L'assoluzione di Marco Cappato apre indiscriminatamente la strada alla liceità delle condotte di agevolazione associate a dinamiche suicidarie?

Lorenzo Cattelan
23 Gennaio 2020

Il diritto di morire, rifiutando i trattamenti sanitari, ha trovato cristallizzazione attraverso la legge n. 219 del 22 dicembre 2017, nel cui incipit sono esplicitamente richiamati i principi sanciti dagli artt. 2, 13, 32 Cost. nonché dagli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.
Massima

È priva di rilevanza penale la condotta di chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella trova intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Il caso

Fabio Antoniani, a seguito di incidente stradale occorso in data 13 giugno 2014, rimase tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (ossia, permanente). Pur conservando le facoltà intellettive, l'uomo – conosciuto alla cronaca con l'affettuoso appellativo di Dj Fabo – non era autonomo nella respirazione, nell'alimentazione e nell'evacuazione. Le sofferenze, peraltro accentuate da ricorrenti spasmi e contrazioni, non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Gli anni successivi alla sventura furono caratterizzati da plurimi ricoveri ospedalieri e dai relativi tentativi – rivelatisi infruttuosi – di riabilitazione, comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015. Preso atto dell'irreversibilità della sua condizione, nel 2016 l'Antoniani comunicò ai propri cari l'intenzione di porre fine alla propria esistenza. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal proposito suicidiario, a dimostrazione della irremovibilità della propria scelta, intraprese per alcuni giorni uno “sciopero” della fame e della parola.

Nel maggio 2016, tramite la fidanzata, Fabio Antoniani entrò in contatto con Marco Cappato, imputato nel giudizio in esame, il quale gli prospettò la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.

Di fronte alla ferma determinazione di recarsi in Svizzera per la pratica del suicidio assistito, il Cappato accettò di accompagnare il malato in auto presso la nota clinica elvetica denominata “Dignitas”. Così giunto in Svizzera, dopo aver attestato la piena capacità di intendere e di volere (peraltro manifestata all'opinione pubblica attraverso un appello al Presidente della Repubblica) e aver ottenuto il “benestare” al suicidio assistito, il 27 febbraio 2017, l'Antoniani, azionando con la bocca uno stantuffo, iniettò nelle sue vene il farmaco letale (pentobarbital di sodio).

Tornato in Italia, Marco Cappato si autodenunciò ai carabinieri di Milano per il reato di assistenza al suicidio.

A seguito della richiesta di archiviazione della Procura, il GIP del Tribunale ordinario di Milano adottò a carico dell'esponente dell'Associazione “Luca Coscioni” ordinanza di “imputazione coatta” (art. 409 c.p.p.) per il reato di cui all'art. 580 c.p., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di Fabio Antoniani, quanto per averne agevolato l'esecuzione.

A questo punto, Marco Cappato chiese il giudizio immediato, rinunciando all'udienza preliminare fissata per il 15 novembre 2017.

La Corte d'Assise di Milano, con la decisione in esame, ha escluso anzitutto la prima ipotesi accusatoria, assunto che le risultanze dell'istruzione dibattimentale non lasciano dubbi nell'assumere che l'Antoniani abbia maturato la decisione di rivolgersi all'associazione svizzera prima e indipendentemente dall'intervento di Cappato.

Per quanto riguarda la condotta di accompagnamento in auto presso la struttura elvetica, invece, la Corte, ritenendo che in base al diritto vivente (Cass. pen., Sez. I, 6 febbraio 1998 (dep. 12 marzo 1998), n. 3147) la stessa integri la fattispecie dell'aiuto al suicidio, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 580 c.p. per violazione degli artt. 2, 13, comma 1, 32 Cost. nonché dell' art. 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 CEDU.

Lo scorso 23 ottobre 2018 la Corte Costituzionale (ordinanza n. 217 del 2018), conscia del suo ruolo e nella consapevolezza che l'eventualità di una pronuncia di accoglimento potesse comportare, ben al di là della mera dichiarazione di incostituzionalità della norma impugnata, un notevole impatto nel sistema ordinamentale, ha prudenzialmente rinviato la decisione (di quasi un anno) per dare tempo al Parlamento di intervenire.

Com'è noto, il legislatore ha mancato di esercitare le sue prerogative costituzionali. Pertanto, la decisione della Corte d'Assise di Milano si è basata sulle motivazioni rese nella sentenza n. 242 pronunciata dalla Consulta lo scorso 25 settembre 2019.

La questione

Il diritto di morire, rifiutando i trattamenti sanitari, ha trovato cristallizzazione attraverso la legge n. 219 del 22 dicembre 2017, nel cui incipit sono esplicitamente richiamati i principi sanciti dagli artt. 2, 13, 32 Cost. nonché dagli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea.

Recependo gli arresti giurisprudenziali dei noti casi Welby (Tribunale di Roma, sent. 17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748) e valorizzando il principio costituzionale del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico, la richiamata normativa – atecnicamente conosciuta con il nome di “legge sul testamento biologico” – ha introdotto, tra le altre novità, la possibilità per ciascun individuo di disporre anticipatamente in ordine alle cure a cui essere sottoposto, così come il diritto del paziente di rifiutare l'idratazione o l'alimentazione artificiale, nonché la facoltà per il malato affetto da “sofferenze refrattarie alle cure” di porre fine alla propria esistenza ricorrendo alla sedazione profonda.

Nonostante le descritte aperture politiche, tuttavia, il legislatore ha ritenuto di non rimodulare la fattispecie penale che incrimina le condotte di aiuto al suicidio.

La prima questione su cui la Corte d'Assise di Milano – sollecitando, in ciò, la Corte Costituzionale – è stata chiamata ad interrogarsi riguarda il perimetro applicativo dell'art. 580 c.p., assunto che la norma incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del suicidio.

In questo senso, la disposizione richiamata violerebbe gli artt. 2 e 13, comma 1, Cost. i quali, sancendo il “principio personalistico” (secondo cui è l'uomo, e non lo Stato, al centro della vita sociale) e quello di inviolabilità della libertà personale, riconoscerebbero la libertà dell'individuo di autodeterminarsi anche in relazione al momento finale della propria esistenza.

Peraltro, la medesima norma colliderebbe anche con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione EDU, assunto che i medesimi, nel salvaguardare il diritto alla vita e al rispetto della vita privata, determinerebbero – secondo l'interpretazione dei giudici di Strasburgo – il riconoscimento al singolo individuo del diritto di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà, dal momento che l'intervento repressivo degli Stati in questo campo può avere soltanto la finalità di evitare rischi di indebita influenza nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili.

In secondo luogo, sotto il profilo del trattamento sanzionatorio, ci si interroga sulla compatibilità con la Costituzione dell'art. 580 c.p. nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell'esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione.

Da questo punto di vista, l'art. 580 c.p. contrasterebbe con l'art. 3 Cost., essendo le condotte di istigazione al suicidio causalmente più gravi rispetto a quelle di chi abbia semplicemente contribuito alla realizzazione dell'altrui autonoma determinazione di morire, e apparendo del tutto diverse, nei due casi, la volontà e la personalità dell'agente.

Sarebbero violati, inoltre, gli art. 13, 25, comma 2, e 27, comma 3, Cost., in forza dei quali la libertà dell'individuo può essere compressa solo in presenza di un'inevitabile lesione di altro bene giuridico di rango primario; la sanzione, inoltre, richiede di essere proporzionata alla lesione provocata, così da prevenire la violazione e provvedere alla rieducazione del reo.

Le soluzioni giuridiche

Il nodo centrale della decisione assunta dalla Corte d'Assise – maturato a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 242 del 2019 – attiene, in modo specifico ed esclusivo, all'aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017.

In questo senso, la Corte ha sottolineato la necessità di una rilettura costituzionalmente orientata dell'art. 580 c.p. assunto che inizialmente l'atto suicidiario era espressione di una condotta carica di disvalore, dal momento che si poneva in contrasto sia coi principi di sacralità e di indispensabilità della vita sia con i doveri di socialità propri di ciascun individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista.

In realtà, alla luce del principio personalistico (art. 2 Cost., nonché artt. 2 e 8 della CEDU) – che pone l'uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – e di quello di inviolabilità della libertà personale (art. 13 Cost.) la vita non può più essere concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare (affermazione da cui deriva, dunque, il corollario relativo alla libertà della persona di scegliere quando e come porre fine alla propria esistenza).

Già nell'ordinanza di rimessione della questione di legittimità costituzionale, la Corte d'Assise di Milano ha osservato che il diritto all'autodeterminazione individuale anche con riferimento ai trattamenti terapeutici, sancito dall'art. 32 Cost. e valorizzato dalla giurisprudenza sin dai casi Welby ed Englaro, successivamente disciplinato ad opera della legge 22 dicembre 2017, n. 129, presuppone quale oggetto di tutela da parte dello Stato la dignità nella fase finale della vita.

Si è passati da un concetto di sacralità dell'esistenza, dunque, alla tutela della fragilità dell'esistenza umana.

Affrescata la panoramica del contesto normativo di riferimento, la soluzione offerta dai giudici milanesi – e, prima ancora, da quelli di Piazza del Quirinale – riposa nello specificare le modalità di verifica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l'aiuto.

Per fare ciò, il passaggio argomentativo prescelto è costituto dal richiamo all'art. 1, comma 5, della legge n. 219 del 2017, il quale riconosce il diritto all'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in corso alla persona capace di agire e stabilisce che la relativa richiesta debba essere espressa nelle forme previste dal precedente comma 4 per il consenso informato. La manifestazione di volontà deve essere, dunque, acquisita nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente e documentata in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare, per poi essere inserita nella cartella clinica. Peraltro deve ritenersi che l'interessato, conservando il dominio sull'atto finale che innesca il processo letale, abbia la possibilità di modificare la propria volontà. Lo stesso art. 1, comma 5, prevede, altresì, che il medico debba prospettare al paziente le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, promovendo ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ulteriori presupposti cumulativamente indispensabili ai fini della liceità della condotta agevolatoria dell'altrui proposito suicidiario sono rappresentati dal carattere irreversibile della patologia del paziente, dalla gravità della sua sofferenza fisica o psicologica nonché dalla dipendenza del malato da trattamenti di sostegno vitale, verificabili attraverso un riscontro dalla cartella clinica.

A definire i contorni dell'affrescata soluzione giuridica, viene stabilito che – in analogia col decisum dalla Corte Costituzionale di cui alle sentenze n. 229 e n. 96 del 2015 e in attesa dell'auspicato intervento del legislatore – la verifica delle condizioni che rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare affidata a strutture del servizio sanitario nazionale. In quest'ottica, a queste ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze.

Da ultimo, preso atto dell'importante ruolo assunto oggigiorno dai comitati etici (organismi terzi rispetto al SSN che rappresentano un punto di riferimento in ordine alle questioni eticamente orientate), la Consulta ha affidato a tali collegi il compito di predisporre – rispetto ai fatti che dovessero accadere successivamente alla data di pubblicazione della sentenza n. 242 del 2019 – adeguati e motivati pareri, funzionali a rappresentare un meccanismo di tutela in ordine alle delicate situazioni in esame, da proporre tempestivamente alla struttura del SSN.

Riassuntivamente, le condizioni che consentono la non punibilità di chi agevola l'altrui condotta suicida sono le seguenti:

  • il proposito suicidiario deve essersi formato liberamente e autonomamente;
  • il suicida deve essere persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili;
  • il malato deve essere pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli;

le descritte condizioni, nonché le modalità di esecuzione, devono essere verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Osservazioni

La pronuncia in esame incide in maniera particolarmente significativa nel panorama giuridico-fenomenico di coloro che si trovano a dover convivere con una sofferenza talmente insopportabile da decidere di porre fine alla propria esistenza, e di quanti li accompagnano e sostengono nelle loro delicate decisioni.

Da un'analisi ad ampio spettro del contesto ordinamentale italiano (ante sentenza della Corte Costituzionale del 22 settembre 2019) e dei Paesi a tendenza c.d. impositiva (quali, ad esempio, gli Stati Uniti d'America e il Regno Unito), emerge come le ragioni che sostenevano l'opportunità di un'indiscriminata punizione delle condotte di agevolazione al suicidio corrispondevano ad un triplice ordine di considerazioni: a) l'indisponibilità del bene vita; b) il ruolo del medico diretto a ripristinare la salute, e mai a favorire la morte; c) rischio non accettato di commissione di abusi.

A ben vedere, l'art. 580 del nostro codice penale sanziona tre diverse condotte: quella di determinazione di altri al suicidio, quella di rafforzamento dell'altrui proposito e quella di agevolazione in qualsiasi modo (espressione dichiarata incostituzionale) dell'esecuzione dello stesso.

Peraltro, la giurisprudenza della Cassazione, in passato (Cass. pen., Sez. I, 6 febbraio 1998 (dep. 12 marzo 1998), n. 3147), contrariamente alla soluzione giuridica offerta dall'odierna sentenza, aveva precisato che le condotte suesposte erano previste in via alternativa e che, in aggiunta, integrava la nozione di aiuto penalmente rilevante ogni tipo di contributo materiale all'attuazione del progetto della vittima (fornire i mezzi, offrire informazioni sul loro uso, rimuovere ostacoli o difficoltà che si frappongono alla realizzazione del proposito, ovvero anche omettere di intervenire, qualora si abbia l'obbligo giuridico di impedire l'evento), con ciò contravvenendo anche ad un'interpretazione in precedenza assunta dalla Corte d'Assise di Messina (Corte d'Assise di Messina, 10 giugno 1997, in Giur. mer., 1998, 731).

In ogni caso, l'illegittimità di una simile lettura era già stata palesata dai giudici di merito (Trib. Vicenza, 14 ottobre 2015 (dep. 2 marzo 2016), g.u.p. Gerace, imp. A. T. e Corte d'Appello di Venezia, 10 maggio 2017, n. 9), i quali si sono dimostrati convincenti nell'affermare che la condotta di agevolazione punibile può essere costituita esclusivamente da una condizione di facilitazione del momento esecutivo stesso.

In questo senso, la condotta di Marco Cappato costituisce un concorso nell'aiuto al suicidio (rectius, un concorso nel concorso), di fatto posto in essere dal medico e dagli operatori della clinica svizzera “Dignitas”, che in quanto tale non merita – alla luce della condivisa interpretazione del principio di offensività – una considerazione dal punto di vista penale.

Più approfonditamente, v'è da sottolineare che a seguito dell'introduzione della legge n. 219 del 2017 (la quale recepisce i moniti unanimi della precedente giurisprudenza) e della valorizzazione del dettato di cui all'art. 32, comma 2, Cost., è pacificamente consentita la pratica della c.d. eutanasia passiva (che implica la scelta di porre fine alla propria vita mediante la rinuncia ai supporti terapeutici artificiali che consentono di prolungarla oltre il momento in cui essa, naturalmente, avrebbe fine).

Tuttavia, in alcune situazioni come in quella del caso portato all'attenzione della Corte d'Assise di Milano, la scelta di rinunciare alle cure prospetta, per il malato e per i suoi cari, il protrarsi più o meno prolungato di una dolorosa agonia; dunque, il divieto posto dall'art. 580 c.p. pone questi soggetti in una situazione giuridica paradossale: esporre a responsabilità penale chiunque decida di aiutarli a porre fine alla loro vita o continuare un'esistenza indecorosa nell'attesa di una morte che di “naturale” non conserva più alcunché. È proprio in questi termini che la richiamata lettura restrittiva adottata dalla Cassazione nel 1998 si pone in contrasto con l'art. 3 Cost. – ai sensi del quale lo Stato dovrebbe adoperarsi attivamente per rimuovere gli ostacoli che limitano la libertà e l'eguaglianza dei cittadini – dal momento che perpetra una discriminazione grave, distinguendo dal punto di vista giuridico situazioni che presentano tratti sostanziali profondamente simili. È evidente, infatti, che il malato che scelga di rinunciare alle cure in un momento in cui da tale rinuncia derivi la morte immediata, non compie tale scelta a tutela dell'inviolabilità del suo corpo, bensì con il preciso scopo di togliersi la vita (scelta compatibile con la vigente normativa impropriamente definita legge sul testamento biologico). Al contrario, al malato che per sorte venga a trovarsi in una situazione ugualmente dolorosa e senza speranza, ma cui non sia concesso il privilegio di una morte rapida senza l'aiuto di una sostanza letale, tale scelta è completamente preclusa per effetto dell'art. 580 c.p., che finisce così per realizzare una discriminazione contraria al principio di uguaglianza.

Dal punto di vista sovranazionale, la Corte d'Assise di Milano si è confrontata con un tema affrontato anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, rilevante ai sensi degli artt. 2 e 8 CEDU, richiamati dall'art. 117 Cost.

Più approfonditamente, nella ormai risalente sentenza Pretty (Corte EDU, sez. V, 29 aprile 2002, Pretty c. Regno Unito), la Corte EDU ha dichiarato che il diritto alla vita, tutelato dall'art. 2 CEDU, non comprende necessariamente anche il diritto di morire a maggior ragione in quei casi in cui il desiderio di morte provenga da soggetti vulnerabili, passibili di essere esposti a pressioni da parte dei soggetti che ne curano gli interessi.

Tale conclusione è stata tuttavia superata per effetto della successiva (e, dunque, attuale) giurisprudenza della medesima Corte EDU in materia di fine-vita, dal momento che si ritiene che i meccanismi procedurali predisposti a sostegno dei “soggetti deboli” contro il rischio di abusi siano adeguati allo scopo, non essendo dunque necessario un divieto generalizzato di qualsiasi pratica di tipo in senso lato eutanasico (così: Corte EDU, sez. I, 20 gennaio 2011, Haas c. Svizzera; Corte EDU, sez. V, 19 luglio 2012, Koch c. Germania; Corte EDU, Grande Camera, 30 settembre 2014, Gross c. Svizzera; Corte EDU, Grande Camera, 5 giugno 2015, Lambert e altri c. Francia). Dunque, le statuizioni adottate nel caso Pretty appaiono da questo punto di vista superate: se la medesima ratio di tutela dei soggetti più deboli dal rischio di abusi può essere realizzata con una minore compressione del diritto all'autodeterminazione di ciascuno, allora la normativa che realizza una compressione maggiore di tale diritto diviene in re ipsa discriminatoria, o comunque irrazionale - in violazione degli artt. 3 e 117 Cost. e 14 CEDU.

In conclusione, pare doveroso osservare che la decisione de qua abbia adottato una lettura dell'art. 3 CEDU (divieto di trattamenti inumani e degradanti) che, in combinato disposto con l'art. 32, comma 2, Cost. nonché con l'art. 1 legge n. 219 del 2019, implica l'obbligo degli Stati di garantire e rispettare la dignità della persona umana anche – e soprattutto – in contesti di fragilità e di sofferenza.

Nell'inerzia del legislatore, i giudici milanesi hanno così preso atto della necessità di assicurare l'opportuna coerenza tra il bene giuridico tutelato (l'incolumità dei soggetti deboli) e i diritti sacrificati a tale scopo (tra cui, appunto, la dignità umana).

L'abrogato divieto assoluto di aiutare chi si trovasse in situazioni indegne si trasformava, in sostanza, in un indebito obbligo di vivere; ciò, a fortiori, quando le condizioni di vita del malato si fossero rilevate talmente precarie da rappresentare una di violazione della dignità stessa.

Il vuoto di tutela colmato dal potere giudiziario attende, ora, di essere interiorizzato dal legislatore in attesa di una revisione organica dell'art. 580 c.p. capace di adattarsi alla odierna società e ai nuovi approdi delle scienze psichiatriche.

L'atteggiamento del Parlamento, insomma, dovrebbe recuperare lo spirito raccolto nella frase Homo sum, humani nihil a me alienum puto di terenziana memoria.

Guida all'approfondimento

C. CASONATO, I limiti all'autodeterminazione individuale al termine dell'esistenza: i profili critici, in Dir. pubbl. comp. ed eur., n. 1/2018.

G. M. FLICK, Dignità del vivere e dignità del morire. Un (cauto) passo avanti, in Cass. pen., n. 7/2018, 2302 ss.

G. DE MARZO, Aiuto al suicidio e tutela della vita tra doveri di solidarietà e diritti di libertà, in Ilpenalista.it, 2 marzo 2018.

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