Decesso del paziente sottoposto a dieta dimagrante. Indagine sul nesso di causalità

Vittorio Nizza
22 Novembre 2019

Ai fini dell'accertamento della causalità penalmente rilevante, la corroborazione dell'ipotesi deve fondarsi sull'affabilità delle informazioni scientifiche utilizzate; sull'evidenza probatoria, disponibile e coerente con l'ipotesi stessa; nonché, infine, sulla capacità di resistenza di questa rispetto alle contro – ipotesi.
Massima

Ai fini dell'accertamento della causalità penalmente rilevante, la corroborazione dell'ipotesi deve fondarsi sull'affabilità delle informazioni scientifiche utilizzate; sull'evidenza probatoria, disponibile e coerente con l'ipotesi stessa; nonché, infine, sulla capacità di resistenza di questa rispetto alle contro – ipotesi.

Non va esente da colpa il medico che, nel somministrare al paziente un farmaco potenzialmente pericoloso (nella specie, fendimetrazina, per la cura dell'obesità), ometta un'attenta valutazione e comparazione degli effetti positivi del farmaco rispetto ai possibili effetti negativi gravi e ometta il costante controllo, nel corso della cura, delle condizioni del paziente.

Il caso

Un medico endocrinologo e diabetologo veniva imputato per il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p. a seguito del decesso di una sua paziente sottoposta a dieta dimagrante in quanto affetta da obesità alla quale aveva prescritto la somministrazione del farmaco fendimetrazina. Dall'esame autoptico era emerso che l'utilizzo di tale farmaco, unitamente ad altri farmaci ad effetto lassativo e diuretico – sempre prescritti dall'imputato – in un soggetto già in stato psico – fisico debilitato per la perdita di 40 kg di peso negli ultimi sei mesi, aveva determinato un'azione aritmogena ed uno squilibrio idroelettrico che ne avevano cagionato la morte.

Secondo la ricostruzione accusatoria il medico aveva prescritto il farmaco fendimetrazina sebbene la prescrizione e la somministrazione dello stesso fosse stata in più casi vietata dal ministero della salute e comunque per un periodo di tempo superiore ai 3 mesi come da indicazione ministeriale. Inoltre avrebbe omesso, nel periodo in cui ebbe in cura la paziente, di acquisire le informazioni anamnestiche e di disporre gli accertamenti clinici strumentali necessari per valutare l'opportunità di prescrivere detti farmaci in una paziente già debilitata, come detto.

Il medico, condannato in primo e secondo grado, proponeva ricorso avverso la sentenza di appello evidenziando nei motivi fondamentalmente l'assenza del nesso di causa e dell'elemento soggettivo della colpa. In merito al profilo del nesso eziologico si sottolinea nel ricorso come la sentenza di secondo grado non avrebbe tenuto conto delle reali condizioni cliniche della paziente, la quale non avrebbe potuto essere sottoposta alle terapie tradizionali per la cura dell'obesità. Tra l'altro le sue stesse condizioni di salute generale legale all'obesità ne riducevano le aspettative di vita, specie con riferimento alla mortalità cardiovascolare. Inoltre, si evidenzia, il farmaco fendimetrazina non sarebbe stato ritirato, bensì ne sarebbe stata solamente vietata la dispensazione. Inoltre, quello in oggetto costituirebbe il primo caso di morte da fendimetrazina, per cui in assenza di leggi universali o statistiche che leghino la morte all'uso del suddetto farmaco il giudice sarebbe ricorso, nella valutazione della sussistenza del nesso di causa, al criterio della mera possibilità scientifica utilizzando, invertendo il meccanismo introdotto dalla sentenza Franzese, il criterio dell'esclusione di altre cause alternative per implementare il livello di accertamento.

L'assenza di precedenti decessi per uso di fendimetrazina, sostiene ancora la difesa, escludeva che il medico potesse prevedere tali conseguenze. Inoltre, l'imputato si sarebbe erroneamente affidato ad alcune ordinanze del TAR Lazio rispetto alla possibilità di utilizzo del farmaco in oggetto. Infine, secondo la tesi difensiva non vi sarebbero riscontri probatori rispetto alla circostanza ritenuta dai giudici secondo i quali il medico non avrebbe effettuato i necessari accertamenti rispetto alle condizioni di salute della paziente.

La questione

La Corte nella sua motivazione si incentra sulla problematica della valutazione della sussistenza del nesso di causa, tenuto conto della peculiarità del caso concreto e dell'assenza di precedenti rispetto alle conseguenze lesive del farmaco prescritto dall'imputato, e dell'elemento soggettivo in ambito medico.

Le soluzioni giuridiche

La Corte nella sentenza in esame sottopone al proprio vaglio le motivazioni espresse dalla Corte d'Appello in merito alla sussistenza del nesso causale e dell'elemento soggettivo della colpa.

Sotto il primo profilo, evidenzia come sia del tutto irrilevante la circostanza dell'assenza di una casistica significativa di decessi attribuiti all'assunzione di fendimetrazina. L'assenza di tale casistica non significa di per sé che tale farmaco non sia potenzialmente letale e non abbia, nel caso concreto, determinato la morte del paziente. La perizia, infatti, aveva chiarito che l'assunzione della fendimetrazina era stata determinante nella causazione della morte e che gli effetti nocivi ne erano stati ampliati dalla contemporanea assunzione di farmaci lassativi e diuretici, considerata la condizione fisica della paziente. Inoltre, gli stessi periti avevano escluso le altre possibili cause di morte, ipotizzate dai consulenti delle parti. Evidenzia ancora la Corte come la pericolosità del farmaco in questione era attestata da copiosa letteratura, tanto che il ministero della salute ne aveva prima limitato e poi vietato l'utilizzo.

In tal senso, quindi, può ritenersi riscontrata l'esistenza del nesso di condizionamento attraverso il c.d. “giudizio controfattuale” così come individuato dalla giurisprudenza a partire dalla pronuncia delle Sezioni Unite Franzese del 2002.

Secondo i periti, la paziente, con un elevato grado di probabilità logico-razionale, non sarebbe deceduta se non avesse assunto le sostanze prescritte dall'imputato, in quella misura e in quelle dosi, in assenza di ogni possibile causa alternativa. L'evento pertanto avrebbe potuto essere evitato. Se l'imputato avesse agito con la diligenza richiesta dalla sua posizione: ossia non avesse somministrato il trattamento terapeutico vietato o ne avesse rispettato la durata massima dei tre mesi prevista dal decreto ministeriale previgente al divieto ed avesse prescritto gli adeguati accertamenti clinici prima e durante il trattamento. Infatti, i decreti ministeriali succedutisi nel tempo che hanno prima limitato poi vietato l'utilizzo del farmaco in ragione della pericolosità di tale sostanza avrebbero dovuto ingenerare nel medico, portatore di una posizione di garanzia nei confronti del paziente che a lui si affida, una adeguata gestione del rischio che nel caso di specie non vi è stata.

Ritiene pertanto la Corte che risulti sussistente il nesso causale tra la condotta posta in essere dall'imputato e il decesso della paziente con un elevato grado di probabilità logica sulla base del modello causale elaborato dalla giurisprudenza. Il grado di probabilità – che deve essere una probabilità “logica” e non meramente statistica - infatti, è dato non dal mero riferimento a leggi scientifiche o di copertura, ma dalla corroborazione dell'ipotesi sulla base delle concrete acquisizioni probatorie del caso. Conclude la Corte sul punto come nel caso di specie, quindi, sia stato svolto correttamente dai giudici di merito il giudizio controfattuale che ha portato a sostenere con un elevato grado di probabilità logica la sussistenza del nesso eziologico utilizzando in maniera appropriata le informazioni scientifiche offerte dai periti e analizzando con chiarezza le relative emergenze processuali.

Con riferimento al secondo profilo, quello della colpevolezza, si evidenzia come le contestazioni facciano riferimento a profili di colpa generica e di colpa specifica, per violazione di disposizioni normative. In particolare, come detto, il medico non avrebbe rispettato le indicazioni del ministero della salute dei limiti temporali e poi del divieto di somministrazione della fendimetrazina dettati proprio dalla pericolosità di tale sostanza. Inoltre il medico non prescrisse, nè all'inizio né durante la terapia, gli esami necessari a verificare l'eventuale esistenza di fattori sconsiglianti il piano terapeutico somministrato.

La Cassazione condivide il ragionamento svolto dai giudici di merito secondo i quali il decesso della paziente era imputabile al medico in quanto da lui non solo evitabile, ma altresì prevedibile in ragione della nota pericolosità del farmaco – come da decreti ministeriali – e dalla presenza nella paziente di fattori di rischio, sebbene dallo stesso non adeguatamente monitorati attraverso la prescrizione dei necessari esami.

L'evento, dunque, ha costituito la concretizzazione del rischio che la cautela era chiamata a governare. Da un punto di vista soggettivo, precisa la Corte, “per la configurabilità del rimprovero è sufficiente che tale connessione tra la violazione delle prescrizioni recate dalle norme cautelari e l'evento sia percepibile, riconoscibile dal soggetto chiamato a governare la situazione rischiosa”. La prevedibilità, secondo la costante giurisprudenza, non deve necessariamente riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più dettagliate articolazioni, ma la classe di eventi in cui quello oggetto del processo si colloca.

Alla luce di tali considerazioni, quindi, la suprema Corte ha rigettato il ricorso presentato dall'imputato confermando la condanna già pronunciata nei due gradi di merito.

Osservazioni

somministrazione di un farmaco, la fendimetrazina, nel corso di una dieta dimagrante a cui l'imputato, medico endocrinologo e diabetologo, aveva sottoposto la paziente. Tale farmaco, unitamente alle condizioni psico-fisiche già debilitate della paziente che aveva perso 40 kili di peso in sei mesi e agli altri farmaci prescritti ad effetto lassativo e diuretico, ne avevano determinato il decesso per un arresto cardiaco.

La valutazione della Corte si incentra sulla verifica della sussistenza del nesso causale e dell'elemento soggettivo della colpa in capo al medico. Al sanitario infatti venivano contestai un profilo di colpa generica, per non aver sottoposto la paziente ai dovuti accertamenti né all'inizio della prescrizione della dieta né durante il suo svolgimento, in tal modo non avendo contezza dei fattori di rischio propri della paziente, e di colpa specifica per non aver rispettato le indicazioni ministeriali che avevano evidenziato la pericolosità di tale farmaco prima prescrivendone un utilizzo limitato ad un periodo massimo di tre mesi e poi vietandone la prescrizione e la somministrazione.

La difesa dell'imputato aveva evidenziato come fosse il primo caso verificatosi di decesso conseguente alla assunzione di fendimetrazina e che non vi erano precedenti nella letteratura clinica a riguardo. Secondo la ricostruzione della difesa, quindi, sarebbe stato impossibile individuare una legge universale o una legge statistica che dimostrino una relazione di causa – effetto tra la condotta dell'imputato e l'evento morte. In tal senso non sarebbe stato raggiunto quel grado di probabilità necessario per l'accertamento del nesso eziologico richiesto dalla giurisprudenza. Anzi, secondo la difesa in assenza di leggi scientifiche di riferimento, i periti avrebbero implementato il livello di accertamento attraverso il meccanismo di esclusione di altre causa, così applicando impropriamente il meccanismo condizionalistico introdotto dalle Sezioni Unite nella sentenza Franzese.

La Corte sul punto ripercorre i principi già consolidati in giurisprudenza a partire dalla citata sentenza del 2002. Viene infatti sottolineato nella sentenza come per l'accertamento del nesso eziologico sia richiesto il raggiungimento di un “alto grado di probabilità logica” o di “elevata credibilità razionale”. La “probabilità logica” non coincide con la mera probabilità statistica propria delle leggi scientifiche. La probabilità logica richiede che la legge scientifica o statistica sia riscontrata e valutata sula base delle emergenze del caso concreto. il modello dell'indagine causale proposto dalle Sezioni Unite e fatto proprio dalla sentenza in commento prevede “l'abduzione e l'induzione, cioè l'ipotesi (l'abduzione) circa la spiegazione degli accadimenti e la concreta, copiosa caratterizzazione del fatto storico (l'induzione). Induzione e abduzione s'intrecciano dialetticamente: l'induzione (il fatto) costituisce il banco di prova critica rispetto all'ipotesi esplicativa”. Occorre effettuare una valutazione relativa al grado di conferma che l'ipotesi astratta abbia ricevuto sulla base delle prove, del fatto concreto: se tale grado è “sufficiente” l'ipotesi è attendibile e può essere assunta come base per la decisione. Il grado della “sufficienza” è stato identificato nell' “elevata probabilità logica” che, come detto, non coincide con una percentuale statistica, ma rappresenta la corroborazione dell'ipotesi sulla base delle concrete acquisizioni probatorie disponibili. Occorre, quindi, una volta identificata una legge scientifica di copertura che consenta di collegare un fatto ed un determinato evento, non fermarsi alla mera probabilità statistico – matematica di verificazione dell'evento data dalla legge, ma riportarla nel caso concreto rispetto a tutte le emergenze probatorie. “Si tratta di un giudizio che scaturisce da un impegnativo modello di indagine fondato su un rigoroso atteggiamento critico e su un serrato confronto tra l'ipotesi e i fatti: la conseguenza di un'ipotesi ricostruttiva non dipende dalla coerenza formale, né dalla corretta applicazione di schemi inferenziali di tipo meramente deduttivo, bensì dal confronto con i fatti espressi da una situazione data, che possono confermarla o falsificarla. Conclusivamente, la corroborazione dell'ipotesi è fondata sull'affidabilità delle informazioni scientifiche utilizzate; sull'evidenza probatoria, disponibile e coerente con l'ipotesi stessa; nonché infine, sulla capacità di resistenza di questa rispetto alle contro – ipotesi.”

Nel caso di specie, la Corte aveva sottolineato come fosse irrilevante la circostanza dell'assenza di precedenti decessi legati all'assunzione di fendimetrazina e di letteratura scientifica sul punto. La mancanza di casistica, infatti, di per sé non significa che tale sostanza non sia da considerarsi pericolosa o che nel caso concreto non abbia causato l'aritmia che ha portato al decesso della donna. La pericolosità di tale sostanza, infatti, era attestata da copiosa letteratura tanto che vi sono stati numerosi interventi ministeriali che ne avevano prima limitato e poi precluso l'uso. Inoltre la somministrazione di tale farmaco non era stata accompagnata da un'adeguata analisi della paziente attraverso i dovuti esami sia prima di intraprendere tale dieta sia nel corso della stessa. Proprio in ragione di tale pericolosità e della sua posizione di garanzia, il medico avrebbe dovuto gestire diversamente il rischio.

Infine, i periti avevano individuato al causa proprio dell'assunzione della fendimetrazina, unitamente ad altri farmaci lassativi e diuretici, la causa dell'aritmia rivelatasi letale, escludendo qualsiasi altra causa di morte ipotizzata dai consulenti di parte. Pertanto risultava raggiunta la prova della sussistenza del nesso di causa tra la condotta del medico – la prescrizione dei suddetti farmaci – e la morte della paziente con un elevato grado di probabilità logica sulla base del giudizio controfattuale. Grado di probabilità che era dato non solo dall'applicabilità della norma di copertura al caso concreto, ma dalla specificità del fatto storico così come accertato. Se l'imputato avesse agito con la dovuta diligenza, ossia non avesse prescritto la fendimetrazina, o l'avesse rispettato la durata massima di somministrazione di tre mesi prevista dal ministero e, prima ancora, avesse effettuato i dovuti esami per accertarsi delle reali condizioni della paziente, il decesso non si sarebbe verificato.

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