'art. 240-bis c.p.; il secondo nella sproporzione dei beni o, più in generale, del patrimonio di cui dispone, direttamente o indirettamente, il soggetto condannato rispetto ai propri redditi dichiarati ovvero alle attività economiche lecite. Da questi elementi si risale alla presunzione «che il patrimonio stesso derivi da attività criminose che non è stato possibile accertare»; si presume, in altri termini, che «il condannato abbia commesso non solo il delitto che ha dato luogo alla condanna, ma anche altri reati, non accertati giudizialmente, dai quali deriverebbero i beni di cui egli dispone» (per questa convincente lettura, Corte cost. sent. n. 33/2018). Si tratta di una presunzione soltanto relativa: per vincerla, è necessario che il soggetto condannato alleghi gli elementi utili a dimostrare la provenienza lecita dei beni sproporzionati; è del tutto irrilevante, invece, la prova negativa della non provenienza dei beni dal reato per il quale è stato condannato (Padovani, Diritto penale, cit., 432 ss.).

I reati di cui all'art. 240-bis c.p. (c.d. reati-spia) devono presentare connotazioni empirico-crimonologiche in grado di sostenere la presunzione legale di illecita accumulazione patrimoniale, in funzione della quale opera la confisca allargata. In tal senso, deve trattarsi di reati in grado di produrre utilità illecite e che implicano forme professionali o sistematiche di realizzazione. Lo impone, del resto, il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), che vieta al legislatore di assimilare, nell'ambito del catalogo di cui all'art. 240-bis c.p., fattispecie incriminatrici che, per natura e caratteri, non risultino coerenti con la presunzione legale (Corte cost. sent. n. 33/2018). A fronte di un nucleo originario, identificabile nei reati che sottendono un contesto associativo e/o organizzativo di realizzazione (delitti di cui all'art. 51 comma 3 bis c.p.p.) o, comunque, intrinsecamente produttivi di utilità (artt. 648-bis, 648-ter, 648-ter.1 c.p.), il legislatore ha ampliato il catalogo seguendo una logica evidentemente in contrasto con l'esigenza di assicurare una giustificazione razionale della presunzione (art. 3 Cost.): così, ad es., per l'inclusione dei reati contro la pubblica amministrazione, che non hanno la benché minima attinenza con contesti di criminalità organizzata e non implicano modalità di azione sistematiche e professionali. Per correggere le carenze che affliggono la selezione in astratto dei reati-indizianti, si consente al giudice di verificare in concreto, tenuto conto delle circostanze del caso e della personalità del reo, se il singolo reato per cui è intervenuta condanna sia tale da giustificare la presunzione legale cui è connessa l'applicazione della confisca allargata (Padovani, Diritto penale, cit., 432 ss.).

Quanto all'elemento della sproporzione, l'art. 240-bis c.p. sancisce espressamente che il soggetto condannato non possa giustificare la provenienza lecita dei beni adducendo redditi non dichiarati o, comunque, utilità che costituiscano il provento di evasione fiscale, «salvo che l'obbligazione tributaria sia stata estinta mediante adempimento nelle forme di legge», come nel caso in cui i redditi evasi siano emersi per effetto dell'adesione a procedure di ravvedimento o di condono fiscale. La ratio di questa previsione sembra essere quella di escludere dall'oggetto della confisca allargata quanto l'imputato abbia già restituito all'erario, evitando una duplicazione di apprensione del provento illecito. Tale precauzione – proprio nell'ambito dei reati tributari – era già adottata nel diritto vivente in forza di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, ed era stata addirittura “rafforzata” dal legislatore del 2015 prevedendo, al secondo comma dell'art. 12-bis, che la confisca sia esclusa non solo per la parte che il contribuente ha effettivamente già versato all'erario, bensì anche per quella che “si impegna” a versare (Cass. pen., sez. III, 15 aprile 2015, n. 20887; cfr., nello stesso senso, Cass. pen., sez. III, 16 maggio 2012, n. 30140; Cass. pen., sez. III, 3 dicembre 2012, n. 46726). A stretto rigore letterale, qualora il decreto dovesse essere convertito in legge nell'attuale versione, la rilevanza dell'impegno a pagare l'imposta evasa ex art. 12-bis, comma 2, sembrerebbe poter operare solamente in relazione alla confisca “ordinaria” prevista da quello stesso articolo, mentre per la confisca allargata introdotta all'art. 12-ter sembrerebbe rilevare solamente l'effettiva restituzione all'erario.

La giurisprudenza circoscrive sul piano temporale la presunzione di illecita provenienza dei beni in valore sproporzionato alla capacità reddituale del soggetto condannato. Assume rilievo, pertanto, nel circoscrivere l'oggetto della confisca, la distanza cronologica che intercorre tra il momento di acquisizione dell'utilità, della cui provenienza lecita si dubita, e il reato-spia per cui è pronunciata condanna. La confisca non dovrebbe operare quando questa distanza è talmente significativa da rendere irragionevole la presunzione di provenienza illecita del bene. La delimitazione temporale consente di «evitare una abnorme dilatazione della sfera di operatività dell'istituto […] che legittimerebbe altrimenti – anche a fronte della condanna per un singolo reato compreso nella lista – un monitoraggio patrimoniale esteso all'intera vita del condannato» (Corte cost. sent. n. 33/2018) , non potendo i beni essere "ictu oculi" estranei al reato perché acquistati in un periodo di tempo eccessivamente antecedente alla sua commissione (Cass. Pen., Sez. V, n. 21711/2018). Occorre, in altre parole, la prossimità temporale dell'acquisto del bene rispetto alle condotte illecite (Padovani, Diritto penale, cit., 432 ss.).

La giurisprudenza, anche costituzionale (sent. n. 335/1996; da ultimo, n. 33/2018) è costante nell'attribuire alla confisca allargata una natura ibrida perché ambiguamente «sospesa» tra funzione «special-preventiva» e «vero e proprio intento punitivo». La privazione coercitiva di beni di sospetta provenienza illecita persegue, anzitutto, una finalità preventiva: consente, infatti, di neutralizzare l'attività di soggetti che si presumono socialmente pericolosi, in ragione della condanna per uno dei reati indicati dall'art. 240-bis c.p. E risponde anche ad una funzione punitiva, che si esprime nella sottrazione definitiva dal circuito economico di risorse economiche di matrice illecita. La dimensione preventiva, di neutralizzazione della pericolosità sociale del soggetto condannato, sarebbe però prevalente per la giurisprudenza, che nega recisamente la natura di pena della confisca allargata e la inquadra come misura di sicurezza atipica, sottraendola alle garanzie costituzionali che presidiano la materia penale e, in special modo, al principio di irretroattività (art. 25, comma 2, Cost.). È infatti regolata, sul piano intertemporale, dalla legge in vigore al tempo della sua applicazione (art. 200, comma 1,c.p.).

La natura di questa speciale confisca permane incerta anche in dottrina (cfr. le acute osservazioni di PADOVANI, Diritto penale, cit., 432 ss.). Per un verso, l'irrilevanza di un nesso, causale o strumentale, tra reato e beni suscettibili di confisca, la proietta inevitabilmente in una dimensione punitiva: d'altro canto, la stessa giurisprudenza costituzionale considera questo collegamento come presupposto essenziale perché una misura ablativa possa autenticamente svolgere una finalità preventiva. Finalità che, peraltro, non risulta prospettabile con riferimento alla confisca allargata, per l'evidente ragione che l'art. 240-bis c.p. non esige un accertamento giudiziario della pericolosità sociale del soggetto né tanto meno delle cose confiscabili. Per altro verso, questa confisca si fonda sulla presunzione legale che i beni non proporzionati alla capacità reddituale del soggetto condannato derivino da altri reati, giudizialmente non accertati; in tal senso, la confisca recupera il nesso tra beni e reato, sebbene per il tramite di un'inferenza probatoria (sproporzione-provenienza illecita) di matrice legale ed opererebbe come una sanzione con prevalente finalità ripristinatoria, quindi orientata a ristabilire, con l'estinzione della proprietà sui beni sproporzionati, la situazione economica anteriore ai reati che si presumono commessi, secondo il noto principio crimen non lucrat. Secondo visioni più radicali, peraltro, tale connotazione reintegratoria ne fonderebbe la qualificazione come misura di natura civilistica: né più né meno che una forma di estinzione del diritto di proprietà, acquisito mediante il reato.

A prescindere da queste letture, e valorizzando i tratti afflittivo-punitivi dell'istituto, è inevitabile riconoscere la tensione con i principi costituzionali: non soltanto con la garanzia di irretroattività, all'evidenza violata e che in una dimensione costituzionalmente conforme potrebbe essere rispettata ritenendo il divieto di applicazione retroattiva, ma anche con la presunzione di non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.): il soggetto è privato di risorse patrimoniali in relazione a reati che si presumono commessi e in alcun modo risultano accertati. La condanna difatti concerne soltanto il reato-spia: è quindi del tutto irrilevante, nell'ottica dell'art. 27 comma 2 Cost., che l'art. 578-bis c.p.p., introdotto dal D.lgs. 21/2018, esiga comunque un accertamento di responsabilità penale del soggetto, nonostante la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione o amnistia (Padovani, Diritto penale, cit., 432 ss.).

Occorre osservare, infine, come la giurisprudenza convenzionale sia orientata a considerare questa ipotesi di confisca come mera misura preventiva, volta ad impedire l'uso illecito di beni di cui non è provata l'origine lecita da parte di soggetti pericolosi (sentenza Bocellari e Rizza c. Italia, 05.01.2010). Si tratta, tuttavia, di una soluzione fortemente discutibile, anche alla luce degli indirizzi interpretativi sviluppati dalla stessa Corte europea. La natura penale della confisca di sproporzione emerge evidente alla stregua dei criteri sostanziali a cui la giurisprudenza sovranazionale riconnette tale qualificazione, come ad es. il grado di afflittività: del resto, proprio in relazione ad una confisca considerata come preventiva dal diritto interno, la Corte ha riconosciuto come la nozione di pena, agli effetti della Cedu, non sia incompatibile con la funzione preventiva e, insieme, repressiva perseguita (sentenza Welch c. Regno Unito, 09.02.1995).

La confisca di sproporzione è prevista anche in forma per equivalente (art. 240-bis, comma 2, c.p.) e opera, come di consueto, quando «non è possibile» procedere all'ablazione diretta del denaro o delle altre utilità; in tal caso, l'ablazione patrimoniale concerne denaro o altre utilità di legittima provenienza, per un valore equivalente a quello dei beni sproporzionati, che si presumono di origine illecita. Secondo il consolidato orientamento interpretativo, alcun dubbio sussiste circa la natura penale di questa specifica forma di confisca indiretta.

Può infine rammentarsi che, in virtù del rinvio che il nuovo art. 12-ter fa all'art. 240-bis c.p., a sua volta richiamato dall'art. 578-bis c.p.p., il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato tributario estinto per prescrizione o per amnistia, potranno decidere sull'impugnazione ai soli effetti della confisca, purché procedano a un previo accertamento della responsabilità dell'imputato.

Deve sul punto rilevarsi che la Corte di Cassazione, di recente, si è confrontata con gli artt. 183-quater disp. att. c.p.p. e 240-bis c.p., pervenendo a conclusioni fortemente restrittive sulle possibilità del giudice dell'esecuzione di pronunciare la confisca allargata. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che tale ablazione speciale può essere disposta dal giudice dell'esecuzione solo in relazione alle disponibilità del condannato già individuate nel giudizio di cognizione, in quanto la sua estensione ai beni acquistati successivamente contrasterebbe con i principi generali che regolano le attribuzioni di tale giudice e vanificherebbe ogni distinzione tra la disciplina di tale tipo di confisca e quella della confisca di prevenzione (Cass. Pen. n. 22820/2019 in fattispecie in cui il Gip, quale giudice dell'esecuzione, aveva rigettato la richiesta di confisca ex art. 12-sexies, legge n. 356 del 1992 avanzata dal P.M. sulla base di indagini patrimoniali successive alla definizione del giudizio).

Tale ipotesi di confisca, si badi bene, va ad aggiungersi alla confisca “per equivalente” che già da oltre un decennio presidia la materia in esame e che è oggi contemplata dall'art. 12-bis.

Va anche considerato che l'accumulo di capitali sproporzionati rispetto ai redditi e non giustificati è fenomeno tradizionalmente riconducibile alle organizzazioni strutturate le cui attività illecite si articolano nel tempo: dunque, il disallineamento tra la consistenza patrimoniale ed i flussi di denaro giustificabili assume dimensioni marcate. Ciò ammette, evidentemente, un intervento ablativo che presenta una connotazione fortemente presuntiva, ai confini delle misure di prevenzione e che, almeno nella sua ratio originaria, doveva sottendere fenomeni criminali assai gravi e particolarmente organizzati.

Va tuttavia considerato che di regola, in presenza di condotte di evasione fiscale, il fenomeno si presenta diversamente, specie laddove una tale evasione trovi concretizzazione in fatti privi dei connotati della fraudolenza.

E allora, applicare la confisca allargata all'evasione fiscale significa, in un primo momento, accertare con le garanzie e il rigore del processo penale la sussistenza di una evasione fiscale che, prendendo a riferimento il futuro delitto di dichiarazione infedele, dovrà superare i centomila euro. Giunti alla condanna per un tale delitto e confiscato, anche per equivalente, il profitto di siffatta evasione, si schiuderanno le porte ad un ulteriore e meno garantito processo di verifica, volto a scrutinare l'intero patrimonio del condannato. E se un tale patrimonio sarà incongruente con i redditi dichiarati ed i consumi accertati (o talora anche solo presunti), oggetto di confisca sarà la quota di tale patrimonio rimasta priva di giustificazione. In un tale assetto, neppure l'eventuale evasione fiscale penalmente irrilevante appare suscettibile di “giustificare” la sproporzione tra redditi e patrimonio, atteso che “in ogni caso il condannato non può giustificare la legittima provenienza dei beni sul presupposto che il denaro utilizzato per acquistarli sia provento o reimpiego dell'evasione fiscale”. Viene in rilievo infatti l'evasione fiscale, anche non penalmente rilevante.

Dunque, la condanna anche per un solo reato tributario di modesta gravità e circoscritto a un solo periodo d'imposta rischia di trasformarsi nell'occasione per porre in discussione l'intera consistenza patrimoniale di un contribuente. È ciò che già accade abitualmente nell'attuale applicazione della confisca allargata e della confisca (per molti versi analoga) di prevenzione, con il condannato o il proposto posti in condizione di dover giustificare la provenienza di somme di denaro ormai lontane nel tempo, spesso con l'impossibilità di reperire adeguati riscontri documentali. E se la Corte costituzionale ha di recente posto rilevanti limiti al riconoscimento della sussistenza dei presupposti applicativi delle misure di prevenzione (ossia della pericolosità del proposto) (Corte cost., 27 febbraio 2019, n. 24), in ambito penale tributario sarà sufficiente la condanna per un solo delitto per poter dare avvio ad un così penetrante scrutinio patrimoniale.

Il che influenzerà l'utilizzo di misure cautelari reali già nella fase delle indagini.

È vero che, nel corso degli anni, la sfera applicativa della confisca allargata si è andata arricchendo anche con molte ipotesi di reato che già l'hanno allontanata dalla originaria matrice di contrasto alla criminalità mafiosa o, quantomeno, organizzata (basti pensare, per tutti, all'inserimento dei reati contro la Pubblica amministrazione tra le fattispecie presupposto), ma il tema diviene particolarmente delicato in relazione alle fattispecie penali tributarie: in tale contesto, infatti, l'evasione fiscale funge contemporaneamente tanto da fattispecie presupposto (“reato-spia”) quanto da elemento rivelatore della sproporzione e, quindi, indiziante della provenienza illecita di (almeno) una quota del patrimonio.

Del resto, la Corte costituzionale ha affermato che “costituisce … approdo ermeneutico ampiamente consolidato nella giurisprudenza di legittimità … che … il giudice non debba ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili ed il reato per cui è stata pronunciata condanna, e neppure tra i medesimi beni e una più generica attività criminosa del condannato”. Con la conclusione che vede “la confiscabilità non esclusa dal fatto che i beni siano stati acquistati in data anteriore o successiva al reato per cui si è proceduto, o che il loro valore superi il provento di tale reato” (Corte cost., 21 febbraio 2018, n. 33).

Unico limite temporale, capace di evitare un “monitoraggio temporale esteso all'intera vita del condannato” sarebbe così il parametro della “ragionevolezza temporale”, in forza del quale “il momento di acquisizione del bene non dovrebbe risultare ... talmente lontano dall'epoca di realizzazione del reato spia da rendere ictu oculi irragionevole la presunzione di derivazione del bene stesso da una attività illecita, sia pure diversa e complementare rispetto a quella per cui è intervenuta condanna”.

Infine, viene a determinarsi uno scarto tra l'evasione realizzata da contribuenti persone fisiche e contribuenti persone giuridiche, essendo chiaro che una simile forma di confisca è destinata a trovare applicazione unicamente nei confronti della persona fisica autrice del reato, con conseguente vaglio di giustificatezza patrimoniale dei beni di proprietà o nella disponibilità del condannato.

In presenza di evasione fiscale realizzata nell'ambito di persone giuridiche, i benefici dell'evasione confluiscono in un patrimonio (quello della persona giuridica) comunque estraneo alla sfera ablativa dell'art. 240-bis c.p. Ergo, i fenomeni di evasione che intervengono in seno alle persone giuridiche (ossia, verosimilmente, i più rilevanti) continueranno a rimanere immuni non solo dalla confisca per equivalente ma anche dalla confisca allargata.

Per contro, un analogo fenomeno di evasione fiscale realizzato nel contesto della persona giuridica vedrebbe il patrimonio dell'autore del reato sottoposto ad identiche misure, mentre il patrimonio della società beneficiaria dell'evasione potrebbe essere aggredito nei limiti della confisca cosiddetta “diretta” o “tradizionale” di cui all'art. 240 c.p. Il che si traduce, anche dopo le Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, 5 marzo 2014, n. 10561), nella possibilità di confiscare una somma pari al quantum delle imposte evase solo se tale somma risulta giacente sui conti della società.

La responsabilità degli enti per illecito amministrativo previsto dall'art. 25-quinquiesdecies d.lgs. n. 231/2001

Va segnata, infine, l'introduzione all'interno del catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell'ente ex d.lgs. 231/2001 del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti di cui all'art. 2 d.lgs. 74/2000.

Viene infatti aggiunto nel decreto 231 un nuovo art. 25-quinquiesdecies (Reati tributari) che commina in capo all'ente responsabile la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote; e che – possiamo aggiungere – renderà applicabile alla persona giuridica l'intero compendio di misure contemplate dal decreto 231, ivi compresa – tra l'altro – la confisca, anche per equivalente, del prezzo o profitto della dichiarazione fraudolenta realizzata nell'interesse o a vantaggio dell'ente.

In base all'art. 39, comma 2, d.l. n. 124/2019 dopo l'articolo 25-quaterdecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 (Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica), è aggiunto il seguente: Art. 25-quinquiesdecies (Reati tributari). «1. In relazione alla commissione del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'articolo 2 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applica all'ente la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote.

Le Sezioni Unite Gubert (n. 10561/2014) avevano espressamente segnalato profili di irrazionalità connessi al mancato inserimento dei reati tributari fra quelli previsti dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, con il rischio di vanificare le esigenze di tutela delle entrate tributarie, a difesa delle quali era stato introdotto l'art. 1, comma 143, legge n. 244 del 2007. In proposito, la Corte di Cassazione aveva in proposito notato: “... è possibile, attraverso l'intestazione alla persona giuridica di beni non direttamente riconducibili al profitto di reato, sottrarre tali beni alla confisca per equivalente, vanificando o rendendo più difficile la possibilità di recupero di beni pari all'ammontare del profitto di reato, ove lo stesso sia stato occultato e non vi sia disponibilità di beni in capo agli autori del reato. Dovendosi anche sottolineare come la stessa logica che ha mosso il legislatore nell'introdurre la disciplina sulla responsabilità amministrativa degli enti finisca per risultare non poco compromessa proprio dalla mancata previsione dei reati tributari tra i reati presupposto nel d.lgs. n. 231 del 2001, considerato che, nel caso degli enti, il rappresentante che ponga in essere la condotta materiale riconducibile a quei reati non può che aver operato proprio nell'interesse ed a vantaggio dell'ente medesimo. Tale irrazionalità non è peraltro suscettibile di essere rimossa sollevando una questione di legittimità costituzionale, alla luce della costante giurisprudenza costituzionale secondo la quale il secondo comma dell'art. 25 Cost. deve ritenersi ostativo all'adozione di una pronuncia additiva che comporti effetti costitutivi o peggiorativi della responsabilità penale, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore. (Cass. Pen., Sez. Unite, n. 38691 del 25/06/2009, Caruso, Rv. 244189). Le Sezioni Unite non possono quindi che segnalare tali irrazionalità ed auspicare un intervento del legislatore, volto ad inserire i reati tributari fra quelli per i quali è configurabile responsabilità amministrativa dell'ente ai sensi del d.Igs. 8 giugno 2001, n. 231”.

Con l'estensione della responsabilità amministrativa dell'ente al reato di cui al citato art. 2, d.lgs. n. 74/2000, il legislatore ha posto fine alle discussioni dottrinali concernenti la inclusione o meno dei reati tributari nel catalogo dei reati-presupposto.

Infatti, nella Relazione illustrativa all'art. 39 si legge espressamente che: “Con l'introduzione della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per i più gravi reati tributari commessi nel loro interesse o a vantaggio delle medesime, si inizia a colmare un vuoto di tutela degli interessi erariali che, pur giustificato da ampi settori della dottrina con la necessità di evitare duplicazioni sanzionatorie, non può più ritenersi giustificabile sia alla luce della più recente normativa eurounitaria, sia in ragione delle distorsioni e delle incertezze che tale lacuna aveva contribuito a generare nella pratica giurisprudenziale”.

L'introduzione del reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 2, d.lgs. n. 74/2000) all'interno dell'art. 25-quinquiesdecies del d.lgs. n. 231/2001 risponde, seppur in parte, alle richieste provenienti dall'Unione Europea, concernenti la tutela degli interessi finanziari dell'Unione mediante, tra l'altro, l'inclusione dei reati tributari nella disciplina della responsabilità degli enti.

A fronte di una prima lettura dell'art. 39, si possono trarre le seguenti considerazioni: innanzitutto la norma è circoscritta all'art. 2, d.lgs. n. 74/2000, con la conseguenza che rimarranno escluse dal novero dei reati-presupposto tutte le altre fattispecie dichiarative od omissive; si pensi alla dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici di cui all'art. 3, d.lgs. n. 74/2000, alla dichiarazione infedele di cui all'art. 4, alla omessa dichiarazione di cui all'art. 5, ed all'omesso versamento dell'IVA di cui all'art. 10-ter.

Atteso che il catalogo dei reati-presupposto è tassativo, non appare possibile né una interpretazione estensiva dell'art. 25-quinquiesdecies volta a estendere il perimetro applicativo della norma fino a ricomprendervi i reati tributari rimasti esclusi, né tanto meno una interpretazione analogica in malam partem vietata dall'art. 25, comma 2, della Costituzione.

In secondo luogo, considerato che l'art. 13 del d.lgs. n. 231/2001 prevede che le sanzioni interdittive si applichino soltanto ai reati per i quali sono espressamente previste, le stesse non potranno trovare applicazione con riferimento all'art. 2 del d.lgs. n. 74/2000, in quanto l'art. 39 prevede soltanto la sanzione pecuniaria fino a 500 quote; il che comporta che le misure interdittive non potranno essere applicate all'ente neanche in via cautelare ex art. 45, d.lgs. n. 231/2001. La ratio di tale scelta è quella di scongiurare l'applicazione di misure molto gravose ed incisive che paralizzerebbero l'attività dell'ente, portandolo “alla morte”.

L'introduzione della norma consentirà, altresì, di superare i problemi applicativi derivanti dalla inclusione “indiretta” dei reati tributari nel catalogo dei reati-presupposto, attraverso la contestazione degli stessi quali reati-fine dell'associazione a delinquere o reati-presupposto del riciclaggio o dell'autoriciclaggio.

Allo stesso modo la norma consentirà di risolvere il problema concernente l'applicazione della confisca (in particolare la confisca per equivalente) del profitto del debito tributario che confluisce nelle casse dell'ente a favore del quale è stato commesso il delitto. In passato la giurisprudenza ha cercato di aggirare l'ostacolo mediante la previsione di ipotesi particolari in cui si ammetteva la confisca del patrimonio dell'ente: si pensi al caso “Gubert” affrontato dalla nota sentenza delle SS.UU. della Corte di cassazione (Cass., SS.UU., 5 marzo 2014, n. 10561) nella quale è stato delineato il diverso regime applicativo della “confisca diretta” (detta anche “confisca di proprietà”) e della “confisca per equivalente” (detta anche “confisca di valore”) nei confronti dell'ente. In tema di reati tributari tale distinzione assume particolare rilievo, in quanto il profitto confiscabile corrisponde a qualsiasi vantaggio patrimoniale derivante dalla realizzazione del reato e può consistere anche in un risparmio di spesa, come quello scaturente dal mancato pagamento di un tributo, sicché, in questi casi, l'investimento in altri beni del denaro risparmiato consente la confisca diretta dei beni acquistati. Pertanto, le Sezioni Unite hanno ritenuto che la confisca diretta del profitto del reato sia possibile anche nei confronti di una persona giuridica per i reati tributari commessi dal legale rappresentante nell'interesse della stessa, quando il profitto o i beni ad esso direttamente riconducibili siano rimasti nella disponibilità della persona giuridica. Per contro, le stesse Sezioni Unite hanno statuito che non è mai ammessa la confisca per equivalente nei confronti della persona giuridica per la violazione fiscale commessa dal legale rappresentante, salvo il caso in cui la persona giuridica sia un mero schermo attraverso il quale il reo agisca come effettivo titolare dei beni.

Con l'inclusione dei reati tributari nel catalogo dei reati-presupposto ad opera dell'art. 39 del decreto fiscale n. 124/2019, sarà, quindi, possibile procedere direttamente alla “confisca diretta” o alla “confisca per equivalente” del patrimonio dell'ente ex art. 19 del d.lgs. n. 231/2001, nonché al sequestro preventivo di cui all'art. 53 dello stesso decreto.

Infine, la riconduzione dei reati tributari entro il nuovo art. 25-quinquesdecies del d.lgs. n. 231/2001 obbliga le società che adottano un Modello organizzativo ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 a doverne aggiornare i contenuti, al fine di implementare efficaci sistemi di gestione del rischio fiscale ed evitare la relativa sanzione.

Va tuttavia ricordato che in data 4 ottobre 2019 il Parlamento italiano ha emanato la legge di delegazione europea, la quale detta, tra l'altro, i principi e i criteri direttivi per l'attuazione della Direttiva (UE) 2017/1371 (c.d. Direttiva PIF), concernente la lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale.

Quanto alla finalità, la Direttiva si preoccupa di fronteggiare le frodi e altri reati (quali corruzione, appropriazione indebita, riciclaggio o autoriciclaggio) lesivi degli interessi finanziari dell'Unione (art. 1 Direttiva PIF).

Quanto all'ambito di applicazione, l'art. 2 prevede che la Direttiva si applichi unicamente ai casi di reati gravi contro il sistema comune dell'IVA. L'articolo specifica ulteriormente che i reati in materia di IVA sono considerati gravi “qualora le azioni od omissioni di carattere intenzionale secondo la definizione di cui all'art. 3, paragrafo 2, lettera d), siano connesse al territorio di due o più Stati membri dell'Unione e comportino danno complessivo pari ad almeno 10.000.000 euro”.

L'art. 3 della Direttiva impone degli obblighi di criminalizzazione di determinate condotte agli Stati membri, i quali devono adottare “le misure necessarie affinché, se commessa intenzionalmente, la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione, costituisca reato”. Più nello specifico, il paragrafo 2, lett. c), del suddetto art. 3, delinea il concetto di frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione in materia di entrate diverse dall'IVA, prescrivendo la repressione penale delle seguenti condotte: i) di utilizzo o presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti, cui consegua la diminuzione illegittima delle risorse del bilancio dell'Unione o dei bilanci gestiti da quest'ultima o per suo conto; ii) mancata comunicazione di una informazione in violazione di un obbligo specifico; iii) distrazione di un beneficio lecitamente ottenuto. Al paragrafo 2, lett. d), relativo alle frodi in materia di IVA, la Direttiva richiede che vengano punite penalmente quelle stesse condotte di cui ai punti sub i) e ii) della precedente lett. c), nonché le condotte di “presentazione di dichiarazioni esatte relative all'IVA per dissimulare in maniera fraudolenta il mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborsi dell'IVA”.

A ben vedere, queste condotte risultano già punite nel nostro ordinamento: si pensi ai reati di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 10-ter del d.lgs. n. 74/2000, nonché le fattispecie codicistiche di Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all'art. 316-ter c.p.; Truffa ai danni dello Stato ex art. 640, comma 2, n. 1, c.p.; Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all'art. 640-bis c.p.; o ancora Falsità commessa da privato in atto pubblico ex art. 483 c.p.

Dunque, il diritto penale italiano risulta già in linea con gli standard di tutela penale previsti dall'Unione Europea. Ciò su cui, invero, è necessario che il legislatore italiano intervenga, riguarda l'introduzione di alcuni reati tributari nell'elenco dei reati che rappresentano il presupposto per la responsabilità degli enti. In particolare, l'art. 6 della Direttiva PIF, rubricato “responsabilità delle persone giuridiche”, impone agli Stati membri di adottare “le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili di uno dei reati di cui agli artt. 3, 4 e 5 commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica, e che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica”; ovvero, al paragrafo 2, di adottare “inoltre le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili qualora la mancata sorveglianza o il mancato controllo da parte di un soggetto tra quelli di cui al paragrafo 1 del presente articolo abbiano reso possibile la commissione, da parte di una persona sottoposta all'autorità di tale soggetto, di uno dei reati di cui all'art. 3, 4 o 5, a vantaggio di tale persona giuridica”.

Dalla lettura del combinato disposto degli art. 3, paragrafo 2, lett. c) e lett. d), e art. 6 della Direttiva PIF si desume che il legislatore italiano dovrebbe introdurre nel campo applicativo del d.lgs. n. 231/2001 i seguenti reati tributari: Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, ex art. 2 d.lgs. n. 74/2000; Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, ex art. 3 d.lgs. n. 74/2000; Dichiarazione infedele, ex art. 4 d.lgs. n. 74/2000; Omessa dichiarazione, ex art. 5 d.lgs. n. 74/2000; Omesso versamento IVA, ex art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000. Ai sensi dell'art. 9 della Direttiva PIF, gli enti nel cui interesse siano commessi i reati di cui sopra saranno chiamati a rispondere, non solo di sanzioni pecuniarie, ma anche di un ampio novero di sanzioni interdittive, le quali spaziano dall'esclusione dal godimento di un beneficio o di un aiuto pubblico a provvedimenti ben più gravosi come il commissariamento giudiziale, lo scioglimento dell'ente o la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato.

La portata della nuova norma, apparentemente dirompente, in realtà risulta circoscritta a fenomeni di rilevante entità. La Direttiva, infatti, in materia di IVA, impone la criminalizzazione delle condotte lesive degli interessi dell'Unione Europea, soltanto in presenza di due condizioni:

1) la condotta deve essere connessa al territorio di due o più Stati membri dell'Unione Europea;

2) la condotta deve cagionare un danno finanziario complessivo pari ad almeno 10.000.000 di euro.

In attuazione della Direttiva PIF, come detto, in data 4 ottobre 2019 è stata emanata la legge di delegazione europea n. 117/2019 (pubblicata in G.U. il 18 ottobre 2019, entrata in vigore il 2 novembre 2019), con la quale il Parlamento detta i principi ed i criteri direttivi affinché il Governo possa recepire i contenuti della Direttiva europea.

In particolare l'art. 3 della legge di delegazione rubricato Principi e criteri direttivi per l'attuazione della Direttiva UE 2017/1371, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell'Unione mediante il diritto penale, alla lett. e) demanda al Governo il compito di “integrare le disposizioni del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, recante disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, prevedendo espressamente la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche anche per i reati che ledono gli interessi finanziari dell'Unione Europea e che non sono già compresi nelle disposizioni del medesimo decreto legislativo”.

La legge di delegazione si limita a rimandare al contenuto della Direttiva PIF ed a delegare il Governo al recepimento della stessa, senza nulla aggiungere di specifico rispetto a quanto prescritto dal legislatore europeo.

Orbene, in assenza di una parallela riforma della disciplina delle sanzioni amministrative a carico delle persone giuridiche, l'estensione della responsabilità da reato degli enti ai delitti tributari di cui al d.lgs. n. 74/2000, è suscettibile di porsi in conflitto con il principio del “ne bis in idem sostanziale”.

Come detto, infatti, l'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 74/2000, in deroga al principio di specialità, afferma che “permane in ogni caso, la responsabilità per la sanzione amministrativa dei soggetti indicati nell'art. 11, comma 1, d.lgs. n. 472/1997, che non siano persone fisiche concorrenti nel reato”.

In forza di ciò, la commissione di un reato tributario comporterà l'irrogazione in capo all'ente sia delle sanzioni amministrative già previste dal d.lgs. n. 472/1997, sia le sanzioni di cui al d.lgs. n. 231/2001.

Atteso che già con la nota sentenza Grande Stevens c. Italia (Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 marzo 2014 - Ricorso n. 18640/10 - Grande Stevens e altri c. Italia) è stata riconosciuta natura sostanzialmente penale alle sanzioni amministrative tributarie, a primo acchito, la previsione di ulteriori sanzioni (anch'esse afflittive) a carico dello stesso ente e per gli stessi fatti, comporta una palese violazione del divieto di bis in idem. Tuttavia, occorre rapportare tale conclusione a quanto statuito dalla sentenza A & B c. Norvegia (Corte EDU (Grande Camera), sent. 15 novembre 2016, A&B c. Norvegia, ric. n. 24130/11 e 29758/11; per un commento alla sentenza cfr. F. VIGANÒ, La Grande Camera della Corte di Strasburgo su ne bis in idem e doppio binario sanzionatorio, in dirittopenalecontemporaneo del 18 novembre 2016), con cui la Grande Chambre ha sancito che non vi è violazione del principio del ne bis in idem se i due procedimenti sono connessi dal punto di vista sostanziale e cronologico (criterio della sufficiently close connection in substance and time). In base a tale pronuncia, ciò che elimina la violazione del principio del ne bis in idem è la consapevolezza in capo al “contribuente” che i due procedimenti siano legati da una connessione sufficientemente stretta in senso cronologico e nella sostanza. Se tale condizione si verifica, il soggetto non potrà lamentare la violazione del suddetto principio, in quanto sarà come se subisse un unico procedimento seppur materialmente sdoppiato. Per usare le parole della Corte, è necessario verificare se la strategia adottata da ogni singolo Stato appaia il “prodotto di un sistema integrato che permetta di affrontare i diversi aspetti dell'illecito in maniera prevedibile e proporzionata nel quadro di una strategia unitaria”.

Alla luce di quanto appena esposto, il legislatore delegato, nell'attuare la Direttiva PIF come recepita dalla legge di delegazione, dovrà prevedere un meccanismo di coordinamento tra le sanzioni pecuniarie di cui al d.lgs. n. 472/1997 e le sanzioni di cui al d.lgs. n. 231/2001, in modo tale che l'entità della sanzione complessivamente irrogata sia proporzionata alla violazione commessa: solo così la nuova norma non sarà in contrasto con il principio del ne bis in idem.

Sarà quindi necessario coordinare l'attuale sistema sanzionatorio amministrativo tributario con la responsabilità amministrativa degli enti. In ciò il legislatore dovrà fare buon governo di quei principi, recentemente ribaditi con chiarezza dalla Corte costituzionale (Corte cost., 24 ottobre 2019, n. 222), secondo i quali non vi è bis in idem laddove “le due sanzioni perseguano scopi diversi e complementari, connessi ad aspetti diversi della medesima condotta; quando la duplicazione dei procedimenti sia prevedibile per l'interessato; quando esista una coordinazione, specie sul piano probatorio, tra i due procedimenti; e quando il risultato sanzionatorio complessivo, risultante dal cumulo della sanzione amministrativa e della pena, non risulti eccessivamente afflittivo per l'interessato, in rapporto alla gravità dell'illecito”.

Nell'evoluzione così delineata, andrebbe in ogni caso effettuato un opportuno coordinamento con il sistema sanzionatorio extrapenale delineato dal d.lgs. n. 472/1997 e 19, comma 2, del d.lgs. n. 74/2000, al fine di evitare un surplus sanzionatorio che si caricherebbe di connotati vessatori (sanzione penale per la persona fisica + sanzione tributaria per la persona giuridica + sanzione amministrativa da reato per la persona giuridica + confische) e nuocerebbe, pertanto, all'esigenza di promuovere un apparato di tutela che appaia legittimo e giusto.

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