Il marchio patronimico: questioni dibattute per le tutele quotidiane

Marta Bellini
10 Febbraio 2020

L'uso del marchio altrui, ove confusorio, non può ritenersi di per sè conforme ai principi di correttezza professionale, dovendosi sul punto richiamare l'indirizzo interpretativo già affermato dalla Corte di giustizia UE, che ha più volte escluso la conformità dell'uso del patronimico quando avviene in modo tale da poter dare l'impressione che esista un legame commerciale...
Premessa

L'uso del marchio altrui, ove confusorio, non può ritenersi di per sè conforme ai principi di correttezza professionale, dovendosi sul punto richiamare l'indirizzo interpretativo già affermato dalla Corte di giustizia UE, che ha più volte escluso la conformità dell'uso del patronimico quando avviene in modo tale da poter dare l'impressione che esista un legame commerciale fra il terzo e il titolare del marchio, ovvero quando compromette il valore del marchio traendo indebitamente vantaggio o causando discredito o denigrazione al carattere distintivo/notorietà del marchio altrui o un uso parassitario, specie in presenza di un marchio celebre nel settore dei servizi alberghieri e di ristorazione.

La vicenda processuale

La questione è stata affrontata da una recente pronuncia giurisprudenziale: Corte d'Appello di Venezia – Sez. Specializzata – 30 novembre 2017, n. 2798.

In punto, l'Hotel Cipriani s.r.l. aveva adito la Corte d'Appello di Venezia - sezione imprese - chiedendo la riforma della sentenza n. 2602/2015 del 13.3 – 20.8.2015, con la quale il Tribunale di primo grado aveva ritenuto che i signori Arrigo e Giuseppe Cipriani potessero proseguire la propria attività economica firmandola con il marchio Cipriani, in quanto portatori del nome. A sostegno delle proprie ragioni asserivano non solo che in sede di vendita da parte della famiglia Cipriani alla Standon Ondale Patmore Company l.t.d. nel 1967 di tutto il pacchetto azionario dell'Albergo Cipriani s.p.a., poi divenuto nel 2004 Hotel Cipriani s.r.l., fosse stato trasferito il diritto alla prosecuzione dell'uso della denominazione e dell'insegna "Hotel Villa Cipriani", ma altresì che a seguito della cessione, l'acquirente avesse regolarmente provveduto alla registrazione dei marchi denominativi nazionali "Cipriani" e "Hotel Cipriani", mentre nessuna registrazione o utilizzo vi erano stati del nome Cipriani da parte del signor Giuseppe Cipriani, ed ancor prima dal signor Arrigo Cipriani.

Ritenevano inoltre, che a seguito della decisione del 9.12.2008, confermata in appello nel marzo 2010 dalla Hight Court of Justice of London, ai signori Arrigo e Giuseppe Cipriani dovesse risultare inibito nel modo più assoluto l'utilizzo del nome "Cipriani" non solo in tutti i settori merceologici ed ancor più nel settore della ristorazione, ma altresì in tutti i paesi interessati dalla registrazione del marchio europeo, avendo la decisione portata europea.

I convenuti, costituendosi, chiedevano il rigetto delle domande dell'appellante e proponevano appello incidentale con il quale - richiamandosi alla decisione di prime cure - chiedevano fosse riconosciuta dalla Corte d'Appello veneziana la possibilità di utilizzo del cognome degli appellati o il riferimento alla famiglia Cipriani nel settore alberghiero, non potendosi ravvisare nella fattispecie, contraffazione o concorrenza sleale alcuna nei confronti dei marchi nazionali e comunitari "Cipriani" e "Hotel Cipriani".

La Hotel Cipriani S.r.l., riferibile alla famiglia Guinness, che nel 1967 aveva acquistato le azioni della Hotel Cipriani da Giuseppe, è la titolare dei marchi europei 115824 “Cipriani” e 115857 “Hotel Cipriani” nelle classi 16, 35, 42. Arrigo e a Giuseppe Cipriani, sono invece titolari dei marchi europei 683250 “Cipriani Food” nelle classi 29 e 30; 687400 “Cipriani Fashion” nelle classi 3, 9, 14, 18, 24, 25 e 34; 687905 “Cipriani Home” nelle classi 8, 20, 21, 24 e 25; 2316594 “Cipriani” in classe 32; 2898419 “Cipriani Bellini Base” in classi 32 e 33; 4869228 “Cipriani London” in classe 43; infine, 4869251 “Cipriani London” in classe 43. Infatti, il 9 dicembre 1971 la Hotel Cipriani S.p.A. aveva ottenuto la registrazione per la categoria merceologica di hotel, ristoranti, bar, caffetterie, snack bar ed esercizi di ristorazione del marchio italiano denominativo “Cipriani”, ed aveva presentato con esito positivo in data 1 aprile 1996 l'ulteriore domanda di registrazione di marchio UE costituito dal medesimo segno denominativo.

A seguito della cessione del 1967, Arrigo Cipriani e suo figlio Giuseppe hanno aperto nell'aprile 2004 il celebre Cipriani London, in Davies Street e il ristorante dell'Edison Hotel di Istanbul, l'Harry Cipriani allo Sherry Netherland Hotel a New York, oltre allo Yotto, di Yas Island ad Abu Dhabi.

L'utilizzo del marchio “Cipriani” nei diversi esercizi afferenti ad Arrigo Cipriani, ha spinto nel novembre 2006 la Hotel Cipriani S.r.l. a citare in giudizio avanti alla High Court of Justice, Chancery Division, Intellectual Property, la società inglese di Arrigo Cipriani, per violazione di marchio e concorrenza sleale (“same service, similar mark, likelihood of confusion”). La pronuncia del 9 dicembre 2008 a favore della ricorrente, è stata poi appellata avanti la Court of Appeal (Civil Division, case no A3 2009/0252) sulla circostanza che l'utilizzo del patronimico non può essere impedito (“own-name defence”), e che lo stesso marchio “Cipriani” oggi in proprietà della società Hotel Cipriani srl, deve considerarsi nullo (31 luglio 2009 Arrigo Cipriani ha depositato presso l'EUIPO una domanda diretta a far dichiarare la nullità del marchio “Cipriani”, ex articolo 52, paragrafo 1, lett. b), del regolamento n. 207/2009), in quanto il marchio UE sarebbe stato registrato in malafede ed ex art. 53, paragrafo 2, lett. a), del regolamento n. 207/2009, in combinato disposto con l'articolo 8, paragrafo 3, del CPI, ed avrebbe leso il diritto ad un nome noto di persona, ossia il nome Cipriani, la notorietà del quale sarebbe strettamente legata alla persona del ricorrente, la cui attività nell'ambito della ristorazione sarebbe nota in tutto il mondo. Con decisione 29 novembre 2011, è stata respinta la domanda di dichiarazione di nullità, conseguentemente nel gennaio 2012, Arrigo Cipriani ha proposto ricorso dinanzi all'EUIPO avverso la decisione della divisione di annullamento e, nel marzo 2014, la quarta commissione EUIPO ha respinto il ricorso. Tale decisione è stata poi confermata con la sentenza del 29 giugno 2017 (causa T-343/14), che ha respinto l'impugnazione presentata). Il Tribunale UE ha escluso che la Hotel Cipriani avesse depositato in malafede la domanda di marchio UE, peraltro corrispondente al marchio italiano “Cipriani” registrato il 9 dicembre 1971 con il numero 254410, in quanto il successivo ampliamento della protezione di un marchio nazionale attraverso la registrazione dello stesso quale marchio UE integra la strategia ordinaria di un'impresa (si vedano similmente le decisioni 1 febbraio 2012, Pollo Tropical Chicken on the Grill, T 291/09, punto 58, e 14 febbraio 2012, Peeters Landbouwmachines/UAMI - Fors MW (BIGAB), T 33/11, punto 23) e non concorrenza sleale. Il Tribunale inoltre, non ha ritenuto provata la circostanza che l'uso del nome Cipriani ledesse la fama di Giuseppe Cipriani, cioè l'appartenenza del patronimico Cipriani alla famiglia Cipriani o, addirittura, ad Arrigo e a Giuseppe Cipriani soltanto, così come previsto dall'articolo 8 del CPI, per cui i nomi di persona diversi da quelli di chi chiede la registrazione possono essere registrati come marchi, purché il loro uso non sia tale da ledere la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare tali nomi, con il limite che la registrazione non impedirà a chi abbia diritto al nome di farne uso nella ditta da lui prescelta, purché l'uso sia conforme ai principi della correttezza professionale.

Con ulteriore ricorso 28.5.2019 (causa T – 325/19) Arrigo Cipriani ha adito l'EUIPO al fine di veder riconosciuta la propria pretesa sulla domanda di marchio figurativo dell'Unione Europea “Arrigo Cipriani”.

Il marchio patronimico tra gli aggiornamenti normativi

La Corte d'Appello di Venezia, con la sentenza in commento, affronta nuovamente la ben nota questione del marchio patronimico e delle criticità irrisolte che lo stesso - quando riconosciuto quale marchio forte- crea al portatore del nome, che ambirebbe continuare ad utilizzarlo nella propria attività. Necessità od ambizione, complicata dalla circostanza che il marchio europeo, pur costituendo un unico in sede di iscrizione, riceve tutela, in caso di violazione, nello stato ove essa si è realizzata (Conformemente all'art. 9 RMUE 2017/1001, “La registrazione del marchio UE conferisce al titolare un diritto esclusivo), sovrapponendosi al marchio nazionale ma ad esso non sostituendosi. Il titolare ha diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio lo stesso segno in relazione ai medesimi prodotti e/o servizi per i quali il marchio Ue è stato registrato.

Tale tutela tuttavia, non pone definitiva risposta alla problematica di interrelazione tra ditta ed imprenditore (De Cicco, Ancora sul rapporto tra ditta ed imprenditore, in Giur. comm., 2011, 5, 1072) e tra principio di unitarietà dei segni ex art. 22 comma 1 CPI, all'uso della ditta, denominazione o ragione sociale, insegna e nomi a dominio aziendali, e marchio patronimico (Vanzetti-Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2009, 210 e più ampiamente, 249: “L'eccezione al divieto di uso da parte del terzo del marchio altrui…andrà commisurata all'esigenza descrittiva, facendo in modo di escludere che essa si possa tradurre in un ingiusto approfittamento”).

L'art. 21 comma 1 lett. A) CPI consente infatti di usare il nome anche se eguale al marchio precedentemente registrato da altri in funzione descrittiva, o come indicazione della paternità di una creazione di natura artigianale, nel rispetto di una condizione di utilizzo che non violi il principio di correttezza professionale e non in funzione descrittiva (Caruso, Marchio patronimico e creazioni di moda, in Riv. Dir. Ind., 2018, I, 15). Di conseguenza, dovrà porsi in ogni singola fattispecie il quesito se l'utilizzo del patronimico in presenza di un marchio patronimico forte, possa sussistere la confondibilità per il consumatore al fine di concretizzarsi, in caso di mala fede del patronimico in concorrenza parassitaria, piuttosto che in merca confusione sul mercato (Cass. Civ., S.U., n. 1797/2008).

Come anticipato, con l'emanazione del D.lgs. 20 febbraio 2019 n. 15 (pubbl. Gazz. Uff. 8 marzo 2019 n. 57), il nostro legislatore ha dato attuazione alla Direttiva (UE) 2015/2436 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2015, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, nonché per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2015/2424 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2015, recante modifica al regolamento sul marchio comunitario.

Sono state, dunque, introdotte alcune importanti modifiche alle disposizioni contenute nel D.lgs. 10.2.2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale) che - entrate in vigore a decorrere dal 23 marzo 2019 con l'obiettivo non solo di superare le differenze esistenti tra i titolari di marchi di alcuni Paesi rispetto a quelli di altri, ma anche di ampliare le fattispecie già esistenti in tema di diritti derivanti dal segno distintivo - dovrebbero appianare le differenze tra normativa nazionale ed europea (Sironi, Principio di coesistenza, in Marchetti – Ubertazzi, Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Vicenza, 2016, 983). A seguito delle modifiche apportate dall'art. 20 del D.lgs. n. 15/2019, in funzione di ampliamento della tutela, il titolare del marchio registrato può ora vietare ai terzi l'uso di un segno identico o simile anche se viene utilizzato per fini diversi rispetto a quello di contraddistinguere i prodotti o i servizi.

L'utilizzazione commerciale del patronimico corrispondente ad un marchio anteriore altrui

I marchi patronimici sono molto diffusi, soprattutto nel mondo della moda e nel settore alimentare e vitivinicolo, solitamente quale soluzione efficace in termini di comunicazione in quanto rappresentano intrinsecamente la realtà familiare dell'azienda o dell'imprenditore medesimo. L'art. 8 del Codice della Proprietà Intellettuale detta le linee guida per l'utilizzo del nome come proprio marchio, consentendone la registrazione senza vincolare il riconoscimento all'esclusivo titolare del nome, purché l'utilizzo non leda la fama, il credito o il decoro di chi ha diritto di portare il nome.

Con l'entrata in vigore del codice della proprietà intellettuale (D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30), l'art. 21 ha specificamente disciplinato che i diritti appartenenti al titolare di un marchio patronimico registrato non consentono di vietare ai terzi l'uso del proprio nome nell'attività economica, purché l'uso sia conforme ai principi della correttezza professionale, soprattutto in riferimento alle indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore di un prodotto o della prestazione del servizio. Già l'art. 2564 c.c. afferma che "quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l'oggetto dell'impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla" (si veda in tal senso Cass. 13.6.2000, n. 8034). Nel conflitto tra due titolari di insegne legittimamente utilizzate, costituite entrambe dallo stesso nome, in un primo tempo la Suprema Corte aveva precisato (Cass. 3.8.1987, n. 6678 e successivamente Cass. 27.2.1992, n. 2423) "Qualora due società di capitali inseriscano, nella propria denominazione, lo stesso cognome, il quale assuma per entrambe efficacia identificante, e si verifichi possibilità di confusione, in relazione all'oggetto ed al luogo delle rispettive attività, l'obbligo di apportare integrazioni o modificazioni idonee a differenziare detta denominazione, posto dall'art. 2564 c.c. a carico della società che per seconda abbia usato quella uguale o simile, non trova deroga nella circostanza che detto inserimento sia legittimo e riguardi il cognome di imprenditore individuale la cui impresa sia stata conferita nella società".

E così, successivamente aveva confermato l'inutilizzabilità del medesimo marchio patronimico in attività di settori merceologici affini (Cass. 14.3.2014, n. 6021 "Un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio, non può essere di regola adottato, in settori merceologici identici o affini, né come marchio né come denominazione sociale, salvo il principio di correttezza professionale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell'ambito dell'attività economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione da parte di altri; l'inserimento nella denominazione sociale del patronimico di uno dei soci, coincidente con il nome proprio precedentemente incluso in un marchio registrato da terzi, non è conforme alla correttezza professionale, se non sia giustificato dalla sussistenza di una reale esigenza descrittiva inerente all'attività, ai prodotti o ai servizi offerti, esigenza non ravvisabile per la sola circostanza che il nome sia patronimico di un socio").

Negli ultimi anni, la Suprema Corte aveva avuto occasione di affrontare nuovamente la problematica sull'uso del patronimico come marchio (Cass. civ. Sez. I, n. 10826 del 2016), precisando che per quanto riguarda i settori merceologici identici o affini non è più possibile adottare come segno distintivo il proprio nome anagrafico se lo stesso in precedenza è stato validamente registrato come marchio (oltre che come denominazione sociale), salvo il suo impiego limitato secondo i principi di correttezza professionale.

Similmente a quanto accaduto per la famiglia Cipriani, il noto stilista Elio Fiorucci nell'anno 1990 aveva ceduto alle società Edwin Co. Ltd. e Edwin International (Europe) GMBH tutto il proprio patrimonio creativo, inclusi i propri marchi contenenti il nome “Fiorucci”. A seguito della cessione, lo stilista aveva registrato ed utilizzato il ben noto marchio “Love Therapy by Elio Fiorucci” e “Love Therapy Collection by Elio Fiorucci”, marchi ritenuti dalla Corte d'Appello di Milano - in sede di impugnativa da parte della cessionaria - legittimi, in quanto descrivevano il soggetto Elio Fiorucci con chiaro intento descrittivo e non distintivo e non avevano altro significato se non quello di manifestare l'apporto personale dello stilista alle attività in questione, il che escludeva ogni possibile illecito (D. Sbarisia, La Corte di Giusitizia si pronuncia ancora sulla riserva di registrazione del marchio Fiorucci in capo allo stilista Elio Fiorucci, in Giur.comm., 2012, I, 922).

Tale decisione sembrava voler accordare una maggior tutela in capo ai marchi celebri, in quanto il marchio associato di solito a beni esclusivi, gode di una notorietà tale da porre il consumatore medio in pericolo di confusione, attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti non così lontani dal punto di vista merceologico (App. Milano, 22.2.2013, in Riv. Dir. Ind., 2017, 6, II, 657).

In conclusione

La pronuncia qui commentata (App. Venezia, n. 2798/2017) pone l'accento sulle criticità derivanti dalla concreta applicazione dell'art. 21 C.P.I.. In mancanza di principi oggettivi capaci di individuare in quali fattispecie possa ritenersi corretto, legittimo e rispettoso del principio della correttezza professionale, l'uso del nome patronimico corrispondente ad un marchio già registrato, attesa la tutela di portata normativa assoluta del marchio e l'assoluta superiorità della tutela del mercato commerciale garantita al segno distintivo, costituito dal nome anagrafico e validamente registrato come marchio, anche nei confronti della persona che legittimamente porti quel nome, solutorio resta poter comprendere quando l'utilizzo del nome, già costituente patronimico ceduto, in funzione descrittiva costituisca violazione della correttezza commerciale, in quanto utilizzato in funzione di marchio/distintiva, anziché con mera funzione marchio/descrittiva (B. Brusa, L'uso del patronimico conforme ai principi di correttezza professionale, in Riv. Dir. Ind., 2017, 3, 441).

Richiamando la più recente Giurisprudenza (Cass. 14.3.2014, n. 6021, Cass. 25.2.2015, n. 3806; Cass. 25.5.2016, n. 10826 e Cass. 24.5.2017, n. 12995), la Corte d'Appello di Venezia, sottolinea che in tema di cessione del marchio, un segno distintivo costituito da un certo nome anagrafico e validamente registrato come marchio denominativo, non può essere di regola adottato nei settori merceologici identici o affini, come marchio (oltre che come denominazione sociale), salvo il suo impiego limitato secondo il principio di correttezza professionale, neppure dalla persona che legittimamente porti quel nome, atteso che il diritto al nome trova, se non una vera e propria elisione, una sicura compressione nell'ambito dell'attività economica e commerciale, ove esso sia divenuto oggetto di registrazione prima e di notorietà poi. Contrasta, inoltre, con i principi della correttezza professionale l'uso del proprio nome anagrafico che pregiudichi il valore di un marchio già registrato contenente lo stesso patronimico, in quanto in tal modo trae indebitamente vantaggio dal suo carattere distintivo o dalla sua notorietà.

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