Il sì della Consulta in tema di suicidio assistito: riflessioni e condizioni

Roberto Masoni
17 Dicembre 2019

È costituzionalmente illegittimo l'art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della l. 22 dicembre 2019, n. 219 agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Massima

È costituzionalmente illegittimo l'art. 580 c.p., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 l. 22 dicembre 2019, n. 217 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) - ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione -, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Il caso

La Corte d'Assise di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 580 c.p., laddove prevede il delitto di istigazione o aiuto al suicidio, sotto plurimi profili: violazione degli artt. 2 e 13 Cost, che, sancendo il principio personalistico e quello dell'inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero alla persona la facoltà di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria vita, scegliendo quando e come essa debba avere luogo; e poi sotto il versante della violazione dell'art. 117 Cost., laddove garantisce all'individuo di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà.

Con una prima ordinanza interlocutoria (n. 207 del 2018), la Corte Costituzionale ha evidenziato che, entro determinati limiti, la norma impugnata sarebbe stata dichiarata costituzionalmente illegittima, sempre che il Parlamento nelle more non avesse provveduto ad approvare una nuova disciplina legislativo della materia. Il processo costituzionale è stato quindi rinviato in modo interlocutorio all'udienza del 24 settembre 2019. All'esito della quale la Corte, constatato che nessun intervento normativo da parte del Parlamento era nelle more intervenuto, dato che l'esame delle proposte di legge “si era arrestato alla fase della trattazione in commissione, senza pervenire “neppure all'adozione di un testo unificato”, ha dichiarato incostituzionale l'art. 580 c.p. in parte qua, e non solo.

Nella pronunzia interlocutoria (cui la sentenza in oggetto si “salda” “in consecuzione logica”), la Corte, se ha conservato l'incriminazione dell'aiuto al suicidio (a tutela delle persone vulnerabili e più deboli, “che l'ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”), ha però individuato un'area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa, in presenza di quattro condizioni soggettive riscontrabili in capo al paziente:

1) affetto da patologia irreversibile: 2) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, per sé assolutamente insopportabili; 3) tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitali; 4) e, tuttavia, capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Se già oggi l'ordinamento permette al paziente di porre termine alla sua vita rifiutando le cure e i trattamenti sanitari (tramite la disciplina dettata dalla l. n. 219 del 2017), non consente però al medico di aiutare il paziente a porre termine alla sua esistenza in modo più veloce, laddove il malato ritenga tale ultima scelta maggiormente dignitosa per la propria esistenza. Con la conseguenza che, come ha evidenziato la pronunzia, ciò determina un vulnus della capacità di autodeterminazione del paziente nella scelta delle terapie, “imponendogli un'unica modalità per congedarsi dalla vita”.

Con la pronuncia in rassegna, la Corte ha confermato il quadro di insegnamenti testè esposti, dando atto che, nelle more del rinvio d'udienza, il Parlamento non era intervenuto a disciplinare la materia, mentre si era pronunziato il C.N.B. con un parere in data 18 luglio 2019. La sentenza ha dichiarato perciò, come già annunziato, l'incostituzionalità dell'art. 580 c.p. nei termini di massima.

Onde evitare “vuoti di tutela per i valori protetti”, la Corte ha evidenziato che già esiste “nel presente sistema (normativo) un preciso punto di riferimento, utilizzabile ai fini considerati”, che è rappresentato dagli artt. 1 e 2 l. n. 219/2017.

In particolare, ha continuato la Corte, la disciplina dettata dall'art. 1, comma 5, della l. cit., in tema di rifiuto delle terapie, “prefigura una procedura medicalizzata estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo”, ovvero alle ipotesi di aiuto al suicidio.

Per disciplinare l'aiuto al suicidio la Corte mutua la previsione in discorso, laddove essa richiede: la piena capacità di agire del paziente; la forma di tale manifestazione di volontà (secondo quanto prevede il comma quattro della norma per il consenso informato), che va acquisita «nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e documentata in forma scritta e attraverso videoregistrazione o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare», sempre ferma restando la possibilità per il paziente di modificare tale volontà.

Viene ancora richiamato il comma 5 dell'art. 1 laddove lo stesso garantisce l'informazione medica per il consenso, con previsione che il medico prospetti al paziente le «conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno al paziente, anche avvalendosi dei servizi di sostegno psicologico». Viene pure richiamato l'art. 2 della medesima legge, laddove lo stesso ammette la comminazione di cure palliative e della terapia del dolore a beneficio del paziente terminale che ne faccia richiesta.

Se la Corte ammette così la legittimità del suicidio assistito, tuttavia la verifica di queste condizioni è affidato al Servizio Sanitario nazionale, onde evitare “abusi in danno di persone vulnerabili”, previo parere del comitato etico territoriale.

Conclude la Corte evidenziando che la concreta attuazione del suicidio assistito richiesto da parte di paziente capace di autodeterminarsi è affidato alla libera coscienza del medico, che può “scegliere se prestarsi o no, a esaudire la richiesta del malato”.

La questione

Molteplici sono le questioni che la pronunzia della Corte suscita, con riguardo in particolare alla disciplina giuridica applicabile all'ipotesi dell'aiuto al suicidio, in assenza di intervento legislativo di sorta, come pure alla sua esatta perimetrazione ed individuazione

Le soluzioni giuridiche

Onde disciplinare tale situazione nuova, il dato normativo di riferimento, come precisa la sentenza auto-applicativa della Corte, viene rinvenuto in taluni passi della legge del 2017, dettata in tema di consenso informato e d.a.t.

Osservazioni

Una prima osservazione merita di essere compiuta per comprendere appieno la portata storica di questa pronunzia (unitamente alla precedente ordinanza interlocutoria n. 207/2018, con cui forma un tutt'uno sistematico e conchiuso), rivoluzionaria come lo fu la pronunzia Englaro del 2007.

In materia di trattamenti sanitari e di fine vita, oggetto di recentissimo intervento normativo, frutto maturo di un'elaborazione scientifico-interpretativa quasi ventennale (l. n. 219/2017), si è assistito, per effetto della pronunzia auto-applicativa in rassegna, ad una significativa innovazione; in particolare, alla creazione di un nuovo istituto inerente la “relazione medico-paziente”, in grado di modificare significativamente la figure ed il ruolo istituzionale tradizionale esplicato dal medico, contestualmente conferendo una nuova facoltà al paziente, infine assegnando innovative funzioni al servizio sanitario nazionale ed ai comitati etici territoriali.

La pronunzia, non solo ridisegna ruoli e funzioni di questi “attori della sanità”, ma pure incide significativamente sulla responsabilità penale del sanitario (medico o infermiere che sia) il quale, laddove si presti a fornire aiuto al suicidio, non commette alcun reato, sempre che ricorrano in capo al paziente le quattro condizioni soggettive indicate dalla Corte.

Merito della coraggiosa pronunzia della Corte è quello di avere conferito al paziente terminale un'importantissima facoltà, esercitabile a seconda della personale sensibilità dello stesso, nell'individuazione della sua soggettiva dignità nella terminalità; un'innovativa facoltà che si aggiunge e si salda con i diritti che l'ordinamento già oggi gli riconosce: ovvero, il diritto di rifiutare le cure (art. 1, comma 5, l. 219/2017), di richiedere l'applicazione della terapia analgesica, di fruire della medicina palliativa e della sedazione palliativa profonda (art. 2), di redigere il proprio testamento biologico (art. 4) e di pianificare le cure (art. 5).

Ebbene, con la pronunzia in rassegna viene riconosciuta al paziente terminale la facoltà di richiedere al S.S.N. di godere di aiuto al suicidio, quando la sofferenza diventa intollerabile ed il malato, per la patologia irreversibile e terminale che l'affligge, non sia in grado di provvedere in modo autonomo.

Qui, come altrove (vengono richiamati gli interventi additivi compiuti dalla medesima Corte in tema di procreazione medicalmente assistita e di interruzione volontaria di gravidanza), la stessa, per evidenti motivi di garanzia (“onde evitare abusi in danno di persone vulnerabili”, quali, evidentemente, sono, in primis, i malati terminali, come si precisa), ha rimesso la verifica delle quattro condizioni soggettive in capo al paziente che rendono legittimo l'aiuto al suicidio alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, come pure le concrete “modalità di esecuzione” (dello stesso), previo parere del comitato etico. Il suicidio assistito è così attuabile, pertanto, in un ambiente neutro, scevro da tentazioni patrimonialistiche di sorta.

Come si vede, un nuovo gravoso compito viene conferito alla sanità pubblica e ai comitati etici territoriali, i quali ultimi sono tenuti a fornire un parere, meramente consultivo, sulla legittimità del suicido medicalizzato richiesto dal paziente.

Parrebbe quindi che, tanto per la verifica delle quattro condizioni soggettive legittimanti il paziente a richiedere il suicidio assistito, quanto per la concreta esecuzione del suicidio tramite intervento del sanitario, unico luogo idoneo e legittimo siano le strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, con susseguente esclusione del ricorso alle cliniche private e (forse) a quelle con esso convenzionate.

La pronunzia della Corte ridisegna ruolo e funzione del medico.

Non più solo di terapia e cura del malato, ma anche volto a lenire le sofferenze del paziente, fino a fornirgli ausilio per una morte pietosa e dignitosa.

Quale effetto del giudicato costituzionale consegue che dovrebbe essere adeguato il codice deontologico dei medici, non più in linea con la pronunzia costituzionale, nella parte in cui lo stesso vieta al medico di “favorire atti finalizzati a promuovere la morte” (art. 17).

Opportunamente si è precisato che il medico, non penalmente responsabile in ipotesi di aiuto al suicidio ex art. 580 c.p., non ha alcun obbligo di ottemperare alla richiesta del paziente di collaborare al suicidio, tale attività è stata rimessa alla libera “coscienza del singolo medico”.

La scelta di legalizzare l'aiuto al suicidio, qualificandolo alla stregua di una modalità di esplicazione del diritto all'autodeterminazione terapeutica riconosciuto al paziente terminale ex art. 32 Cost. (ed ex art. 1 l. n. 219/2017), ha condotto la Corte all'assimilazione di tale pratica al rifiuto delle cure ed alla revoca del consenso in precedenza prestato ex art. 1, comma 5, l. n. 219, con richiamo alla connessa disciplina normativa. In tal modo, non solo è stata eliminata dall'ordinamento la norma penale che sanziona l'aiuto al suicidio per la parte ritenuta incostituzionale, ma pure è stata dettata, in sede ricostruttiva, la “procedura medicalizzata” di governo, che il Parlamento, chiamato ad una doverosa opera di collaborazione istituzionale, non è stato in grado di dettare. La Corte si è preoccupata di evitare che una materia così sensibile e delicata rimanesse priva di regolamentazione positiva.

A scanso di equivoci va precisato che, con la pronunzia, la Corte non ha legittimato l'eutanasia che, come ha autorevolmente precisato il C.N.B. nel richiamato parere del 18 luglio 2019, si differenzia dal suicidio assistito.

L'eutanasia è l'atto con cui il medico somministra farmaci su richiesta del paziente con lo scopo di provocarne la morte immediata; invece, nel suicidio assistito, è «l'interessato che compie l'ultimo atto che provoca la morte, atto reso possibile grazie alla determinante collaborazione del terzo, il quale prescrive e porge il prodotto letale».

Detto ciò, l'assimilazione tra suicidio assistito e rifiuto/revoca del consenso alle cure pare meno azzardata di quanto, di primo acchito, sia ipotizzabile.

Si consideri che, in quest'ultima ipotesi, il medico, a fronte della richiesta del paziente di distacco dai presidi vitali, è tenuto a porre in essere una condotta attiva, staccando il macchinario salvavita; mentre in caso di suicidio assistito, egli può legittimamente preparare la pozione esiziale, andando esente da responsabilità di sorta. Tale pozione sarà poi assunta dal paziente (eventualmente tramite ausilio di un macchinario, laddove egli non sia in grado di auto-somministrarla).

Se quindi l'aiuto al suicidio costituisce un “corollario” del (diritto al) rifiuto delle terapie o della revoca del consenso al trattamento sanitario, secondo il meccanismo di assimilazione compiuto dalla Corte, consegue che la posizione soggettiva del paziente terminale sembra qualificabile alla stregua di un diritto soggettivo pieno a conseguire dal SSNN quella determinata condotta attiva o prestazione: costituito, appunto, dall'aiuto medicalizzato al suicido mediante preparazione del prodotto esiziale.

Laddove tale posizione soggettiva sia conculcata o risulti inattuata, con mera consecutio logica, la stessa potrebbe plausibilmente essere giustiziata tramite ricorso ex art. 700 c.p.c.

Se così è, v'è da chiedersi, infine, se tale facoltà possa essere veicolata all'interno delle d.a.t., ovvero l'atto col quale il disponente può “esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari” (art. 4). Con tale scrittura la legge ammette che il paziente possa esprimere dissenso alle terapie ex art. 1 comma 5. Tale volontà manifestata ex ante diviene efficace quando subentri nel paziente una condizione di incapacità di autodeterminazione.

In conclusione, la rivoluzionaria pronunzia in rassegna consegna al paziente terminale un'ulteriore, assai significativa facoltà, quella di pretendere dal SSNN l'attuazione del suicidio medicalizzato; una facoltà che ci rende tutti “liberi fino alla fine” della vita.

Guida all'approfondimento

AA.VV., Il capo Cappato: riflessioni a margine della Corte Costituzionale n. 207 del 2018, a cura di Marini, Cupelli, Esi, Napoli, 2019;

Masoni, Le riflessioni del C.N.B. sul suicidio medicalmente assistito: i diritti dei pazienti terminali, in Il Familiarista, 2019.

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