Il consenso dei lavoratori può scriminare la videosorveglianza non autorizzata?

Ferdinando Brizzi
03 Febbraio 2020

La sentenza che si commenta ribadisce un costante, e risalente, indirizzo di ferma tutela accordata alla parte debole del rapporto contrattuale di lavoro, il lavoratore: già in passato, ad es., si era affermato che il lavoratore subordinato non può validamente prestare il proprio consenso alla violazione degli obblighi legali...
Massima

In caso di installazione all'interno di un'azienda di telecamere di un impianto di videosorveglianza in grado di controllare i lavoratori nell'atto di espletare le loro mansioni, in assenza di un preventivo accordo sindacale ovvero della autorizzazione della sede locale dell'Ispettorato nazionale del lavoro, il consenso o l'acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente: in tal caso, l'interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell'avente diritto, non essendo la condotta del lavoratore riconducibile al paradigma generale dell'esercizio di un diritto, trattandosi della disposizione di una posizione soggettiva a lui non spettante in termini di esclusività.

Il caso

La massima può essere desunta dal testo della sentenza n. 50919, Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 15 luglio 2019) 17 dicembre 2019, che ha visto i giudici di legittimità impegnati, in primo luogo, ad emendare la contestazione formale mossa al prevenuto conformandola a quello che è il corretto quadro normativo di riferimento.

Il Tribunale di Milano, con sentenza del 14 gennaio 2019, condannava l'imputato avendolo riconosciuto responsabile della violazione del d.lgs. n. 196 del 2006, artt. 114 e 171 (recte: 2003) e della l. n. 300 del 1970, art. 4, comma 2 (recte: comma 1) e art. 38 per avere installato all'interno della propria azienda n. 16 telecamere di un impianto di videosorveglianza – al dichiarato scopo di controllare l'accesso al locale e fungere da deterrente per eventi criminosi, ma – in grado di controllare i lavoratori nell'atto di espletare le loro mansioni, in assenza di un preventivo accordo sindacale ovvero dell'autorizzazione della sede locale dell'Ispettorato nazionale del lavoro.

Il Tribunale, nell'affermare la responsabilità del prevenuto, ha rilevato che questi, sebbene avesse rimosso l'impianto in questione una volta che la sua istallazione gli era stata contestata, non aveva provveduto al pagamento della somma determinata a titolo di oblazione amministrativa, ritenendo che il fatto da lui compiuto non fosse penalmente rilevante.

Ha, altresì, considerato che il prevenuto aveva chiesto agli organi periferici dell'Ispettorato competente il rilascio dell'autorizzazione, ma, prima del suo conseguimento, aveva installato i predetti apparecchi.

Ad avviso del Tribunale, a nulla, poteva valere la circostanza che l'imputato avesse depositato una liberatoria sottoscritta da tutti i propri dipendenti, e precedentemente inviata al detto Ispettorato, posto che il documento in questione non solo era stato formato successivamente alla materiale realizzazione della condotta a lui ascritta ed alla constatazione della sua esistenza, ma, in ogni caso, alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione, esso non poteva fungere da sostituto o della esistenza dell'accordo sindacale ovvero dell'autorizzazione rilasciata dall'organo pubblico.

La questione

Avverso la predetta sentenza interponeva ricorso in appello il prevenuto, lamentandone la manifesta illogicità della motivazione: il Tribunale non aveva considerato il tipo di attività svolta dall'imputato, gestione di un locale pubblico, tale da giustificare, nello stesso interesse delle maestranze, una forma di controllo volto ad evitare il verificarsi di possibili eventi avversi all'interno del locale in questione.

Inoltre, osservava l'appellante, egli non aveva personalmente accesso al contenuto delle videoriprese, essendo l'impianto attraverso il quale esse venivano effettuate gestito da un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro.

Peraltro, e si tratta della questione di maggior interesse ai fini di questo commento, la circostanza che le eventuali parti offese del reato contestato avessero prestato il loro assenso, doveva intendersi come elemento atto ad escludere la rilevanza penale della condotta contestata, secondo quanto già affermato da Corte di Cassazione, Sezione III penale, 11 giugno 2012, n. 22611, sentenza Banti.

In via del tutto preliminare, i giudici di legittimità hanno rilevato come la sentenza impugnata, con la quale è stata irrogata la sola pena dell'ammenda, non fosse suscettibile di essere appellata.

Il ricorso presentato dal prevenuto come gravame, pertanto, è stato convertito, in ossequio al principio del favor impugnationis, in ricorso per cassazione.

Nel merito, il ricorso stesso è stato dichiarato inammissibile, essendo risultato manifestamente infondato il motivo di impugnazione proposto.

Alquanto particolareggiate si presentano le soluzioni giuridiche scrutinate dal Supremo collegio.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento ha dapprima contestualizzato la fattispecie contestata rispetto al quadro normativo di riferimento.

Il fatto attribuito al prevenuto era originariamente inquadrato, sotto il profilo precettivo, nell'ambito della l. n. 300 del 1970, comunemente denominata Statuto dei lavoratori: l'art. 4, appunto, prevedeva, che l'installazione di impianti audiovisivi e di altri strumenti dai quali possa derivare la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, può essere giustificata esclusivamente per esigenze, fra l'altro, di sicurezza del lavoro e di tutela del patrimonio aziendale.

Deve, in ogni caso, essere eseguita previo accordo collettivo stipulato con la rappresentanza sindacale unitaria o con le rappresentanze sindacali aziendali. Oppure, ove non sia stato possibile raggiungere tale accordo, solo in quanto preceduta dal rilascio di apposita autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.

Sotto il profilo sanzionatorio, la violazione della predetta prescrizione, nell'ambito di operatività dell'art. 38 della citata legge, risulta ora disciplinato dal d.lgs. n. 196 del 2003, art. 114 (e non 2006 come erroneamente indicato nel capo di imputazione contestato al prevenuto): l'articolo in questione – in tal modo essendo evidenziata la palese continuità legislativa fra le due norme contenenti il precetto – prevede che "resta fermo quanto disposto dalla l. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4" e, con riferimento alla sanzione in caso di inottemperanza al precedente precetto, dal citato d.lgs. n. 196 del 2003, art. 171. Tale disposizione, a sua volta, nel testo introdotto a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 101 del 2018, art. 15 (che non ha tuttavia apportato modifiche sostanziali alla precedente versione legislativa), ritenuto applicabile al caso che interessa stante la chiara continuità normativa fra le varie versioni della disposizione, prevede che "la violazione delle disposizioni di cui all'art. 4, comma 1, (...) della L. 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all'art. 38 della medesima legge".

A fronte di tali riferimenti normativi, per i giudici di legittimità, non ha alcun rilievo la circostanza, dedotta dal ricorrente, secondo la quale l'impianto di registrazione visiva era stato installato onde garantire la sicurezza degli stessi dipendenti: la finalità di garantire la sicurezza sul lavoro è uno dei fattori che, in linea astratta, rendono possibile l'attivazione di tale tipo di impianti, salva, tuttavia, la realizzazione anche delle successive forme di garanzia a tutela dei lavoratori previste dalle norme precettive sopra ricordate.

Così come irrilevante è stata ritenuta, ai fini della possibile integrazione della contravvenzione contestata, la circostanza che il prevenuto non avesse personalmente accesso al contenuto delle videoriprese essendo gestito l'impianto attraverso il quale esse erano effettuate da un soggetto terzo rispetto al datore di lavoro.

Il più volte ricordato precetto contenuto nell'art. 4, comma 1, dello Statuto dei lavoratori inibisce, in assenza dello svolgimento delle preordinate intese con le rappresentanze dei lavoratori ovvero in assenza dell'autorizzazione rilasciata dall'Ispettorato del lavoro, l'installazione degli strumenti di videosorveglianza a distanza.

Il fatto che poi le immagini riprese con tali strumenti fossero nella disponibilità del datore di lavoro ovvero di un terzo, peraltro da quello incaricato, è stata valutata circostanza del tutto ininfluente ai fini dell'integrazione del reato.

Infine, è stato esaminato il secondo aspetto della censura formulata dal ricorrente, cioè l'insussistenza del fatto per essere stato il prevenuto autorizzato alla predetta installazione dai propri dipendenti.

La questione è stata scrutinata sotto diversi profili.

Il prevenuto aveva inviato all'Ispettorato del lavoro in data 24 luglio 2014, cioè il giorno successivo a quello in cui fu constatata la presenza dell'impianto di videosorveglianza, una dichiarazione sottoscritta da tutti i propri dipendenti, poi prodotta in giudizio, con la quale costoro dichiaravano di liberarlo dagli obblighi previsti a suo carico dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori.

Secondo i giudici di legittimità, onde attribuire all'indicata manifestazione di volontà efficacia scriminante, trattandosi di un elemento negativo della fattispecie (nel senso che si ha reato in quanto la condotta criminosa sia stata posta in essere senza il consenso di chi poteva validamente disporre del diritto in tal modo leso), il consenso dell'avente diritto non solo doveva perdurare sino al termine della consumazione dell'illecito, ma doveva essere stato espresso in un momento anteriore a detta consumazione, non potendo valere la postuma dichiarazione efficacia liberatoria dell'avente diritto ad escludere la rilevanza penale ad un fatto che già si sia perfezionato come illecito penale in tutti i suoi elementi.

L'eventuale suffragio attribuito alla tesi opposta, si legge in sentenza, equivarrebbe ad attribuire al soggetto disponente non la sola possibilità di sacrificare o meno una propria posizione soggettiva (ovviamente nei limiti in cui questa sia disponibile), ma anche la facoltà di condizionare, sulla base della propria volontà, la rilevanza penale di una fattispecie che, invece, si è già integralmente perfezionata in tutti i suoi requisiti onde assurgere al grado di illecito: ciò appare inconciliabile con una visione di carattere oggettivo del diritto penale e con il tendenziale interesse di carattere generale, e non meramente soggettivo riscontrabile in capo alla sola persona offesa, alla repressione dei reati.

Secondo la Cassazione, tale rilievo, di per sé, apparirebbe, quanto al caso in esame, già sufficiente per escludere la fondatezza del ricorso proposto dal prevenuto, essendo stata la sua doglianza sviluppata in relazione alla mancata valorizzazione, in sede di merito, della postuma autorizzazione fornita dai suoi dipendenti all'installazione del sistema di videosorveglianza sul posto di lavoro, rendendo, altresì, non pertinente il richiamo, peraltro già esaminato, e confutato, dal Tribunale meneghino, al precedente della Corte di Cassazione, Sezione III penale, 11 giugno 2012, n. 22611, sentenza Banti.

In tale occasione, infatti, la Corte escluse la rilevanza penale di una condotta del tipo di quella contestata al ricorrente, osservando che “non integra il reato previsto dall'art. 4 dello Statuto dei lavoratori l'installazione di un sistema di videosorveglianza potenzialmente in grado di controllare a distanza l'attività dei lavoratori, la cui attivazione, anche in mancanza di accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, sia stata preventivamente autorizzata per iscritto da tutti i dipendenti”.

Tuttavia tale orientamento è stata oggetto di articolata critica da parte di Corte di cassazione, Sezione III penale, 8 maggio 2017, n. 22148 le cui motivazioni sono state condivise, ed integralmente riprese, dalla sentenza in commento. Secondo questo arresto, il consenso in qualsiasi forma (scritta od orale) prestato dai lavoratori non vale a scriminare la condotta del datore di lavoro che abbia installato i predetti impianti in violazione delle prescrizioni dettate dalla fattispecie incriminatrice.

La sentenza Banti, al fine di sostenere la portata esimente del consenso scritto prestato da tutti i lavoratori, ha ritenuto illogico negare validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza, tanto sul fondamentale rilievo che la disposizione di cui all'art. 4 intende tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che tale rischio viene escluso, a meno di non voler dare una interpretazione eccessivamente formale e meccanicistica della disposizione, in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi cosicché, a fortiori, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando promani proprio da tutti i dipendenti, posto che l'esistenza di un consenso validamente prestato da parte di chi sia titolare del bene protetto, esclude l'integrazione dell'illecito.

Proprio quest'ultima affermazione è stata confutata da parte di Corte di cassazione, Sezione III penale, 8 maggio 2017, n. 22148, in quanto la norma penale in discorso, al pari di quelle che richiedono l'intervento delle rappresentanze sindacali dei lavoratori per la disciplina degli assetti nei luoghi di lavoro, tutela interessi di carattere collettivo e superindividuale, anche se non è esclusa una possibile interferenza tra la lesione delle posizioni giuridiche facenti capo, sia pure in prima battuta, alle rappresentanze sindacali e quelle facenti capo ai singoli lavoratori.

La condotta datoriale, che pretermette l'interlocuzione con le rappresentanze sindacali unitarie o aziendali procedendo all'installazione degli impianti dai quali possa derivare un controllo a distanza dei lavoratori, produce l'oggettiva lesione degli interessi collettivi di cui le rappresentanze sindacali sono portatrici, in quanto deputate a riscontrare, essendo titolari ex lege del relativo diritto, se gli impianti audiovisivi, dei quali il datore di lavoro intende avvalersi, abbiano o meno, da un lato, l'idoneità a ledere la dignità dei lavoratori per la loro potenzialità di controllo a distanza, e di verificare, dall'altro, l'effettiva rispondenza di detti impianti alle esigenze tecnico-produttive o di sicurezza in modo da disciplinarne, attraverso l'accordo collettivo, le modalità e le condizioni d'uso e così liberare l'imprenditore dall'impedimento alla loro installazione.

Peraltro, sia l'accordo che il provvedimento autorizzativo devono rispettare i principi e le regole stabiliti dall'interpretazione prevalente della normativa lavoristica in tema di controllo nonché dalla disciplina sul trattamento dei dati personali (d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196).

A questo proposito, è stato richiamato l'orientamento, tuttora valido, espresso dalla giurisprudenza di legittimità – Sezione Lavoro secondo il quale l'installazione in azienda, da parte del datore di lavoro, di impianti audiovisivi – che è assoggettata ai limiti previsti dall'art. 4, dello Statuto dei lavoratori anche se da essi derivi solo una mera potenzialità di controllo a distanza sull'attività lavorativa dei dipendenti, senza che peraltro rilevi il fatto che i dipendenti siano a conoscenza dell'esistenza di tali impianti – deve essere preceduta dall'accordo con le rappresentanze sindacali; con l'ulteriore conseguenza che è identificabile in tale fattispecie un comportamento antisindacale del datore di lavoro, reprimibile con la speciale tutela approntata dall'art. 28 dello Statuto dei lavoratori (Sez. L, n. 9211 del 16 settembre 1997, Rv. 508047 - 01).

Con questa pronuncia è stato dunque chiarito che l'assenso delle rappresentanze sindacali è previsto per legge come uno dei momenti essenziali della procedura sottesa all'installazione degli impianti, derivando da ciò l'inderogabilità e la tassatività sia dei soggetti legittimati e sia della procedura autorizzativa di cui all'art. 4 Statuto dei lavoratori.

A questo proposito, è stato rilevato che, sotto la vigenza dell'originario l. 20 maggio 1970, n. 300, art. 4, ma con orientamento pienamente valido anche a seguito della novella di cui al d.lgs. 14 settembre 2015, n. 151, art. 23, la giurisprudenza di legittimità – sempre Sezione Lavoro – aveva significativamente affermato come l'art. 4 cit., vietasse il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, anche inteso nel senso di mera possibilità di controllo ad insaputa del prestatore di opera, tanto nell'ipotesi dell'installazione di impianti finalizzati al controllo a distanza quanto delle apparecchiature predisposte per fini produttivi, ma comunque tali da presentare la possibilità di fornire anche il controllo a distanza del dipendente, rilevando come, mentre le apparecchiature finalizzate al mero controllo a distanza della prestazione lavorativa fossero assolutamente vietate, data la loro odiosità, il loro contrasto con i principi della Costituzione ed il danno che possono arrecare alla stessa produttività del lavoratore, quelle di cui al secondo comma fossero consentite, se ed in quanto il datore di lavoro avesse osservato quanto tassativamente previsto dall'art. 4, senza che peraltro il lavoratore potesse reagire al di fuori dei mezzi di tutela apprestati da tale ultima disposizione (Sez. L, n. 1236 del 18/02/1983, Rv. 426020 - 01).

Non di meno dalla Cassazione penale è stato ritenuto significativo osservare, sul punto, che lo stesso Garante per la protezione dei dati personali ha più volte ritenuto illecito il trattamento dei dati personali mediante sistemi di videosorveglianza, in assenza del rispetto delle garanzie di cui all'art. 4, comma 2, Stat. lav. e nonostante la sussistenza del consenso dei lavoratori (cfr. relazione Garante per la protezione dei dati personali, per l'anno 2013, pubblicata nel 2014).

A ben vedere, la ragione per la quale l'assetto della regolamentazione di tali interessi è affidato alle rappresentanze sindacali o, in ultima analisi, ad un organo pubblico, con esclusione della possibilità che i lavoratori, uti singuli, possano autonomamente provvedere al riguardo, risiede, ancora una volta, nella considerazione della configurabilità dei lavoratori come soggetti deboli del rapporto di lavoro, questione che viene in rilievo essenzialmente con riferimento all'affermazione costituzionale del diritto al lavoro e con riferimento alla disciplina dei rapporti esistenti tra il datore di lavoro ed il lavoratore, sia nella fase genetica che funzionale del rapporto di lavoro.

La diseguaglianza di fatto e quindi l'indiscutibile e maggiore forza economico – sociale dell'imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall'autorizzazione della direzione territoriale del lavoro, nel solo caso di mancato accordo tra datore di lavoro e rappresentanze sindacali, ma non invece dal consenso dei singoli lavoratori, poichè, a conferma della sproporzione esistente tra le rispettive posizioni, basterebbe al datore di lavoro fare firmare a costoro, all'atto dell'assunzione, una dichiarazione con cui accettano l'introduzione di qualsiasi tecnologia di controllo per ottenere un consenso viziato dal timore della mancata assunzione.

Del resto, anche la previsione della sanzione penale, e in generale l'esigenza di una tutela in forma punitiva dei diritti riconosciuti al lavoratore, trova compiuta spiegazione, secondo i giudici di legittimità, in questa sproporzione, allo stesso modo con il quale il progressivo annullamento dell'autonomia privata ha sopperito alla sperequazione sociale nelle posizioni del datore di lavoro e del prestatore d'opera.

Da tutto ciò i giudici penali hanno tratto la conseguenza che non ha alcuna rilevanza il consenso scritto o orale concesso dai singoli lavoratori, in quanto la tutela penale è apprestata per la salvaguardia di interessi collettivi di cui, nel caso di specie, le rappresentanze sindacali, per espressa disposizione di legge, sono portatrici, in luogo dei lavoratori che, a causa della posizione di svantaggio nella quale versano rispetto al datore di lavoro, potrebbero rendere un consenso viziato.

La protezione di siffatti interessi collettivi, riconducibili, nel caso di specie, alla tutela della dignità dei lavoratori sul luogo di lavoro in costanza di adempimento della prestazione lavorativa, non viene meno in caso di mancato accordo tra rappresentanze sindacali e datore di lavoro, dovendo quest'ultimo comunque rimuovere l'impedimento all'installazione degli impianti attraverso il rilascio di un'autorizzazione che rientra nelle competenze di un organo pubblico, cui spetta di controllare l'interesse datoriale alla collocazione degli impianti nei luoghi di lavoro per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, sicché, definitivamente, il consenso o l'acquiescenza del lavoratore non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l'interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporne, rimane fuori della teoria del consenso dell'offeso, non essendo riconducibile al paradigma generale dell'esercizio di un diritto.

Osservazioni

La sentenza che si commenta ribadisce un costante, e risalente, indirizzo di ferma tutela accordata alla parte debole del rapporto contrattuale di lavoro, il lavoratore: già in passato, ad es., si era affermato che il lavoratore subordinato non può validamente prestare il proprio consenso alla violazione degli obblighi legali posti dalla normativa antinfortunistica a tutela della sua incolumità personale, in quanto detto consenso avrebbe ad oggetto, di massima, reati colposi, e comunque sempre diritti indisponibili (Cass. V, n. 4743/1977).

Se tale linea merita totale condivisione ad avviso di chi scrive, tuttavia appare suscettibile di riconsiderazione alla luce dei più recenti approdi ermeneutici della Corte Edu.

Si fa riferimento, in particolare, alla Sentenza della Grande Camera della Corte nel caso López Ribalda c. Spagna n. 2 del 17 ottobre 2019: in questo caso il datore di lavoro, gestore di un supermercato, riscontrava una serie di discrepanze tra il livello delle scorte di magazzino e gli incassi di fine giornata.

Sospettando che ciò dipendesse da illecite condotte appropriative di beni e/o denaro aziendale poste in essere da uno o più dipendenti, provvedeva ad installare all'interno del negozio dei dispositivi di videoripresa. Ne collocava alcuni, in posizione ben visibile, a sorveglianza dei varchi d'uscita. Ne occultava altri, all'insaputa dei lavoratori, in posizione utile alla sorveglianza generalizzata ed indistinta di tutto il personale di volta in volta addetto al bancone di cassa (covert video surveillance).

Ciò avveniva nonostante il codice per la protezione dei dati personali spagnolo imponesse, senza apparenti deroghe, l'obbligo di farne comunicazione ai lavoratori in modo chiaro ed esauriente, nonché l'obbligo di compiuta informazione circa le modalità di trattamento dei dati personali acquisiti con tale mezzo.

Grazie ai filmati così ottenuti, venivano individuati e licenziati i responsabili delle accertate sottrazioni. Costoro adivano le corti nazionali spagnole lamentando la lesione del proprio diritto alla privacy (art. 8 Cedu) nonché, sotto il profilo processuale, la violazione del diritto di difesa asseritamente cagionato dall'utilizzazione in giudizio dei dati occultamente carpiti quali prova a loro carico (art. 6 Cedu).

Le corti nazionali rigettavano ogni domanda ritenendo che la condotta datoriale denunziata, considerate le circostanze del caso, fosse da reputarsi lecita e proporzionata all'entità dei fatti posti a giustificazione dei licenziamenti: sia in quanto imposta dalla necessità di assicurare adeguata protezione ai diritti patrimoniali del datore di lavoro, sia in quanto l'unica in grado di preservare l'interesse alla conservazione del patrimonio aziendale comportando al contempo il minor sacrificio possibile dei diritti dei lavoratori destinatari dell'attività di sorveglianza.

Autorevoli commentatori non hanno mancato di rilevare come l'approccio seguito dai giudici spagnoli ricordi, per certi versi, il percorso giurisprudenziale che in Italia ha condotto all'elaborazione della teoria dei c.d. controlli difensivi. Tale categoria tipologica comprende quelle attività di sorveglianza a distanza, quali ad esempio il monitoraggio degli accessi alla rete Internet o del sistema di posta elettronica aziendale, poste in essere per mezzo di strumenti tecnologici non allo scopo di verificare l'esatto adempimento delle obbligazioni contrattuali da parte dei lavoratori – in quanto tale tradizionalmente vietato dalla formulazione letterale dell'art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, recentemente sostituito dall'art. 23, comma 1, d.lgs. 24 settembre 2016, n. 185 – bensì al fine di accertare la commissione di condotte illecite lesive del patrimonio aziendale ovvero pericolose per la sicurezza del luogo di lavoro. Cfr., ex multis, le sentenze della Corte di Cassazione n. 4746 del 3 aprile 2002, pronunciata in un caso di controllo sull'utilizzo extraprofessionale della rete telefonica aziendale, e n. 10955 del 27 maggio 2015, riguardante un caso di accesso all'account personale Facebook di un dipendente.

Questa linea esegetica è stato condivisa dalla sentenza della Corte Edu: risulta particolarmente rilevante che, in López Ribalda, la Corte abbia escluso la sussistenza di una violazione nonostante il datore di lavoro non avesse preventivamente avvisato i lavoratori della possibilità di essere sottoposti a videosorveglianza anche negli spazi aziendali in cui le condotte illecite sono poi state poste in essere. La Corte Edu ha argomentato che le specifiche circostanze caratterizzanti il caso di specie, e in particolare l'esistenza di un sospetto ragionevole e circostanziato circa la commissione di gravi illeciti contro il patrimonio aziendale, recano in sé un peso giustificativo tale da costituire sufficiente elemento di bilanciamento in considerazione delle concrete modalità con cui l'interferenza nella sfera privata dei lavoratori è stata realizzata.

In conclusione, la sentenza López Ribalda merita particolare attenzione non solo per il contenuto di causa di per sé considerato, ma anche per l'ulteriore stimolo rivolto al giudice nazionale circa l'atteggiamento interpretativo ed applicativo che la giurisdizione è chiamata ad assumere ogni qualvolta sia implicata l'implementazione per via giudiziaria delle garanzie convenzionali.

Nello stesso giorno del deposito della sentenza della Corte Edu, il 17 ottobre 2019, il Garante italiano per la privacy è prontamente intervenuto con un comunicato stampa volto a precisare che, alla luce di quanto statuito dalla Corte europea, la videosorveglianza occulta è ammessa solo in quanto extrema ratio a fronte di gravi illeciti e con modalità spazio-temporali tali da limitare al massimo l'incidenza del controllo sul lavoratore e non può dunque diventare una prassi ordinaria.

In tal modo il Garante ha mostrato una seria preoccupazione per la tenuta di quella che appariva una ormai consolidata elaborazione giuridica propria dei giudici di legittimità, tanto della Sezione Lavoro, tanto penali, in particolare quelli appartenenti alla III Sezione, competente ratione materiae in ordine al trattamento illecito dei dati personali.

Nonostante tale autorevole sollecitazione, la sentenza Lopez Ribalda è destinata ad assumere un importante ruolo per quanto concerne il tema del consenso o meno dei lavoratori, nonché della rigorosa procedura da seguire per l'installazione delle videocamere sui luoghi di lavoro in Italia.

Infatti, da ultimo, Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 05/11/2019) 19-12-2019, n. 51183, a fronte di un motivo di ricorso in cui veniva eccepita l'inutilizzabilità di registrazioni realizzate in luogo interno di un ufficio, da ritenersi, nella prospettiva difensiva, equiparato alla privata dimora o comunque stabilimento lavorativo all'interno del quale il controllo audiovisivo del lavoratore, unilateralmente disposto, è vietato da disposizione imperativa di legge, ha ribattuto che la necessità di accertare fatti di penale rilevanza consente di superare anche le disposizioni poste a tutela della dignità del lavoro. A conforto di questo assunto è stata richiamata, oltre che la giurisprudenza della stessa sezione, Sez. 2, n. 33567, del 12/5/2016, Rv. 267476, nonché di altra sezione, Sez. 6, n. 30177, del 4/6/2013, Rv. 256640, proprio la recente sentenza della Corte EDU 17/10/2019, Lopez Ribalda c. Spagna.

In conclusione, proprio quell'interesse di carattere generale, e non meramente soggettivo riscontrabile in capo alla sola persona offesa, alla repressione dei reati affermato dalla sentenza n. 50919, Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 15/07/2019) 17-12-2019 per assicurare la tutela della dignità del lavoro, solo due giorni dopo, è diventato decisivo in Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 05/11/2019) 19-12-2019, n. 51183 per negarla.

Guida all'approfondimento

F. BUFFA e F. PERRONE, La rilevanza dell'informazione preventiva nei controlli a distanza sul luogo di lavoro, in questionegiustizia.it

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