Principio di non contestazione e sindacato di legittimità

Francesco Bartolini
16 Gennaio 2020

Nella pronuncia in commento la Suprema Corte si è occupata della questione avente ad oggetto l'ambito applicativo del principio di non contestazione e la sindacabilità, sotto il profilo del vizio di motivazione, dell'apprezzamento di rilevanza e sufficienza delle prove compiuto dal giudice del merito.
Massima

Il principio di non contestazione di cui all'art. 115 c.p.c. ha ad oggetto i fatti costitutivi dell'altrui domanda e non anche una valutazione di natura giuridica quale può essere il giudizio di esistenza di un nesso causale tra l'evento e l'asserito danno. L'apprezzamento effettuato dal giudice di merito in ordine all'avvenuta osservanza ad opera delle parti del detto principio può essere sindacato in sede di legittimità sotto il profilo del vizio di motivazione se inteso, dopo la modifica dell'art. 360 n. 5) dovuta al d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 80, quale omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in discussione tra le parti oppure sotto il profilo del vizio di violazione di legge sull'assunto che la motivazione di quell'apprezzamento risulta omessa, apparente, irriducibilmente contrastante per l'inconciliabilità delle affermazioni svolte, perplessa o oggettivamente incomprensibile.

Il caso

I titolari di una società commerciale, per essa e in proprio, citarono in giudizio l'istituto bancario del quale erano correntisti per averne la condanna al risarcimento dei danni asseritamente cagionati dall'illegittima segnalazione di “sofferenza” dell'impresa alla Centrale Rischi della Banca d'Italia. I giudici di merito respinsero la richiesta. In particolare, la Corte d'appello dichiarò inammissibili i mezzi istruttori indicati a dimostrazione del danno; rilevò che nessuna indicazione era stata offerta a rendere concreta la descrizione del presunto danno; osservò che le segnalazioni erano state cancellate a distanza di pochi mesi; e che comunque nessuna dimostrazione era stata procurata sulla sussistenza del nesso causale tra le segnalazioni e il pregiudizio lamentato. Si aggiungeva nella pronuncia che le sfortunate vicende determinanti la successiva richiesta di concordato preventivo, formulata anni dopo le segnalazioni suddette, non erano ad esse addebitabili ma erano da considerarsi dovute al calo delle vendite per la crisi del settore, all'aumento dei costi fissi ed al rilevante contenzioso con la clientela.

La questione

Con il ricorso la società soccombente ha proposto plurimi motivi di gravame riconducibili sostanzialmente ad una unica, anche se articolata, questione. Essa ha ad oggetto l'ambito applicativo del principio di non contestazione, che la ricorrente assume essere stato inosservato nella vicenda di causa; e la sindacabilità ad opera della Suprema Corte, sotto il profilo del vizio di motivazione, dell'apprezzamento di rilevanza e sufficienza delle prove compiuto dal giudice del merito. Si assume nell'atto di impugnazione che se il giudice di appello si fosse conformato al principio di non contestazione avrebbe dovuto necessariamente ritenere come ammessi da controparte fatti comprovanti il nesso di causalità tra le segnalazioni bancarie e il danno derivatone. Al medesimo accertamento positivo lo stesso giudice di appello sarebbe pervenuto se avesse considerato adeguatamente i documenti prodotti e se avesse ammesso a esperimento le prove testimoniali ritualmente dedotte.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione ha rigettato il gravame. Il ricorrente, essa ha affermato, aveva invocato il principio di non contestazione con riferimento ad una valutazione giuridica, quale è l'esistenza o meno del nesso causale, laddove il suddetto principio si riferisce unicamente ai “fatti primari”, costitutivi, modificativi o estintivi del diritto azionato. Citando come precedente la decisione Cass. 17966/2016, ha ricordato che da tempo la giurisprudenza distingue l'ipotesi in cui la non contestazione riguarda i fatti posti dall'attore a fondamento della domanda da quella in cui cade su circostanze dedotte al solo fine di provare i fatti costitutivi. Unicamente nel primo caso la non contestazione si configura come comportamento rilevante ai fini della determinazione dell'oggetto del giudizio, con efficacia vincolante nei confronti del giudice; mentre nella seconda ipotesi essa assume rilievo esclusivamente sul piano istruttorio, costituendo una condotta liberamente apprezzabile come argomento di prova ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza del fatto di cui si tratta.

Per quanto riguardava le errate argomentazioni riguardanti la sufficienza e la rilevanza dei mezzi di prova, il Supremo Collegio ha osservato come, secondo l'indirizzo espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza 8053/2014, il sindacato sulla motivazione nel giudizio di legittimità, alla luce della nuova formulazione dell'art. 360, comma 2, n. 5 c.p.c., vada riferito alla verifica di sussistenza della parte motiva nel suo minimo costituzionale preteso dall'art. 111 Cost.; e che il vizio denunciabile è in realtà quello conseguente ad una violazione di legge, rilevante ai sensi degli artt. 132 n. 4) e 360, comma 2, n. 4), in relazione ad una anomalia della motivazione che assume rilievo unicamente quando consiste nella mancanza assoluta dei motivi, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile. Situazioni, queste, che nella vicenda in esame non erano ravvisabili.

Nè la prova del danno, ha affermato ancora la Corte, avrebbe potuto desumersi dalla tipologia del danno lamentato, quale nocumento all'immagine ed alla reputazione dell'impresa. In quanto asseritamente derivato dalla illegittima segnalazione alla Centrale rischi, un siffatto genere di pregiudizio ha la natura di un “danno conseguenza” e come tale non può essere ritenuto sussistente in re ipsa ma deve essere specificamente allegato e provato da chi ne chiede il risarcimento.

Osservazioni

La pronuncia della Corte di legittimità ribadisce decisioni conosciute e uniformemente seguite. Il principio di non contestazione come strumento di formazione del convincimento, enucleato dal diritto processuale del lavoro, è stato esplicitamente riferito al giudizio ordinario dalla modifica apportata all'art. 115 c.p.c. dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, quale regola di giudizio da trarre dal comportamento delle parti: possono essere posti a fondamento della decisione i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita. La ragione che giustifica il principio è intuitiva e, a ben vedere, non aveva stretta necessità di una apposita disposizione nel codice di procedura civile: ciò che non è in discussione tra le parti non ha bisogno di un accertamento ad opera del giudice. L'apprezzamento di quanto, di volta in volta, nella singola causa, può dirsi non contestato è affidato al potere discrezionale del giudice di merito e costituisce tipica materia pertinente alla sua cognizione. Il sindacato della Suprema Corte può essere esercitato nel limitato ambito al quale lo relega l'attuale testo dell'art. 360 n. 5, c.p.c. oppure nel caso in cui la parte lamenti una anomalia della motivazione sul punto tale da la decisione priva di quel minimo motivazionale che è richiesto dall'art. 111 Cost.

In questo ambito di affermazioni interpretative, l'interesse della pronuncia risiede nell'aver chiaramente esposto i limiti del sindacato esercitabile dalla Corte di legittimità sulla valutazione effettuata dal giudice di merito con riguardo agli effetti probatori, nella causa, del comportamento delle parti tenute all'onere di contestazione.

Nella controversia con la Banca, in realtà, la società attrice aveva tentato di fornire la prova positiva dell'asserito danno e del nesso causale con le segnalazioni alla Centrale dei Rischi, ma senza riuscirvi. Allo scopo non erano serviti i documenti tratti dalla procedura di concordato chiesta a distanza notevole di tempo dai fatti e invano era stata chiesta l'ammissione della prova testimoniale, respinta perché ritenuta generica e irrilevante. La pretesa di aver assolto l'onere della prova a suo carico invocando il contrapposto onere di contestarle i fatti costitutivi della domanda di risarcimento appariva sfornita in partenza di un saldo riferimento alle risultanze istruttorie. Non per questo la decisione del Supremo Collegio si rivela meno significativa. Essa rende evidente, ove ve ne fosse bisogno, quanto radicale sia stata la riforma che ha condotto all'attuale testo del citato art. 360, n. 5), c.p.c.

Il vizio di motivazione denunciabile con ricorso per cassazione è stato trasformato da ripetuti interventi legislativi in un vizio di omessa pronuncia, per di più riferito ad un preciso fatto storico discusso tra le parti. E ovviamente è impossibile denunciare come una omissione siffatta l'errato apprezzamento dei dati probatori nella loro completezza, nella loro idoneità e nella ritualità del modo con il quale sono stati acquisiti, se in forza di una corretta considerazione del comportamento delle parti piuttosto che per effetto della tipicità di mezzi di prova documentale o testimoniale. Ne è risultata una situazione che di fatto ha soppresso il controllo di legittimità sulla rispondenza delle argomentazioni di una pronuncia alla realtà delle risultanze probatorie. Rimane quale strumento estremo di garanzia la verifica consentita alla Corte della rispondenza della motivazione all'unico requisito irrinunciabile, quello della sua concreta e sufficiente esistenza, come preteso dall'art. 111 Cost. Ove tale requisito non sia rispettato, la decisione giudiziaria è affetta da una inosservanza della legge, la quale, più precisamente, si verifica se le ragioni giustificative della valutazione compiuta, sbagliate o corrette che siano, non sono state esposte nella decisione o vi sono riferite in modo che ne esclude la loro stessa funzione, perché inconciliabili con la logica o impossibili da comprendere.

L'avvenuta rilevante restrizione dell'ambito di sindacabilità sulla motivazione nel giudizio di cassazione rispondeva allo scopo legislativamente perseguito di rendere più precisa ed esclusiva la funzione di nomofilachia della Corte, spesso accusata di dar luogo ad un terzo grado di giudizio di merito invece di limitarsi a indicare il principio di diritto. Di certo, però, ha circoscritto a situazioni residue lo spazio lasciato ai difensori per tutelare le parti rispetto a decisioni non condivise e non condivisibili. E costringe attualmente i difensori a condotte processuali attente e previdenti, perché la discussione del merito finisce, davvero, con il secondo grado del giudizio.

La sentenza ha ricordato, tra l'altro, che il principio di non contestazione concerne unicamente i fatti così detti primari, costitutivi, modificativi o estintivi della pretesa in giudizio e non anche le valutazioni (in tal senso si era espressa Cass. civ., sez. VI, 21 dicembre 2017, n. 30744) né le circostanze dedotte come fatti secondari o a scopo probatorio (Cass. civ., Sez. Un., n. 761/2002; Cass. civ., n. 3727/2012). Il principio opera con riferimento esclusivo a fatti che siano stati chiaramente indicati da una delle parti presenti in giudizio (Cass. civ., Sez. V, 6 dicembre 2018, n. 31619) e non a circostanze che richiedono l'interpretazione del contenuto di documenti, operazione riservata al giudice (Cass. civ., Sez. III, 22 settembre 2017, n. 22055).

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