Appello contro il provvedimento emesso a definizione del giudizio svoltosi con rito sommario di cognizione: quale termine?

Giusi Ianni
13 Gennaio 2020

Nella decisione in commento i Giudici di legittimità, muovendo dalla pacifica inapplicabilità nel rito sommario di cognizione dell'art. 327, comma 1, c.p.c., in forza della speciale disciplina dettata dall'art. 702-quater c.p.c., si domandano se tale conclusione possa essere derogata per l'ipotesi in cui il procedimento di primo grado, benché svoltosi con rito sommario di cognizione, sia stato definito con sentenza, anziché con ordinanza come prescritto dall'art. 702-ter c.p.c.
Massima

L'errato nomen juris di sentenza attribuito al provvedimento conclusivo di merito con cui viene accolta una domanda proposta ai sensi degli artt. 702-bis e ss. c.p.c., all'esito di giudizio interamente svoltosi secondo le regole del procedimento sommario di cognizione, senza che risulti una consapevole scelta del giudice di qualificare diversamente l'azione o di convertire il rito in ordinario, non comporta l'applicazione del termine d'impugnazione di sei mesi, previsto dall'art. 327 c.p.c., restando comunque l'appello soggetto al regime suo proprio di cui all'art. 702-quater c.p.c.

Il caso

C.D., conduttore in forza di affitto d'azienda di un immobile adibito a stazione di servizio per automezzi ed autorimessa, di proprietà di A.d.V. e N., compreso nel Condominio Alfa, con ricorso per procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c., conveniva dinanzi al Tribunale di Messina i proprietari A.d.V. e N. e il Condominio per ottenere il risarcimento dei danni cagionati dalle infiltrazioni d'acqua presenti nel locale. Il Tribunale adito disponeva il mutamento del rito e la separazione di alcune delle domande principali e riconvenzionali nei rapporti fra il conduttore C. e i locatori A.d.V. e N., da trattare secondo le regole delle controversie di cui all'art. 447-bis c.p.c., nominando invece CTU per le restanti domande, ritenute compatibili con il procedimento sommario di cognizione ex art. 702-bis c.p.c. Il procedimento proseguito con rito sommario di cognizione era, infine, definito con provvedimento rubricato “sentenza”, che condannava il Condominio Alfa al risarcimento del danno, ritenendo che le infiltrazioni di umidità denunciate dal ricorrente fossero addebitabili alla mancata manutenzione e riparazione delle condotte condominiali.

Il Condominio Alfa proponeva appello dinanzi alla Corte d'appello di Messina, lamentando l'erroneità nel merito della decisione impugnata. Dinanzi al giudice del gravame C.D., per quanto qui rileva, eccepiva in via pregiudiziale l'inammissibilità per tardività dell'appello principale, che a suo avviso avrebbe dovuto essere proposto nel termine di cui all'art. 702-quater c.p.c., malgrado la forma di sentenza del provvedimento conclusivo del giudizio di primo grado. L'eccezione era disattesa dalla Corte d'appello adita, che decideva nel merito le impugnazioni principali e incidentali delle parti. Riteneva, in particolare, il predetto giudice che l'individuazione del mezzo di impugnazione esperibile avverso un dato provvedimento giurisdizionale andasse fatta in base al principio dell'apparenza, con riguardo esclusivo alla qualificazione del provvedimento compiuta dal giudice, indipendentemente dalla sua esattezza. Poiché, pertanto, il giudice di prime cure aveva denominato “sentenza” il provvedimento emesso a definizione del giudizio – benché erroneamente rispetto a quanto disposto dall'art. 702-ter c.p.c. – correttamente il termine per l'impugnazione era stato individuato in quello di cui all'art. 327 c.p.c., in mancanza di notifica della parte vittoriosa. Con ricorso per cassazione C.D. reiterava l'eccezione di intempestività del gravame interposto dal Condominio Alfa, denunciando la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater c.p.c. Il motivo era accolto dalla Suprema Corte, che cassava senza rinvio la sentenza impugnata.

La questione

Nella decisione in commento i giudici di legittimità, muovendo dalla pacifica inapplicabilità nel rito sommario di cognizione dell'art. 327, comma 1, c.p.c., in forza della speciale disciplina dettata dall'art. 702-quater c.p.c. (e salvo il caso della mancata comunicazione/notificazione dell'ordinanza conclusiva, che legittima il riferimento al termine “lungo” di legge, operante per tutti i provvedimenti a carattere decisorio e definitivo: Cass. civ., sez. III, n. 16893/2018), si domandano se tale conclusione possa essere derogata per l'ipotesi in cui il procedimento di primo grado, benché svoltosi con rito sommario di cognizione, sia stato definito con sentenza, anziché con ordinanza come prescritto dall'art. 702-ter c.p.c.

Le soluzioni giuridiche

In tal caso, secondo la Suprema Corte, al fine di individuare il regime impugnatorio del provvedimento, deve verificarsi se la forma di quest'ultimo sia stata o meno il risultato di una consapevole scelta, ancorché non esplicitata con apposita motivazione. Ove, quindi, la forma sia ascrivibile ad un mero errore del nomen iuris attribuito dall'estensore - dovendosi trarre decisivi indizi di una tale scelta consapevole dalle concrete modalità con le quali si sia svolto il procedimento – deve prevalere il principio cosiddetto della ultrattività del rito, con conseguente individuazione della disciplina del gravame in quella dalla legge stabilita per il rito in concreto seguito nel grado precedente. Poiché, pertanto, nella decisione all'esame della Suprema Corte, la denominazione di "sentenza" non risultava frutto di alcuna meditata valutazione da parte del giudice di prime cure, nulla emergendo, in tal senso, dalla pronuncia o dallo svolgimento del processo, da cui non si evinceva un un provvedimento di conversione del rito sommario in cognizione ordinaria a norma dell'art. 702-ter c.p.c., comma 3 (e da cui risultava, anzi, la volontà del giudice di proseguire con il rito sommario di cognizione le domande non oggetto di separazione) il termine per l'impugnazione a cui fare riferimento doveva considerarsi quello di cui all'art. 702-quater c.p.c., non rispettato nel caso di specie (risultando comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria). Né potevano ricorrere gli estremi per la rimessione in termini, in forza dell'art. 153 c.p.c., postulando la predetta norma la dimostrazione che la decadenza fosse stata determinata da una causa non imputabile alla parte e dovendosi escludere che l'erronea denominazione del provvedimento potesse essere idonea a fondare un legittimo affidamento sul diverso termine per appellare. Da qui il principio di diritto per cui «l'errato nomen juris di sentenza attribuito al provvedimento conclusivo di merito con cui viene accolta una domanda proposta ai sensi degli artt. 702-bise ss. c.p.c., all'esito di giudizio interamente svoltosi secondo le regole del procedimento sommario di cognizione, senza che risulti una consapevole scelta del giudice di qualificare diversamente l'azione o di convertire il rito in ordinario, non comporta l'applicazione del termine d'impugnazione di sei mesi, previsto dall'art. 327 c.p.c., restando comunque l'appello soggetto al regime suo proprio di cui all'art. 702-quater c.p.c.».

Osservazioni

Il procedimento che si svolge con rito sommario di cognizione è definito con ordinanza, per come chiaramente disposto dall'art. 702-ter c.p.c. Malgrado la forma di ordinanza, tale provvedimento ha natura sostanziale di sentenza, in quanto è provvisoriamente esecutivo; costituisce titolo per l'iscrizione di ipoteca giudiziale e per la trascrizione ed è idonea al giudicato se non impugnata entro trenta giorni dalla sua comunicazione o notificazione (art. 702-quater c.p.c.) ovvero dalla lettura in udienza ove la decisione sia inserita a verbale (Cass. civ., sez. II, n. 14478/2018). Proprio la previsione di una speciale disciplina dei termini di impugnazione ha portato i giudici di legittimità ad affermare l'inapplicabilità nel procedimento sommario di cognizione della norma di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c., che, in mancanza di notifica, fa decorrere il termine per l'impugnazione dal deposito della sentenza: la decorrenza del termine per proporre appello dal “deposito” dell'ordinanza è stata, infatti, ritenuta logicamente e sistematicamente incompatibile con la previsione, contenuta, appunto, nell'art. 702-quater c.p.c., della decorrenza dello stesso termine, per finalità acceleratorie, dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza medesima, ovvero, se resa in udienza e inserita a verbale, dalla data dell'udienza in cui la decisione è assunta (Cass. civ., n. 14478/2018 cit.). È stata anche ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – sollevata per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. - dell'art. 702-quater c.p.c., nella parte in cui stabilisce che l'ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria, trattandosi di una scelta discrezionale del legislatore, ragionevolmente in linea con la natura celere del procedimento e non lesiva del diritto di difesa, in quanto il detto termine decorre dalla piena conoscenza dell'ordinanza, che si ha con la comunicazione predetta ovvero con la notificazione ad istanza di parte. Solo per l'ipotesi di mancata comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria e mancata notificazione ad opera del soggetto vittorioso (ad esempio, in presenza di parte contumace) si è considerato possibile il rinvio all'art. 327 c.p.c., operante per tutti i provvedimenti a carattere decisorio e definitivo (Cass. civ., n. 16893/2018 cit.). Quale disciplina deve applicarsi, tuttavia, se a definizione del giudizio svoltosi con rito sommario di cognizione sia stata emessa una sentenza e non un'ordinanza (in contrasto con quanto disposto dall'art. 702-ter c.p.c.)? In tal caso, secondo la pronuncia in commento (che fa applicazione di un principio già affermato dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 390/2011, in tema di opposizione a decreto ingiuntivo per onorari dovuti dal cliente al proprio difensore per prestazioni giudiziali civili, al fine di individuare il regime impugnatorio del provvedimento emesso a conclusione del giudizio) assume rilevanza la forma adottata dal giudice solo ove la stessa sia frutto di una consapevole scelta, che può essere anche implicita e desumibile dalle modalità con le quali si è in concreto svolto il relativo procedimento. Il principio della c.d. "apparenza", infatti, va temperato con quello della "prevalenza della sostanza sulla forma”, più volte anch'esso espresso dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ., sez. II, n. 14222/2016 e Cass. civ., sez. III, n. 14637/2004), ad esempio per stabilire (fuori dallo specifico ambito del rito sommario di cognizione) se un provvedimento abbia natura di ordinanza o di sentenza, ai fini dell'individuazione del regime impugnatorio.

Qualora, invece, la forma sia il frutto di un mero errore nell'attribuzione del nomen iuris da parte del giudice, riprende vigore il principio dell'ultrattività del rito, con conseguente individuazione della disciplina del gravame in quella dalla legge stabilita per il rito in concreto seguito nel grado precedente. Né appare possibile una rimessione in termini per l'errore in cui sia incorsa la parte nell'individuazione del termine per impugnare (alla luce del nomen iuris attribuito dal giudice al provvedimento emesso a definizione del giudizio), postulando l'art. 153 c.p.c. la sussistenza di una causa “non imputabile” alla parte che intende avvalersi dell'istituto, quale concetto in cui non appare sussumibile l'errore in diritto commesso dalla parte (anche quando conseguente ad un errore in diritto commesso dal giudice).

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