“Alla fine tornò il principio”: i limiti risarcitori del colpo di frusta e la sentenza n. 32483/2019

Maurizio Hazan
20 Gennaio 2020

A seguito delle modifiche apportate all'art. 139 cod. ass., la Cassazione si è più volte pronunciata circa la portata della disposizione riformata e, più specificamente, sui presupposti necessari per accertare l'esistenza del danno biologico permanente in caso di lesioni di modesta entità. In particolare, le pronunce pubblicate nel corso della prima metà del 2019 hanno escluso che la norma abbia imposto la necessità degli accertamenti strumentali (quale unico mezzo di accertamento delle lievi invalidità permanenti) dovendo viceversa essere garantito il principio del libero convincimento del giudice, anche laddove sostenuto da altre diverse modalità accertative, purché rigorose ed obiettive. Tale approdo ..
Introduzione

A seguito delle modifiche apportate all'art. 139 cod. ass. (art. 32 comma-ter d.l. 24 gennaio 2012 n. 1 inserito nella legge di conversione 24 marzo 2012 n. 27, e poi dalla legge 124/2017) la Cassazione si è più volte pronunciata circa la portata della disposizione riformata e, più specificamente, sui presupposti necessari per accertare l'esistenza del danno biologico permanente in caso di lesioni di modesta entità. In particolare, le pronunce pubblicate nel corso della prima metà del 2019 hanno escluso che la norma abbia imposto la necessità degli accertamenti strumentali (quale unico mezzo di accertamento delle lievi invalidità permanenti) dovendo viceversa essere garantito il principio del libero convincimento del giudice, anche laddove sostenuto da altre diverse modalità accertative, purché rigorose ed obiettive. Tale approdo relegava le novità normative al rango di mere raccomandazioni, sterilizzandone ogni effetto innovativo e, soprattutto, disattendendone la ratio.

Con la Sentenza 12 dicembre 2019 n. 32483, la Suprema Corte torna in argomento, consapevole della necessità si salvaguardare il principio che sta alla base della riforma codicistica. E fornisce una nuova lettura “sostanzialistica” del tema, volta a confermare che, proprio in relazione allo specifico caso del trauma minore del collo, l'art. 139 novellato imporrebbe l'accertamento strumentale (in assenza del quale la dimostrazione della lesione e della conseguente menomazione resterebbe appesa ad una labile ed inaccettabile incertezza).

Al netto di qualche critica su questo singolare e zigzagante percorso nomofilattico, il presente lavoro mira a fornire un quadro aggiornato della questione, offrendone anche una lettura alternativa, da un diverso angolo visuale.

La norma, utilmente interpretata

Il timore è di diventare persino stucchevoli.

Ma vorremmo, una volta per tutte, essere franchi.

Il tema dei “colpi di frusta” si pone in rapporto di proporzionalità inversa rispetto alla dimensione che (se solo ci fosse un po' di buon senso!) quell'argomento dovrebbe occupare nei moderni scenari del diritto della responsabilità civile e, in particolare, del danno risarcibile. Se ne parla davvero troppo, specie in confronto a quanto (poco) ancora oggi ci si occupa di questioni assai più rilevanti, quali le esigenze di autentica riabilitazione alla vita di quei soggetti che abbiano subito macro-lesioni e conseguenti gravi menomazioni funzionali. Il pensiero corre verso forme di risarcimento più moderne, prime tra tutte il risarcimento in forma specifica e la “presa in carico” di lungo periodo del danneggiato, specie laddove il danno sia “serio e grave”.

Il fatto è che, volenti o nolenti, il fenomeno dei colpi di frusta - così facilmente mistificabile – ha generato, nel tempo, una vera e propria “industria del nulla”, abile a trasformare pretesti (o simulacri) di danno in occasioni di facili guadagni (non solo per le vittime dal collo debole ma soprattutto per coloro i quali su quei colli riescono ad imbastire robuste catene di profitto). Di qui l'interesse, altissimo, per la materia: se non si pagassero più i traumi minori del collo, molti facili indotti uscirebbero di scena.

Ora, è da più di qualche anno che il legislatore ha preso atto delle esigenze di sostenibilità sottese al sistema obbligatoriamente assicurato della rc auto; un sistema che, sovvenzionato dai premi versati da tutti i milioni di automobilisti residenti sul nostro territorio, assomiglia molto ad un'assicurazione sociale, a forte vocazione solidaristica e imposto per legge a fronte dell'endemica rischiosità della circolazione stradale. Tali esigenze di sostenibilità postulano, da un lato, l'accesso alle coperture a condizioni di premio da tutti affrontabili; dall'altro che i costi di gestione di quel sistema, e in primis, quelli dei sinistri e delle potenziali frodi, siano controllati, onde evitare l'aggravio del fabbisogno tariffario e, con esso, l'aumento di prezzi che pesano nelle tasche di (quasi) tutti i cittadini.

In questo contesto, l'equilibrio tra l'esigenza di controllo dei costi di sistema e le reali urgenze risarcitorie di chi abbia subito danni apprezzabili deve confrontarsi con una ulteriore, e più generale, complessità: quella relativa alla individuazione della misura del (risarcimento del) danno non patrimoniale alla persona (da lesione fisica). Operazione, quest'ultima, da compiersi senza alcuna chimerica pretesa di esattezza, a fronte di equivalenze compensative impossibili: cosa vale davvero la perdita di un braccio, dell'uso delle gambe, di un dito o, peggio, la perdita di un profondo rapporto parentale? Qualunque cifra si ipotizzi, si tratterà di un numero in libertà, che non potrà mai davvero fungere da equivalente, non essendo la vita o la salute mai davvero oggettivamente misurabile, tantomeno in termini di moneta o, peggio, di prezzo. Altrettanto non può invece dirsi per tutti quei pregiudizi patrimoniali che, sotto forma di danno emergente o di lucro cessante, impattano con ruvida concretezza sui bisogni economici del danneggiato e della sua famiglia.

Si tratta di mondi, quello del danno patrimoniale e quello del danno non patrimoniale, niente affatto omogenei, sul piano strutturale ed ontologico. E non è un caso se nel nostro sistema normativo come nella maggior parte degli ordinamenti europei, il risarcimento del danno da sofferenza (questa è, alla fine, la matrice autentica del danno non patrimoniale), costituisce una sorta di “eventualità minore”, sovente legato alla condotta dell'offensore e comunque riconoscibile non per regola ma quale eccezione. Sullo sfondo il problema, annoso e delicato, afferente all'etica della riparazione monetaria di un dolore che, troppo spesso sorretto dal solo racconto di chi afferma di averlo patito, richiede, forse, altri tipi di sollievo e di consolazione, piuttosto che esser ripagato da un danaro che – quel dolore - tende più ad enfatizzarlo anziché rimuoverlo.

Non si tratta di un esercizio retorico, ma della necessità di valutare con la giusta cautela quali e quanti carichi risarcitori porre sui responsabili civili, a fronte di danni non esattamente misurabili e di rischi spesso endemicamente correlati ad attività socialmente diffuse. E in questo contesto, la via delle convenzioni liquidative a matrice tabellare è stata perseguita - anche dal legislatore e soprattutto nel campo assicurativo - non tanto per trovare una misura davvero corretta ed equivalente al danno patito, ma, piuttosto, per ossequiare a quelle esigenze di certezza e prevedibilità in assenza delle quali un sistema di diritto rischia di deformarsi, seguendo traiettorie equitative eccessivamente zigzaganti.

Rimane comunque un fatto, sovente (incredibilmente) trascurato: la lezione che il nostro caro e vecchio codice civile ci ha fornito è incisa nell'art. 2059 c.c., a mente del quale il danno non patrimoniale si risarcisce solo nei casi previsti dalla legge. Quel tipo di risarcimento non è un assioma e neppure un dogma, e quel danno – non patrimoniale – laddove la legge non lo preveda, graverà e dovrà esser sopportato da chi lo ha subito. Lo slancio umanista ed antropocentrico con cui la giurisprudenza di legittimità ha, correttamente, letto la riserva di legge al filtro dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione non basta, a parere di chi scrive, ad annichilire del tutto la potestà del legislatore di decidere quando il danno non patrimoniale debba o, meglio, non debba esser risarcito, e così di assolvere in modo esplicito quella funzione selettiva che l'art. 2059 c.c. gli ha, dopo tutto, riservato.

Fatta questa digressione, ecco dunque che possiamo tornare al tema, soltanto apparentemente “più basso”, del colpo di frusta (inteso come trauma minore del collo) e, più in generale, delle microlesioni da incidente stradale. E a questo riguardo, ritorniamo sulla presa d'atto con cui il legislatore del 2012 ha finalmente deciso di intervenire per arginare l'assurda deriva dei risarcimenti facili dei “colli deboli”.

Ora, se i ragionamenti sin qui spesi valgono, in termini generali, per il danno non patrimoniale, dentro e fuori dal sistema della rc auto, non ci si può stupire se le particolari esigenze di sostenibilità dell'assicurazione obbligatoria automobilistica giustifichino scelte del tutto autonome e coerenti con quei particolari obiettivi solidali che dovrebbero avvicinare tutti i soggetti potenzialmente coinvolti nelle vicende della sinistrosità stradale. Chi oggi può essere un danneggiato domani potrebbe essere, con simile probabilità, un danneggiante/responsabile, stante la naturale frequenza degli incidenti della circolazione veicolare. E in quest'ottica introdurre regole risarcitorie contenitive costituisce scelta niente affatto capricciosa, tenuto conto vuoi dell'esigenza di tener sotto controllo i premi della rc auto, vuoi del vantaggio comunque accordato ai danneggiati dalla particolare disciplina dell'assicurazione obbligatoria automobilistica (in primis: l'azione diretta e la regola della non opponibilità delle eccezioni contrattuali).

È solo muovendo da tali premesse di metodo e di principio che può comprendersi il senso del binomio normativo degli artt. 138 e 139 cod.ass., tanto più a seguito della loro più recente riforma introdotta dalla Legge sulla concorrenza (n. 124) del 2017: si tratta di due disposizioni che, regolando il risarcimento del danno non patrimoniale da rc auto, attuano e stigmatizzano a chiare lettere quell'esigenza di messa in assetto di un sistema bilanciato, certo e, per usare un termine oggi abusato, sostenibile; un sistema in cui i valori da liquidarsi sono predeterminati e comunque fissati entro tetti massimi volti ad evitare che il potere equitativo del Giudice possa trasmodare in arbitrio, sull'onda emotiva indotta da ciascun personalissimo racconto sofferenziale. Questa regola contenitiva, già imbastita (almeno) sin dall'entrata in vigore del Codice delle Assicurazioni private, si è arricchita, nel 2012, attraverso un intervento (l'art. 32 commi 3-ter e 3-quater della legge 24 marzo 2012 n. 27) rivolto allo specifico settore delle lesioni di lievi entità e mirato, senza ombra di dubbio, ad arginare il fenomeno “pandemico” dei rachidi cervicali distorti. Ci riferiamo all'introduzione di un preciso limite alla risarcibilità delle menomazioni di grado inferiore al 9%, le quali – già allora – non avrebbero potuto dar luogo ad un risarcimento del danno biologico permanente qualora non derivanti da lesioni suscettibili di un accertamento clinico strumentale obiettivo. La peculiarità di un così drastico intervento normativo, evidentemente diretto a escludere proprio il risarcimento dei colpi di frusta minori (nella prassi accertati sulla sola base di una sintomatologia riferita), aveva, ovviamente, suscitato reazioni critiche severe; critiche talvolta mosse da interessi di bottega e tal'altra sostenute dall'affermazione della illegittimità costituzionale di una norma che finiva per teoricamente escludere il risarcimento di un danno potenzialmente esistente, per il solo fatto che non fosse strumentalmente accertabile. A superare tali dubbi di incostituzionalità ci pensò, prontamente, proprio la Consulta, con due pronunce (la sentenza 16 ottobre 2014, n. 235 e la successiva ordinanza 21 ottobre 2015, n. 242) con cui si affermava la piena legittimità della “prescrizione della (ulteriore e necessaria) diagnostica strumentale ai fini della ricollegabilità di un danno ‘permanente' alle microlesioni di che trattasi”. E così la Corte Costituzionale, sdoganando quel limite, lo giustificava pienamente in funzione del superiore bilanciamento di tutti gli interessi presidiati dalla normativa vincolante della rc auto. Certo, i due commi in questione (art. 32 comma 3-ter e 3-quater) non brillavano, quanto a fluidità del loro contenuto letterale, presentando faticosi problemi di raccordo interpretativo e sistematico. Per tale ragione il legislatore sentì l'esigenza di riscriverla, quella disposizione, in modo più rotondo, onde fugare ogni tentazione di rileggerla in modo teleologicamente scorretto. Fu dunque per chiudere il cerchio che vide la luce la legge n. 124/2017, che ha modificato l'art. 139 CAP, riscrivendone, tra l'altro, il secondo comma; comma che si chiude, ora, con la seguente frase: «In ogni caso, le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obiettivo, ovvero visivo, con riferimento alle lesioni, quali le cicatrici, oggettivamente riscontrabili senza l'ausilio di strumentazioni, non possono dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente». Come raramente accade, la norma qui ha addirittura fatto ricorso ad un esempio, per fugare il campo da ogni equivoco: per poter risarcire un danno alla persona di lieve entità (inferiore al 9%) da rc auto occorre che la lesione, da cui sia derivata la menomazione, sia o accertata strumentalmente oppure accertata visivamente in quanto di evidenza tale da essere apprezzabile “ad occhio nudo” (come la cicatrice, di per sé autoevidente, o la perdita di un dente o di una falange).

A questo punto la rinnovata chiarezza – razionale e letterale - dell'art. 139 del CAP non avrebbe dovuto lasciare spazio a dubbi interpretativi: solo l'evidenza strumentale della lesione (ovvero l'autoevidenza della stessa) avrebbe permesso una liquidazione del danno micro-permanente. D'altronde, molti Tribunali si sono fatti lineari interpreti di tale chiarezza, offrendo un'apprezzabile lettura dei contenuti semantici della legge escludendo, conseguentemente, la possibilità di risarcire danni micro-permanenti in mancanza di reperti strumentali idonei a provarne l'esistenza “oltre ogni ragionevole dubbio” [v. Trib. Bologna, 26 ottobre 2017, n. 2095 e Trib. Padova, 13 marzo 2018, n. 517].

Il ragionamento non sembra fare una grinza, e non si vede davvero cosa vi sia di strano nel fatto che il legislatore, nell'esercitare la riserva di legge attribuitagli dall'art. 2059 c.c., abbia ritenuto che nel settore della rc auto (e della rc sanitaria, dopo la c.d. “Legge Gelli” – l. 8 marzo 2017, n. 24) il danno non patrimoniale da menomazione permanente (in caso di lesioni di lieve entità) non sia risarcibile, se non al ricorrere di precisi requisiti di accertabilità (strumentale o inequivocabilmente visiva).

Chi, in dottrina, nonostante l'avallo della Consulta, ha voluto continuare a sostenere dubbi di legittimità costituzionale, ha ritenuto che una siffatta limitazione risarcitoria, diretta ad elidere i traumi minori del collo, sia stata formulata in modo tanto ampio da andare a colpire fenomeni di assai più larga portata e quindi ad escludere, potenzialmente e in modo inaccettabile, il risarcimento di danni diversi dal colpo di frusta e, rispetto a quello, assai più gravi. Si tratta, a parere di chi scrive, di una critica che inizia e finisce con le sue premesse, specie ove calata all'interno della fenomenologia della sinistrosità stradale. Quale danno, diverso e più grave dal/del colpo di frusta, potrebbe davvero non essere accertato strumentalmente o visivamente? Il pensiero va, immediatamente, al danno psichico. Fattispecie, tale ultima, che si fatica ad immaginare se non in associazione a lesioni fisiche di grave entità. O se proprio si volesse scandagliare tutto il caleidoscopio delle possibilità teoriche, potremmo pensare ad un incidente stradale che, per le sue modalità, abbia cagionato nel danneggiato uno shock psichico grave pur in assenza di un qualsiasi danno fisico strumentalmente accertabile. Fosse anche così, si tratterebbe di casi di tal residualità pratica da non poter esser di per sé bastevoli a mettere in crisi la scelta legislativa che, pur sempre condotta nell'ambito della citata riserva di cui all'art. 2059 c.c., ha espressamente contenuto il limite risarcitorio/accertativo al di sotto della soglia del 9%.

Insomma, la questione avrebbe potuto e dovuto finire qui, con la presa d'atto dell'unica interpretazione letterale e razionale possibile della norma di cui si discute. Interpretazione non inficiata da alcun baco costituzionale, come del resto ribadito, sia pure indirettamente, in termini recenti dalla Consulta, la quale ha nuovamente ricordato che il danno di lieve entità, per trovar spazio nella rc auto, deve vincere una prova di resistenza sancita nel superamento del limite espresso dal sintagma “incerta accertabilità”. Si tratta di un danno, dunque, che, pur potenzialmente tale, non troverebbe ristoro se non provato secondo un criterio che potremmo affermare essere quello di derivazione penalistica dell'“oltre ogni ragionevole dubbio”: «Quindi, attualmente, nell'art. 139 occorre distinguere tra lesioni micropermanenti di incerta accertabilità, il cui danno non patrimoniale non è risarcibile (come danno assicurato), e lesioni micropermanenti che invece sono ritenute – dal legislatore che ha novellato la disposizione – adeguatamente comprovate e quindi tali da escludere plausibilmente il rischio che siano simulate». (Cortecost.,18 aprile 2019, n. 98).

L'interpretazione abrogativa della Cassazione

L'adesione al dato letterale e semantico non pareva, dunque, poter essere oggetto di ulteriori ripensamenti.

Sembrava una conclusione ovvia e anche piuttosto scontata.

Ma si sa che talvolta una semplicità lineare crea sovente una simmetrica e contraria voglia di complicazione.

Questo è quanto avvenuto proprio nella materia che ci riguarda, rispetto alla quale – tra l'altro - la lettura più semplice crea impatti tutt'altro che trascurabili sull'”ecosistema” dell'infortunistica stradale.

Rimane il fatto che la Corte di Cassazione, con la nota pronuncia del 26 settembre 2016, n. 18773, ha in qualche misura fornito una (prima) interpretazione sostanzialmente abrogante dell'art. 139 CAP [così come correttamente rilevato da D. Spera, Il nuovo quesito medico legale all'esame dell'Osservatorio di Milano, in Ri.Da.Re.], affermando l'inesistenza di un criterio gerarchico tra i diversi tipi di accertamento e precisando di non potere o volere ascrivere alla diagnostica strumentale il valore di unica prova esigibile per l'oggettivazione della lesione (e per il risarcimento del danno permanente conseguentemente derivante dalla menomazione).

Tale orientamento è andato consolidandosi, presso la Terza sezione della Suprema Corte, in una serie di sentenze successive, del medesimo tenore. Da ricordare, in particolare, una coppia di pronunce (Cass.,sez. III civ., 18 aprile 2019, nn. 10816 e 10819) nelle quali la Cassazione afferma che l'art. 139, comma 2, CAP non subordinerebbe affatto il risarcimento dei postumi permanenti da lesioni di lievi entità al previo esperimento di un accertamento “strumentale” (radiografie, TAC, risonanze od altro…). Un tal vincolo probatorio – che pur parrebbe potersi agevolmente ricavare da una interpretazione letterale della norma – sconterebbe fondati dubbi di legittimità costituzionale.

Secondo Cass. civ., 18 aprile 2019,n. 10816, «l'accertamento medico non può essere imbrigliato” dalla necessità di un previo – positivo – esperimento di un accertamento diagnostico strumentale». E dunque secondo la Corte il legislatore, consapevole dei possibili margini di aggiramento della prova rigorosa delle lesioni di lieve entità, si sarebbe limitato ad “imporre una prova sicura”, nel nome di un rigore accertativo che può, ma non necessariamente deve, passare attraverso riscontri strumentali. A rinforzo di tale tesi è poi intervenuta una seconda coppia di sentenze (Cass. civ., 28 novembre 2019, n. 31072 e Cass. civ., 24 novembre 2019, n. 30731 – cons. rel. dott. Marco Rossetti) che hanno ricordato, in battuta, che lo scopo teleologico e finalistico della norma «fu (anche) quello di favorire l'abbassamento dei premi assicurativi nel settore dell'assicurazione r.c. auto, è coerente con tale fine interpretare l'art. 32 D.L. cit. nel senso che esso abbia inteso contrastare non solo le truffe assicurative, ma anche la semplice negligenza colposa, la benevola tolleranza o il superficiale lassismo nell'accertamento dei microdanni. Anche tali condotte, infatti, a livello macroeconomico non sono meno perniciose delle truffe assicurative, dal momento che identico ne è l'effetto, e fors'anche maggiore, ove si ammetta che il numero degli inetti ecceda quello dei disonesti» (Cass. civ., 28 novembre 2019, n. 31072).

Sennonché, tale esigenza di sistema sarebbe stata presidiata - secondo la Cassazione - ben prima degli interventi legislativi del 2012 e del 2017, sulla base di un principio «già insisto nel sistema, e cioè che il risarcimento di qualsiasi danno (e non solo di quello alla salute) presuppone che chi lo invochi ne dimostri l'esistenza «al di là di ogni ragionevole dubbio; e che per contro non è nemmeno pensabile che possa pretendersi il risarcimento di danni semplicemente ipotizzati, temuti, eventuali, ipotetici, possibili ma non probabili» (Cass. civ., 28 novembre 2019, n. 31072). E dunque ancora una volta, secondo la Cassazione, l'art. 139 CAP riformato non aggiungerebbe nulla di nuovo e non integrerebbe una norma di «tipo precettivo, ma una di quelle norme che la dottrina definisce "norme in senso lato" (cioè prive di comandi o divieti, ma funzionalmente connesse a comandi o divieti contenuti in altre norme)»(Cass. civ., 28 novembre 2019, n. 31072). In definitiva, gli accertamenti necessari per affermare l'esistenza del danno alla persona sarebbero quelli fissati da una secolare tradizione «e dunque l'esame obiettivo (criterio visivo); l'esame clinico gli esami strumentali», criteri questi fungibili e alternativi e non già cumulativi.

Ora, una tale lettura finisce coll'attribuire alla riforma del 2012, ed alla sua successiva rivisitazione del 2017, il sapore dell'ovvio o, meglio, dell'inutile. Come a dire: di quella norma non c'era alcun bisogno, essendo scontato che il danno possa essere risarcito “solo quando è certo”, senza che per questo si debba ritenere che quella certezza sia data sempre e soltanto dal riscontro positivo di un accertamento strumentale.

Afferma al riguardo la Corte che«Un corretto accertamento medico-legale, pertanto, potrebbe pervenire a negare l'esistenza d'un danno permanente alla salute (o della sua derivazione causale dal fatto illecito) anche in presenza di esami strumentali dall'esito positivo (come nel caso d'una frattura documentata radiologicamente, ma incompatibile con la dinamica dell'infortunio per come emersa dall'istruttoria); così come, all'opposto, ben potrebbe pervenire ad ammettere l'esistenza d'un danno permanente alla salute anche in assenza di esami strumentali, quando ricorrano indizi gravi, precisi e concordanti, ai sensi dell'art. 2729 c.c., dell'esistenza del danno e della sua genesi causale» (Cass. civ., 28 novembre 2019, n. 31072).

Ci pare che questa impostazione finisca per provare troppo, basandosi su ragionamenti logici spinti al limite della provocazione intellettuale. Come se la disciplina degli accertamenti dell'art. 139 CAP fosse figlia di un mero scrupolo raccomandativo privo di qualsiasi portata innovativa. Affermare dipoi che il danno micropermanente possa essere accertato sulla base di criteri presuntivi non pare in alcun modo allineato alla ratio certificatoria assoluta sottesa alla norma

Sarà anche vero. O forse no.

Anzi non lo è.

Ed anche la Corte di Cassazione in qualche modo se ne è avveduta, provando a “salvare capra e cavoli”.

Si trattava di un esercizio non facile e di fare un passo indietro, cercando però di salvaguardare il principio sotteso alla norma (volta ad espungere dal sistema risarcitorio i traumi minori del collo) senza rinnegare quanto affermato dalla Suprema Corte nei precedenti arresti.

E così già nel gennaio del 2018, con un autentico equilibrismo argomentativo, si era lanciata in considerazioni a metà strada tra valutazioni di merito e scienza del fatto notorio: il tutto per arrivare a dire che, ferma l'assenza in astratto di vincoli probatori ed accertativi, il caso del colpo di frusta avrebbe rappresentato, in concreto, l'esempio di una patologia non accertabile oggettivamente, se non attraverso riscontri strumentali. In assenza di quei riscontri, ottenibili soltanto laddove il trauma abbia assunto una certa significatività, la lesione, e la conseguente menomazione potrebbe essere soltanto ipotizzata, sulla base della sintomatologia riferita dal paziente. Si tratta, in qualche modo, di un esempio simmetrico ed opposto a quello della cicatrice, di cui l'art. 139 CAP parla apertis verbis come di un caso paradigmatico in cui l'eloquenza della lesione e del danno è tale da rendere del tutto superfluo l'accertamento strumentale.

Più precisamente, secondo la Cassazione, la necessità in fatto dell'accertamento strumentale emergerebbe«in modo palese nel caso in esame, nel quale si discuteva di una classica patologia da incidente stradale, cioè la lesione del rachide cervicale nota volgarmente come colpo di frusta. È evidente che il c.t.u. non può limitarsi, di fronte a simile patologia, a dichiararla accertata sulla base del dato puro e semplice - e in sostanza non verificabile - del dolore più o meno accentuato che il danneggiato riferisca; l'accertamento clinico strumentale sarà in simili casi, con ogni probabilità, lo strumento decisivo che consentirà al c.t.u., fermo restando il ruolo insostituibile della visita medico legale e dell'esperienza clinica dello specialista, di rassegnare al giudice una conclusione scientificamente documentata e giuridicamente ineccepibile, che è ciò che la legge attualmente richiede» (Cass. civ., 19 gennaio 2018, n. 1272, ma vedi anche Cass. civ., 26 novembre 2019, n. 30731).

Aggiustato così il tiro, e ripreso per la collottola il principio che governa la nuova disciplina dell'art. 139 CAP, la Suprema Corte finisce, in tempi recentissimi, per spingersi ancora più in là, affermando che l'accertamento strumentale, di regola non necessario, diventa invece indispensabile, e dunque condizione di risarcibilità, «ogniqualvolta si tratti [...] di una patologia difficilmente verificabile sulla base della sola visita medico-legale» (Cass. civ., 12 dicembre 2019, n. 32483).

Pertanto, l'art. 139 CAP novellato non è più (come aveva sempre sostenuto la Cassazione) norma programmatica (o in senso lato), ma diventa norma precettiva (e qui il disallineamento da Cass. civ., 28 novembre 2019, n. 31072 è netto): l'evidenza strumentale della lesione è normativamente necessaria nei casi in cui la patologia è difficilmente verificabile sulla base della sola visita medico-legale.

La norma impone quindi al giudice - per accertare l'esistenza di micro-danni - una ricognizione ulteriore (estranea al testo dell'art. 139 CAP ante 2012) e il thema decidendum dovrà pertanto riguardare le modalità mediante le quali il medico legale accerta la patologia. Se la lesione dovesse esser stata riscontrata sulla base del solo esame clinico sarà quindi ineludibile (ai fini dell'accertamento giudiziale dell'esistenza del danno) comprendere se lo stesso abbia effettivamente il crisma di una obiettività assoluta e irrefutabile. Il che, secondo la Corte di Cassazione, non sembra poter accadere proprio nello specifico caso della distorsione del rachide cervicale, caratterizzata da una soggettività superabile soltanto nei casi in cui la stessa raggiunga quel livello di serietà da consentirne l'intercettazione strumentale. In questo senso si legga il seguente, eloquente, passaggio della sentenza del 12 dicembre 2019: «lo stesso ricorrente riferisce di aver notificato atto di citazione in data 30 agosto 2012, quando cioè era già entrata in vigore la L. n. 27 del 2012, con la conseguenza che, anche alla luce della nuova normativa, sarebbe stato suo onere produrre esami diagnostici per immagini del rachide cervicale a sostegno della domanda risarcitoria proposta» (Cass. civ., 12 dicembre 2019, n. 32483).

Equilibrismi ermeneutici: verso il recupero dell'intento legislativo

Il tema di indagine in giudizio non sarà, quindi, il solo danno, ma dovrà anche riguardare la possibilità di accertamento certo di quel danno mediante la sola visita medico legale: il dubbio o la mera possibilità non potranno quindi essere risarciti.

La declinazione del principio lavorato dalla Cassazione -piuttosto semplice- permette una sintesi altrettanto efficace.

  • Le lesioni micro-permanenti potranno essere accertate con criteri medico-legali rigorosi e oggettivi.
  • L'esame clinico-strumentale obiettivo non è l'unico mezzo probatorio per l'emersione della lesione ma diventa l'unico mezzo probatorio che permette l'accertamento della microlesione se la specifica patologia (leggasi il colpo di frusta) non può essere verificata con certezza attraverso il solo esame clinico o visivo.

Il tutto, ovviamente, non equivale a dire che l'eventuale riscontro strumentale della lesione sia di per sé bastevole, dal momento che una lesione pur strumentalmente accertata potrebbe, in realtà, non essere etiologicamente compatibile con la dinamica del sinistro. Il richiamo poi svolto dalla Cassazione al fatto che la CTU non sia mezzo di prova in senso stretto «avendo questa la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi già acquisiti (e non di supplire a eventuali deficienze delle allegazioni delle parti)» (Cass. civ.,12 dicembre 2019, n. 32483) è quasi sorprendente nel tentativo di restaurare ovvi principi troppo spesso elusi per assecondare automatismi risarcitori.

Ora, la strada percorsa dalla Cassazione, quanto alla risarcibilità del colpo di frusta, ci pare davvero tortuosa.

Non volendo proprio accettare il (pur) chiaro contenuto precettivo della norma (e cioè che un danno fisico potenziale - di lieve entità - possa esser risarcito solo se accertato strumentalmente o se visivamente autoevidente), la Corte dapprima derubrica la disposizione, avvilendone il significato e relegandola al rango di semplice esortazione. Poi prova a recuperarne il senso, dicendo che in realtà quell'accertamento strumentale non è ma può diventare necessario proprio nel caso del colpo di frusta, rispetto al quale la scienza del fatto notorio le fa dire che soltanto una verifica strumentale potrebbe sgomberare il campo dai dubbi e consentire di ristorare, quale danno permanente, la relativa menomazione (in difetto potendo invece soltanto esser risarcito il danno temporaneo).

Se in concreto il discorso non fa una piega, è sul piano teorico che il ragionamento risulta troppo zigzagante.

Meglio sarebbe stato prendere atto del contenuto della norma, del suo avallo da parte della Consulta, nonché del fatto che la sua applicazione concreta non finirebbe per creare nessun autentico e intollerabile vuoto di tutela: ogni lesione, e conseguente menomazione, poggia normalmente su di un'evidenza visiva o comunque accertata od accertabile strumentalmente. Le ipotesi cliniche in cui ciò non accade risultano, nella traumatologia tipica della rc auto, talmente circoscritte e contenutisticamente insignificanti da giustificare la limitazione di legge (a dispetto della straordinaria numerosità delle relative richieste risarcitorie).

Non a caso, poi, un consimile percorso normativo si va sviluppando in Inghilterra nella nuova disciplina della responsabilità civile che prevede l'adozione di un sistema liquidatorio funzionale a contenere il risarcimento delle microlesioni. La riforma, allo stato osteggiata dalle associazioni di categoria, è una conseguenza dei maggiori pagamenti per infortuni gravi che le compagnie di assicurazioni devono affrontare come imposte dal governo che predilige nuovi criteri per la tutela dei macrolesi a discapito di lesioni di minore impatto e spesso facilmente mistificabili.

Conclusioni: il tema del “colpo di frusta”, sotto un diverso angolo visuale

A ben vedere, la non risarcibilità, a titolo di danno permanente, del trauma minore del collo può essere affermata – anche ove non si volesse ragionare sul contenuto precettivo dell'art. 139 CAP - per altra via, accedendo alle ultime impostazioni sostenute dalla giurisprudenza di legittimità in tema di danno non patrimoniale da lesione.

Lo spunto ci viene dato proprio dalla sentenza del Tribunale di Enna (sent. n. 498/2017) che ha dato origine al giudizio di Cassazione terminato con la sentenza del 12 dicembre 2019; in quella pronuncia il Tribunale, in veste di giudice d'appello, aveva comunque escluso la risarcibilità del danno (micro) permanente osservando che, a tutto voler concedere, «non si era verificato per effetto di tali lesioni alcuna limitazione funzionale a carico del collo e della spalla sinistra (e quindi alcun peggioramento della qualità di vita del danneggiato)».

Tale ricognizione aveva quindi indotto il Tribunale a escludere l'esistenza del danno, respingendo anche la necessità di disporre CTU essendo evidente che i pretesi pregiudizi fisici non avevano avuto riflessi sulla vita del preteso danneggiato. L'esistenza obiettiva di una lesione non basta infatti per ritenere esistenti postumi permanenti, posto che “danno” in senso giuridico non è la lesione del diritto, ma il pregiudizio che ne è derivato.

Ora, al di là della difficoltà di sezionare chirurgicamente e valorizzare in concreto le diverse componenti (morale e dinamico relazionale) che – asseritamente – integrerebbero il danno non patrimoniale (almeno secondo quanto scolpito nella celebre ordinanza “decalogo” – Cass. civ., 27 marzo 2018, n. 7513), dobbiamo prendere atto dell'orientamento seguito in modo costante dalla Suprema Corte nell'ultimo biennio. Ci riferiamo, in particolare, all'affermazione secondo la quale «se non avesse conseguenze "dinamico-relazionali", la lesione della salute non sarebbe nemmeno un danno medico-legalmente apprezzabile e giuridicamente risarcibile» (ancora una volta si veda ordinanza 7513/2018). Come a dire che il danno biologico, mentre potrebbe non dar luogo a sofferenze morali autonomamente valorizzabili, è intrinsecamente dinamico relazionale e, dunque, può esser risarcito se e solo in quanto si riverberi negativamente (in modo permanente o temporaneo, a seconda dei casi) sulla sfera dinamico relazionale del soggetto leso, compromettendo la sua sfera dell'essere, dell'apparire o dell'agire.

Ciò posto, risulta assai arduo ritenere che un trauma minore del collo, proprio perché minore, possa dar luogo a tali compromissioni in modo permanente. Mentre il disagio temporaneo non può essere, normalmente, negato (e non a caso non conosce alcun limite accertativo strumentale…), la prova di aver subito un'effettiva deminutio permanente per effetto di un colpo di frusta di modica entità pare davvero diabolica: in che termini e come, al di là delle soventi apodittiche cristallizzazioni medico legali, un soggetto che abbia subito una lieve distorsione del collo veda peggiorata stabilmente, e nel quotidiano, la qualità della propria vita è mistero che non ci sentiamo di accettare fidesiticamente. E che anzi l'esperienza induce a relegare nell'ambito dell'immaginifico.

E dunque, per tutti i traumi minori del collo, la prova dell'effettiva incidenza dinamico relazionale della menomazione (al di là del tema della necessità o meno degli accertamenti strumentali dell'effettiva sussistenza della stessa) potrà esser davvero lo spartiacque tra le lesioni che danno luogo ad un'effettiva invalidità permanente e quelle che, non incidendo in alcun modo sulla sfera dinamico relazionale del soggetto (che continua a comportarsi esattamente come prima dell'evento traumatico), siano valorizzabili solo in termini di inabilità temporanea.

Sempre che – naturalmente - non si decida di seguire le più semplici e chiare indicazioni normative e prendere atto, senza eccessivi avvitamenti interpretativi, del senso esplicito delle limitazioni dalle stesse introdotte.

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