Liquidazione del danno biologico per contagio da virus HCV e successiva morte del paziente

Redazione Scientifica
21 Novembre 2019

Nel caso in cui debba esser liquidato il danno biologico derivato dalla contrazione del virus HCV per un fatto colposo da addebitare alla struttura sanitaria, alla cui produzione abbia concorso anche la pubblica amministrazione, per aver trascurato la dovuta diligenza, «la sopravvenuta morte del soggetto in conseguenza della evoluzione o della ripresa della patologia epatica non determina un “nuovo” danno alla salute autonomo e diverso che si aggiunge al danno biologico da invalidità temporanea e permanente, in precedenza già accertato e liquidato, atteso che l'exitus deve essere considerato come prevedibile estremo rischio di aggravamento della possibile evoluzione della patologia contratta con l'infezione HCV».

La vicenda. La Corte d'Appello accoglieva parzialmente l'appello proposto dal Ministero della Salute avverso la pronuncia di primo grado con cui era stato condannato a risarcire i danni patiti da moglie e figli per la morte del loro rispettivo marito e padre, conseguita all'evoluzione di epatite cronica HCV, contratta a seguito di emotrasfusione di sangue. Ad essere risarciti dovevano essere i danni “iure successionis” e i danni “iure proprio”. Per il Giudice d'appello, era però fondata l'eccezione del Ministero di prescrizione del diritto relativo ai danni “iure successionis”, poiché la condotta che ha causato il danno alla salute rientrava nella fattispecie normativa del reato di lesioni colpose, soggetto a prescrizione quinquennale, e il relativo diritto al risarcimento si era ormai estinto da tempo, posto che la conoscenza della patologia e della sua causale correlazione all'emotrasfusione di sangue, risaliva al precedente ricovero avvenuto nel 1979, emergendo dalla cartella clinica che il paziente risultava affetto da «epatite viale di tipo trasfusionale due anni fa». Ha invece rigettato i motivi del gravame incidentale volti ad ottenere il risarcimento del danno patrimoniale emergente, del danno patrimoniale da lucro cessante e del danno non patrimoniale (danno terminale e danno catastrofale). Tale decisione viene impugnata dai danneggiati dinanzi alla Corte di Cassazione.
Sul punto i Giudici di legittimità, prendendo in esame la richiesta di risarcimento dei danni subiti dalla moglie e dai figli superstiti dell'uomo, affermano innanzitutto che le nozioni di danno terminale e di danno catastrofale hanno un carattere meramente descrittivo, senza assumere rilevanza giuridica, poiché non identificano alcuna entità ontologica distinta dal danno biologico e dal danno morale. Infatti, le predette nozioni rappresentano solo una diversa dimensione del danno, biologico e morale, della quale il giudice deve tener conto nell'esercizio del proprio potere di liquidazione equitativa.

La nozione di danno catastrofale e danno terminale. Il danno catastrofale è una diversa dimensione del danno morale di estrema intensità, «in quanto riflette il senso di disperazione vissuto dal soggetto in attesa consapevole della morte, evento avvertito come ineluttibile: presupposti indefettibili per il riconoscimento di tale voce di danno sono 1 – lo stato di coscienza e la comprensione, da parte della vittima, della propria irrimediabile condizione clinica e 2 – la non immediatezza del decesso seguito alle lesioni, dovendo la vittima permanere in vita per un intervallo di tempo anche minimo, ma oggettivamente apprezzabile».
Il danno terminale è una diversa dimensione del danno biologico temporaneo che consiste «nella incapacità del soggetto di attendere alle comuni attività quotidiane ed allo svolgimento delle relazioni sociali per un tempo limitato, in quanto destinato a cessare, in considerazione della natura letale della lesione, con l'exitus, ossia con la definitiva estinzione della persona fisica». L'incapacità biologica temporanea perdura in relazione alla durata della malattia e cessa con la guarigione o con «l'adattamento dell'organismo alle mutate e degradate condizioni di salute, o ancora con la morte».
Nei casi in cui vi siano le cosiddette patologie ingravescenti, che, a seguito della lesione, comportano uno stato di invalidità del soggetto «che trova espressione nei gradi percentuali definiti per ciascuna patologia dei “baremès” elaborati dalla comunità scientifica ed utilizzati in medicina legale, non viene in questione un danno terminale (danno biologico da inabilità temporanea), ma un danno biologico da invalidità permanente», proprio perché i “baremes” considerano nella scala dei gradi di invalidità il maggior rischio di subire una ripresa e sviluppo del fattore patogeno, che potrebbe condurre al decesso.
Queste ipotesi costituiscono il cosiddetto “aggravamento”, che non è nient'altro che la mera concretizzazione di un rischio connesso alla patologia, la cui possibilità di accadimento era già stata presa in considerazione. Diversa, invece, è l'ipotesi in cui l'ulteriore evento dannoso, manifestatosi a distanza di tempo, fosse stato del tutto imprevedibile e sconosciuto alla scienza medica, ossia non considerato dai “baremes”.

La decisione. Venendo al caso in esame, nel caso in cui debba esser liquidato il danno biologico derivato dalla contrazione del virus HCV per un fatto colposo da addebitare alla struttura sanitaria, alla cui produzione abbia concorso anche la pubblica amministrazione, per aver trascurato la dovuta diligenza, «la sopravvenuta morte del soggetto in conseguenza della evoluzione o della ripresa della patologia epatica non determina un “nuovo” danno alla salute autonomo e diverso che si aggiunge al danno biologico da invalidità temporanea e permanente, in precedenza già accertato e liquidato, atteso che l'exitus deve essere considerato come prevedibile estremo rischio di aggravamento della possibile evoluzione della patologia contratta con l'infezione HCV».
Per quanto riguarda, dunque, il risarcimento del danno derivante da tale situazione, trattandosi di una responsabilità extracontrattuale quella del Ministero della Salute, ne consegue che il diritto al risarcimento del danno da parte di chi sostiene di aver contratto le suddette patologie per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto a termine di prescrizione quinquennale che decorre dal giorno in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno conseguente al comportamento del terzo. Infatti, nella fattispecie esaminata, al paziente era già stato da tempo reso noto la etiopatogenesi della malattia. Ne consegue il rigetto del ricorso.

(FONTE: dirittoegiustizia.it)

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