La tassabilità come redditi finanziari dei proventi di strumenti partecipativi similari alle azioni detenuti da manager
28 Gennaio 2020
Premessa
Con la risposta ad interpello n. 472 del 2019, l'Agenzia delle Entrata si è occupata del trattamento fiscale dei proventi rivenienti da strumenti finanziari di partecipazione (SFP) dotati di diritti patrimoniali rafforzati ai sensi dell'art. 60 del d.l. 24 aprile 2017, n. 50. In particolare, un dipendente di una stabile organizzazione italiana di una società di diritto lussemburghese, operante nel settore del private equity, ha chiesto la corretta disciplina tributaria dei proventi rivenienti da strumenti partecipativi di natura finanziaria dotati di diritti patrimoniali rafforzati, che l'istante detiene, per il tramite di un veicolo tedesco, in un veicolo lussemburghese, che a sua volta detiene le Quote Speciali di un fondo di investimento. Il quesito è stato posto per verificare se i proventi derivanti dalla detenzione e dalla cessione di tali titoli possono essere considerati, rispettivamente, redditi di capitale e redditi diversi, e, quindi non appartenenti alla categoria del reddito di lavoro dipendente. Il dubbio è sorto, in quanto, non detenendo l'istante più dell'1% delle quote del fondo, non sarebbe rispettata una delle condizioni richieste dalla speciale normativa di cui all'art 60 sopra citato. Prima, però, di procedere all'esame della risposta dell'Agenzia delle Entrate, è opportuno soffermarsi sulla normativa oggetto dell'interpello. La normativa di riferimento
L'art. 60 del D.L. 24 aprile 2017, n. 50 (convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96) ha disciplinato la qualificazione reddituale dei proventi percepiti da dipendenti (o assimilati) e amministratori in forza del possesso di azioni, quote, o altri strumenti finanziari partecipativi nelle società in cui tali soggetti hanno un legame lavorativo. In particolare, tale disposizione stabilisce che: "I proventi derivanti dalla partecipazione, diretta o indiretta, a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio, percepiti da dipendenti ed amministratori di tali società, enti od organismi di investimento collettivo del risparmio ovvero di soggetti ad essi legati da un rapporto diretto o indiretto di controllo o gestione, se relativi ad azioni, quote o altri strumenti finanziari aventi diritti patrimoniali rafforzati", si considerano, al ricorrere di determinati requisiti, "in ogni caso redditi di capitale o redditi diversi". La presunzione in questione, operante ope legis, è applicabile in presenza delle seguenti condizioni individuate dall'art. 60, comma 1, lettere a), b) e c), del citato d.l. n. 50 e, in particolare, se: - l'investimento complessivo (dei beneficiari degli strumenti “speciali”) raggiunge la soglia minima dell'1%; - il rendimento è “postergato” rispetto al rimborso del capitale investito dagli altri investitori e all'ottenimento da parte di questi di un profitto predefinito; - viene rispettato un “holding period” di 5 anni. Come sottolineato da autorevole dottrina (cfr. Circolare Assonime 25 luglio 2017, n. 18, par. 3.), l'introduzione di tale normativa è stata necessaria in quanto alcuni precedenti interventi dell'Agenzia delle entrate avevano fatto sorgere il dubbio che tali remunerazioni maggiorate potessero costituire, anziché redditi di capitale o redditi diversi derivanti dalla posizione di investitore, una remunerazione per l'attività lavorativa prestata. In specie, in uno di questi interventi l'Agenzia delle entrate aveva precisato che l'assegnazione non proporzionale di azioni di una società, effettuata a vantaggio dei propri manager configurerebbe per tali soggetti un reddito di lavoro dipendente relativamente alla quota non proporzionale delle partecipazioni ricevute, ed un reddito di capitale con riferimento ad eventuali proventi (dividendi e plusvalenze) eventualmente incassati successivamente (cfr. Risoluzione 4 dicembre 2012, n. 103/E). In tale intervento non era stato chiarito se una siffatta qualificazione reddituale dei componenti finanziari fosse subordinata o meno all'esistenza di un rapporto di lavoro. Con la novella normativa, limitatamente ai casi in cui vengano rispettati i requisiti ivi previsti dell'investimento, è stato chiarito tale dubbio: nella Relazione Illustrativa a tale decreto, infatti, si ribadisce che l'Amministrazione finanziaria aveva già chiarito che tali proventi si configurano quali redditi di capitale quando la partecipazione agli utili non è subordinata all'esistenza del rapporto di lavoro, dal momento che il beneficiario potrebbe continuare a mantenere il possesso della partecipazione anche in caso di cessazione del rapporto stesso.
Il regime tributario dei dividendi
Come rilevato dal soggetto istante, si pone la questione di quale trattamento tributario prevedere nel caso in cui non siano rispettate tutte e tre le condizioni previste dalla norma. Infatti, qualificare tali proventi come redditi di lavoro o come redditi finanziari ha delle conseguenze importanti: i redditi di lavoro dipendente concorrono a formare il reddito complessivo da assoggettare ad IRPEF con aliquote progressive, mentre gli altri redditi scontano generalmente una tassazione più bassa. Si ricorda che il regime tributario dei dividendi è stato riformato dalla Legge di Bilancio 2018 che ha equiparato la tassazione sulle persone fisiche non in regime di impresa che detengono partecipazioni qualificate o non qualificate con tassazione ad aliquota fissa 26% dal 2018. Per gli utili formati fino al periodo d'imposta 2017, è previsto un regime transitorio, che riguarda le distribuzioni di utili deliberate dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2022 e si può così riassumere:
Relativamente alla cessione delle partecipazioni, invece, a partire dai redditi diversi realizzati dal 1° gennaio 2019, le plusvalenze relative a partecipazioni qualificate scontano l'imposta sostitutiva del 26%, così come quelle non qualificate. Per usufruire la suddetta tassazione applicata ai redditi di natura finanziaria, l'Agenzia delle Entrate, con la Circolare 16 ottobre 2017, n. 25, ha precisato che la carenza di uno o più presupposti stabiliti dalla norma in esame non determina, di per sé, l'automatica qualificazione dei proventi come redditi collegati alla prestazione lavorativa, ma richiede lo svolgimento di un'analisi volta a verificare, caso per caso, l'idoneità dell'investimento a determinare quell'allineamento degli interessi e dei rischi dei manager e degli altri quotisti che consente di attribuire alle somme in argomento la suddetta natura. Un criterio rilevante di valutazione è sicuramente l'idoneità dell'investimento, anche in termini di ammontare, a garantire l'allineamento di interessi tra investitori e management e la correlata esposizione al rischio di perdita del capitale investito che contraddistingue l'investimento del management. Anche l'eventuale detenzione di strumenti finanziari aventi le medesime caratteristiche da parte degli altri soci (al pari del management) può essere un indicatore della natura finanziaria del reddito in questione nella misura in cui riflette la remunerazione del rischio di perdita assunto con l'investimento. Al contrario, qualora l'assegnazione dei proventi viene rimessa nell'an e nel quantum a determinazioni discrezionali dell'assemblea, divenendo totalmente indipendente dal risultato di esercizio e, perciò, senza di condivisione del rischio di impresa da parte del soggetto percettore, il quale potrebbe, al limite, ricevere il provento anche se la società non ha conseguito un utile di esercizio, il relativi proventi dovrebbero qualificarsi quali redditi di lavoro e, di conseguenza, concorrere alla formazione della base imponibile del soggetto percettore nel periodo in cui sono percepiti. Infatti, come rilevato da autorevole dottrina (Assonime nel caso n. 6/2014), in questi casi i proventi dovrebbero soggiacere al generale principio di onnicomprensività del reddito di lavoro dipendente stabilito dall'art. 51 del TUIR.
In conclusione
Con la risposta 472 in esame, l'Agenzia delle Entrate, rifacendosi a quanto precisato dalla Circolare 25 del 2017, ha confermato che, anche se non sono rispettati tutti i requisiti richiesti dalla normativa di cui sopra, è possibile per il soggetto percettore usufruire del regime dei redditi finanziari. Per giungere a tale conclusione, l'Ufficio ha fornito importanti chiarimenti. In particolare, viene specificato che, l'eventuale detenzione di strumenti finanziari, aventi le medesime caratteristiche da parte degli altri soci (al pari del management), può essere un indicatore della natura finanziaria del reddito in questione. Nel caso esaminato viene ritenuta rilevante la circostanza che le quote speciali emesse dal Fondo lussemburghese sono state offerte in sottoscrizione anche a soggetti esterni e non esclusivamente al Management Team, a cui appartiene il soggetto istante. Pertanto, il fatto che sono stati attribuiti diritti patrimoniali rafforzati anche a investitori estranei al Management Team, come chiarito dalla citata circolare del 2017, costituisce elemento atto a escludere un collegamento tra detenzione di quote e prestazione lavorativa. Un ulteriore rilevante criterio di valutazione viene individuato nella idoneità dell'investimento, anche in termini di ammontare, a garantire l'allineamento di interessi tra investitori e management e la conseguente esposizione di quest'ultimo al rischio di perdita del capitale investito. Infatti, viene chiarito che, se tale caratteristica può costituire un indice della natura finanziaria del provento, pattuizioni che incidano in senso negativo sulla posizione di rischio del manager fino a neutralizzarla del tutto (si pensi a clausole che garantiscano al dipendente la restituzione integrale, in ogni caso, del capitale investito) mal si conciliano con la qualificazione dello stesso come reddito di capitale o diverso. Nel caso esaminato, è stata constatata l'assenza di clausole finalizzate a garantire ai membri del Management Team la restituzione integrale del capitale investito. Infine, la risposta in esame precisa che l'eventuale presenza di clausole di c.d. “leavership”, le quali condizionano la distribuzione dei proventi all'esistenza del rapporto di lavoro (assicurando, ad esempio, al datore di lavoro un diritto di riscatto al venir meno del rapporto lavorativo), può costituire in astratto un elemento suscettibile di attrarre nella relativa categoria del reddito di lavoro detti emolumenti. Nella fattispecie esaminata, è stata verificata la mancanza di correlazione diretta degli strumenti finanziari de quibus con lo status di manager, tenuto conto che al manager uscente è comunque assicurato il mantenimento di parte delle Quote Speciali anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro, con esclusione delle sole ipotesi di risoluzione del rapporto per dolo o colpa grave (c.d. “bad leavership”). In particolare, fatta eccezione per le clausole di “bad leavership” (in cui non è garantita al manager la titolarità degli strumenti partecipativi per esigenze di protezione dell'investimento), in tutti gli altri casi, anche ove la risoluzione del rapporto avvenga nei primi tre anni di investimento, la risoluzione del rapporto di lavoro non comporta la perdita della titolarità delle Quote Speciali. In detta ipotesi, come evidenziato nella risposta, è, infatti, prevista soltanto una riduzione o forfetizzazione dei diritti economici, ma non la perdita della titolarità delle quote sottoscritte. |