Reato omissivo proprio ed il valore scusante dell'impossibilità di adempiere

Gianluca Bergamaschi
16 Gennaio 2017

La questione è se, nell'ambito dei reati omissivi propri, il principio ad impossibilia nemo tenetur vada a radicare un elemento costitutivo negativo della fattispecie criminosa, con onere della prova della concreta possibilità di adempiere a carico dell'accusa ed una ridefinizione sistemica dell'elemento psicologico, ovvero una qualche causa di esclusione della punibilità, invocabile dall'obbligato, ma con onere di allegazione (o prova) a suo carico.
Abstract

La questione è se, nell'ambito dei reati omissivi propri, il principio ad impossibilia nemo tenetur vada a radicare un elemento costitutivo negativo della fattispecie criminosa, con onere della prova della concreta possibilità di adempiere a carico dell'accusa ed una ridefinizione sistemica dell'elemento psicologico, ovvero una qualche causa di esclusione della punibilità, invocabile dall'obbligato, ma con onere di allegazione (o prova) a suo carico.

Analisi delle giurisprudenza di legittimità

La questione non è nuova ma si è riproposta a causa della crisi economica, che ha determinato l'aumento dei reati omissivi che si risolvono nel mancato pagamento di somme di denaro.

Grande rilievo hanno, ad esempio, le violazioni degli art. 10-bis (Omesso versamento delle ritenute dovute o certificate) e 10-ter (Omesso versamento dell'Iva dovuta in base alla dichiarazione annuale) del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto).

Circa l'effetto giustificatorio dell'impossibilità di adempiere tali obblighi, determinata dalla crisi economica e di liquidità aziendale, la giurisprudenza di legittimità ha assunto un atteggiamento di sostanziale chiusura.

Alla base del rifiuto stanno due sentenze a Sezioni unite del 2013, che pure, inizialmente, furono viste nell'ottica di un'apertura a tale possibilità.

Mi riferisco alle sentenze n. 37424 e n. 37425 (relative agli artt. 10-ter e 10-bis), nelle quali, benché ci si occupi prevalentemente di problematiche legate alla successione di leggi nel tempo, si afferma che l'elemento psicologico di tali reati è il dolo generico e non quello specifico, perché la normativa prevede espressamente il secondo per alcuni reati ma non per quelli in questione, mentre ravvisano la prova dello stesso nel mero rilascio della certificazione al sostituito e nella mera presentazione della dichiarazione annuale del sostituto o dell'Iva.

Affermano inoltre: [] l'obbligo di accantonare le somme dovute all'Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere all'obbligazione tributaria; mentre negano che possa: [] escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla sceltadi non far debitamente fronte alla esigenza predetta.

Infine, dal punto di vista probatorio, attribuiscono, comunque, un onere di allegazione in capo all'imputato, che, nei casi di specie, non venne ritenuto adempiuto, di talché non si giudicò necessario un approfondimento istruttorio, in quanto l'allegazione venne giudicata generica.

Su questa via s'incanala, in modo paradigmatico, anche la sentenza della Cass. pen., Sez. III, n. 10813/2014, la quale – ad un imputato che, a fronte di una grave crisi di liquidità, aveva preferito pagare i dipendenti ed i fornitori, risultando, poi, carente di provvista alla scadenza dell'Iva – rispose che l'invocata mancanza di dolo per l'assoluta impossibilità di adempiere potrebbe anche essere riconducibile alla causa di non punibilità della forza maggiore, a patto però che l'imputato stesso adempia agli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla lamentata crisi di liquidità, dovranno investire non solo l'aspetto della non imputabilità a chi abbia omesso il versamento della crisi economica che ha investito l'azienda o la sua persona, ma anche la prova che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile tramite il ricorso, da parte dell'imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto (non ultimo, il ricorso al credito bancario); ossia dovrà dare prova che non gli sia stato altrimenti possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, atte a consentirgli di recuperare la necessaria liquidità, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili; di contro, l'affermazione operata dal ricorrente di avere preferito pagare dipendenti e fornitori, appare frutto di una scelta imprenditoriale, sulla cui condivisibilità non spetta a questa Corte giudicare, ma certo non prova l'illiquidità e la crisi, nei termini di cui si diceva in precedenza, atte a consentire che non si sia realizzata la fattispecie penale che incrimina l'omissione del versamento all'Erario.

Degna di nota è anche la sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 7429/2015, che esclude la causa di forza maggiore della crisi di liquidità in capo ad un imprenditore schiacciato dai mancati pagamenti dei suoi debitori, intanto perché l'inadempimento dei propri debitori è un'eventualità insita nel rischio di impresa e non può ritenersi del tutto imprevedibile, inoltre perché le condotte sanzionate comportano, sostanzialmente, la indebita appropriazione di somme altrui di cui si ha la detenzione e tale evenienza, [] rende del tutto irrilevanti eventuali difficoltà economiche impreviste.

La sentenza si segnale anche perché analizza l'ipotesi dello stato di necessità, escludendolo, giacché, l'esigenza di pagare gli stipendi, non costituisce il pericolo di un danno grave alla persona, ravvisabile solo nei beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano, come la vita, l'integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l'onore, mentre tale non è il diritto al lavoro ed allo stipendio.

Sempre in linea, si fa notare anche la sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 8352/2015, perché chiarisce che la causa di forza maggiore per la crisi di liquidità, in astratto concepibile in quanto causa di giustificazione generale, in concreto è meramente virtuale, giacché – trattandosi di una vis cui resisti non potest, a causa della quale l'uomo non agit sed agitur, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento ed escludere la suitas della condotta – le difficoltà economiche non possono integrare la forza maggiore, specie nei reati omissivi, nei quali può attivare la scusante solo l'assoluta impossibilità e non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso; per cui la ricorrenza di un margine di scelta e la mancanza di liquidità frutto di una qualsiasi scelta di politica aziendale, escludono sempre la scusante.

Tale indirizzo è pressoché totalitario (Cass. pen., Sez. III, n. 2614/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 5467/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 37730/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 51436/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 1623/2016; Cass. pen., Sez. III, n. 9936/2016; Cass. pen., Sez. III, n. 38722/2016) ma non mancano del tutto alcuni arresti giurisprudenziali più possibilisti (Cass. pen., Sez. III, n. 5905/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 15176/2014; Cass. pen., Sez. III, n. 40352/2015), i quali, però, non si scostano radicalmente dalla giurisprudenza vista supra, perché l'esito positivo per l'imputato è dovuto prevalentemente a questioni attinenti all'insindacabilità in Cassazione delle questioni di fatto o alle carenze della motivazione in appello.

Tuttavia la n. 40352/2015 sembra almeno scalfire l'apoditticità dell'obbligo di accantonamento, esigendo che: tali accantonamenti fossero stati, nel concreto, adempimenti possibili ed esigibili; inoltre (unitamente alla n. 5905/2014) ricostruisce più correttamente il meccanismo dell'onere di allegazione dell'imputato, che involge, di regola, l'onere officioso di verifica dei fatti allegati a discolpa.

Un discorso del tutto simile si riscontra nella giurisprudenza di legittimità che si è occupata della omissione dei contributi previdenziali ex art. 2 del d.l. 463/1983 convertito dalla l. 638/1983.

Fin dalla sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 33945/2001 si è stabilito chelo stato di insolvenza, poi sfociato in fallimento, non libera l'imprenditore dall'obbligo di versare le ritenute previdenziali, né risulta ricorrente la causa di forza maggiore, giacché, da una lato, sussiste l'obbligo di ripartizione delle risorse (omologo all'obbligo di accantonamento visto supra), dall'altro, la scelta di pagare i dipendenti include la volontarietà della condotta e, dunque il dolo delittuoso; inoltre la sentenza Cass. pen., Sez. III, n. 20753/2006 ha pure precisato che il lavoratore subordinato ha un diritto alla "posizione previdenziale", che è sostanzialmente collegata alla durata del proprio rapporto di lavoro e che non è derogabile per ragioni contingenti, sicché le eventuali difficoltà economiche del datore di lavoro non possono comunque giustificarne gli inadempimenti; allo stesso modo la giurisprudenza successiva (Cass. pen., Sez. III, n. 36907/2015 e Cass. pen., Sez. III, n. 30526/2016) si è sempre allineata a tali concetti, non senza significativi richiami a quella relativa alle omissioni tributarie viste supra.

Quanto alle omissioni familiari, la Cassazione, circa l'art. 570 c.p. (Violazione degli obblighi di assistenza familiare), in varie sentenze più risalenti sembrava voler valorizzare l'impossibilità di adempiere quale fattore dell'inesigibilità della condotta con esclusione del dolo delittuoso; ad esempio nella Cass. pen., Sez. VI, n. 5969/1997, la qualeesige che sia probatoriamente chiarito se si tratti di semplici difficoltà economiche, non scusanti, ovvero di vera e propria indigenza, che rende il soggetto non punibile; ancor più evidente l'applicazione del principio nelle sentenze Cass. pen., Sez. VI, n. 26108/2003 e Cass. pen., Sez. VI, n. 37137/2004, laddove si pretende la piena prova della capacità economica dell'imputato o dell'incapacità colpevole, il che involge l'idea che debba essere in primis l'accusa ha fornire tali elementi a carico, al di là di quello che l'imputato potrà o vorrà allegare a sua discolpa.

Di contro, però, la giurisprudenza più recente (Cass. pen., Sez. VI, n. 16810/2014; Cass. pen., SezVI, n. 36636/2014; Cass. pen., Sez. VI, n. 49543/2014; Cass. pen., Sez. VI, n. 47287/2015; Cass. pen., Sez. VI, n. 15532/2016) tende ad allinearsi a quella vista supra per le omissioni tributarie e contributive, in quanto ribadisce che:

  1. l'incapacità economica deve essere assoluta, ossia integrare una situazione di persistente, oggettiva e incolpevole indisponibilità di introiti;
  2. non giustifica mai l'imputato che versi anche solo parzialmente in colpa, per tale situazione;
  3. spetta all'imputato l'onere di allegare (ma in taluni arresti si dice espressamente di provare)le circostanze da cui possa desumersi tale incapacità;
  4. le allegazioni generiche (quali la disoccupazione o la saltuaria occupazione e l'aver sofferto periodi di detenzione o di crisi economica dell'impresa) non valgono a corroborare l'assunto dell'incapacità economica (e, implicitamente, ad onerare il giudice di una verifica officiosa a livello istruttorio).

Lo stesso trattamento, del resto, la Corte lo riserva alla violazione dell'art. 12-sexies della l. 898/1970 (Mancata corresponsione dell'assegno divorzile) (Cass. pen., Sez. VI, n. 42543/2016).

Analisi della giurisprudenza di merito

La giurisprudenza di merito è più variegata, perché accanto a sentenze che si allineano alla giurisprudenza di legittimità già vista (Trib. Vicenza del 31 marzo 1988; Trib. Bari n. 2706/2014; Trib. Bari n. 845/2016; Trib. Bari n. 969/2016), ve ne sono molte altre che valorizzano l'impossibilità di adempiere e l'inesigibilità della condotta, per escludere il dolo (Gip Roma n. 64/2011; Gip Firenze del 10 agosto 2012; Trib. Novara del 20 marzo 2013; Trib. Roma n. 105/2014; Trib. Ivrea n. 378/2014; Trib. Piacenza n. 1030/2014; Trib. Chieti n. 1203/2014; Trib. Ravenna n. 1799/2004; Trib. Firenze n. 3820/2014; Trib. Monza n. 2347/2016).

Per lo più, però, le sentenze del secondo tipo, benché apprezzabili, non esplicano con compiuta chiarezza le ragioni della loro scelta, ossia l'esatto meccanismo con cui il dolo viene escluso, e paiono, a volte, il semplice frutto di una equità sostanziale, a cui il giudice di merito tende quando gli trema la coscienza perché dovrebbe condannare un soggetto essenzialmente “sfortunato” e, dunque, rimproverabile più per il suo destino che per la sua cattiva volontà.

Alcune, comunque, sono di un certo interesse, come la sentenza del Gip Roma n. 64/2011, che da un lato, qualifica come dolo specifico l'elemento soggettivo del reato ex art. 10-ter del d.lgs 74/00, dall'altro, sembra addossa chiaramente sul P.M. l'onere della prova dello stesso; o quella del Trib. Roma n. 105/14, in cui ci si accontenta di allegazioni plausibili e non smentite da nulla; ovvero quella del Trib. Firenze n. 3820/2014,in cui si ritiene che le obiettive difficoltà economiche dell'imputato possano averlo indotto a pensare legittima la sua condotta omissiva, non dovuta, quindi, ad una deliberata manovra per sottrarsi all'adempimento.

Considerazioni critiche

Di tutto quanto scritto dai giudici, specie di legittimità, per neutralizzare la portata giustificatoria dell'impossibilità di adempiere, appare tendenzialmente condivisibile solo l'esclusione delle cause di giustificazione dello stato di necessità e della forza maggiore.

Quest'ultima – ammessa in via generale ed astratta, ma, di fatto, pressoché sempre ritenuta non sussistente – è, in effetti, confinabile a casi di scuola (si pensi, ad esempio, a colui che sia investito da un camion mentre si reca ad adempiere nell'ultimo giorno utile), perché, se deve trattarsi di una forza irresistibile che passivizza e strumentalizza completamente il soggetto agente, allora è chiaro come essa appaia poco associabile ad una situazione variegata e complessa come una crisi aziendale o una condizione di povertà personale, in cui fattori endogeni ed esogeni alla condotta dell'imputato, danzano tra loro promiscuamente e possono portare a conclusioni altamente opinabili circa il suo effettivo contributo, in positivo o negativo, al determinarsi di tali situazioni finali, e quindi alla sua colpevolezza o incolpevolezza.

Decisamente meno condivisibile appare, invece, l'affermazione, riferibile alle omissioni tributarie e contributive, di un obbligo di accantonamento o ripartizione delle somme necessarie, nonché la loro connessa assimilazione all'appropriazione indebita; assunti che costituiscono il vero caposaldo argomentativo della giurisprudenza rigorista, in proposito.

Quanto alla prima affermazione, essa non appare espressamente supportata da nessuna norma di diritto positivo, cosa che, invece, dovrebbe ritenersi indispensabile, sia in relazione alle esigenze di tipicità e tassatività connesse alla finale confluenza in una norma penale, sia in relazione alla giustificazione legale rispetto agli illeciti civili a cui, con ciò, si finisce per istigare l'agente, il quale, per non incorrere nella sanzione penale, sarà indotto a trascurare che, se la scadenza del debito erariale è successiva a quella del debito verso fornitori e dipendenti, è assolutamente ovvio e giusto, ossia giuridicamente dovuto, che tali crediti (liquidi ed esigibili) siano soddisfatti in precedenza.

Ciò impedisce pure la pretesa assimilazione di tali reati all'appropriazione indebita, ex art. 646 c.p., giacché fa difettare un espresso vicolo di destinazione, necessario per evitare la confusione patrimoniale in caso di somme di denaro (Cass. pen., Sezioni unite, n. 1327/2005), il che, unitamente alla non provenienza esterna del bene rispetto al patrimonio dell'agente, rende del tutto mancante il requisito della altruità; senza contare la mancata previsione del dolo specifico dello ingiusto profitto ed il fatto che, se tali condotte fossero forme di appropriazione indebita, non ci sarebbe stata la necessità di specifiche fattispecie per sanzionarle penalmente.

Ancor meno condivisibile è la gestione che la giurisprudenza fa della ripartizione dell'onere istruttorio.

A che vale, invero, riconoscere, in punto di diritto, la teorica ricorrenza di una causa di giustificazione (in punto di fatto pressoché sempre negata), solo per onerare l'imputato dell'allegazione dei fatti implicanti la stessa; fino ad arrivare a trasformare ciò, implicitamente o esplicitamente, in un vero e proprio (anzi improprio), onere della prova, attraverso la scusa della genericità delle allegazioni ovvero alzando di continuo l'asticella di quello che si deve allegare/provare in funzione liberatoria dalla responsabilità penale.

È sempre opportuno ricordare che l'onere di allegazione comporta soltanto che l'imputato dichiari, ossia indichi, i fatti che possono integrare una causa di giustificazione, dopo di che il giudice, ove non possa de plano ritenerli inverosimili o impertinenti, dovrà verificarli attraverso i suoi poteri istruttori officiosi, ex artt. 506 e 507 c.p.p., al precipuo fine di escluderli, stante l'applicabilità anche in via dubitativa delle cause di giustificazione, ex art. 530, comma 3, c.p.p..

Di contro, come visto supra, la giurisprudenza di legittimità, è pervasa dalla netta tendenza ad addossare sostanzialmente all'imputato l'onere della prova delle circostanze teoricamente atte a giustificarlo o, comunque, ad escludere l'elemento psicologico, nonché a configurare le stesse in termini talmente ampi da rendere la dimostrazione una probatio diabolica e l'elemento psicologico un dolo in re ipsa che, in realtà, malcela la strisciante tendenza a ricondurlo ai connotati propri della responsabilità colposa o addirittura oggettiva.

In conclusione

Forse, per evitare tutto questo, basterebbe ricordarsi quanto appreso fin dai tempi dell'università, ossia riperticare l'antica, ma sempre valida, teoria generale del reato omissivo doloso, in base alla quale, in tale tipo di reati, la possibilità di adempire è un elemento costitutivo negativo (ossia implicito), del reato, la cui ricorrenza è alla base dell'esigibilità della condotta precettata e della sanzionabilità della sua omissione.

Tale ricostruzione è ben fondata sia sul principio di razionalità, ex art. 3 Cost., giacché sarebbe del tutto assurdo che la legge pretendesse l'impossibile, sia sul principio di colpevolezza, ex art. 27, comma 1, Cost., giacché sarebbe del tutto iniquo rimproverare a qualcuno di non aver fatto quello che non poteva fare.

Se, dunque, siamo di fronte ad un elemento costitutivo del reato, intanto, sarà onere dell'accusa dimostrare la sua ricorrenza di base, ossia, attraverso gli opportuni accertamenti socio-economici e patrimoniali, provare che l'imputato era nelle condizioni di adempiere o non vi era per una sua scelta deliberata, e solo dopo, in via di mera confutazione, quest'ultimo potrà allegare fatti ulteriori a sua discolpa.

Inoltre, ciò non può non influire sulla qualificazione dell'elemento psicologico, giacché, per effetto dell'interazione tra il principio d'inesigibilità e la struttura omissiva delle norme, il dolo delittuoso, semanticamente descritto come generico, si risolve nella coscienza di ledere il bene giuridico tutelato, da intendersi, però, non come il mero interesse del soggetto passivo ad ottenere un adempimento, ma come l'interesse a reprime solo le condotte deliberatamente volte a non fare o dare il dovuto, pur potendolo fare.

In altre parole, il dolo si configura come un dolo generico rafforzato, perché – pur rimanendo formalmente generico, in quanto non descritto come un fine ulteriore rispetto alla realizzazione degli elementi tipici del reato – condivide con il dolo specifico l'esigenza della piena intenzionalità delittuosa, intesa non solo come realizzazione degli elementi tipici, ma pure come orientamento degli stessi verso un fine preciso, ossi quello di sottrarsi ad un obbligo di legge sanzionato penalmente, il tutto, però, in modo diretto, ossia con esclusione del dolo indiretto o eventuale.

A ragionare diversamente, si finirebbe per prendere posizione "aprioristicamente" tra gli interessi in gioco, valorizzando maggiormente e contra reum il diritto a ricevere rispetto alla concreta possibilità di dare, cosa che, in assenza di una espressa e tassativa impostazione normativa in tal senso (ed a prescindere da eventuali problemi di costituzionalità), un giudice terzo ed imparziale non dovrebbe mai fare, anche per evitare di sanzionare penalmente il mero inadempimento civile o amministrativo, con ciò determinando una surrettizia forma di reintroduzione della prigione per debiti.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario