La notorietà garantita dal marito non basta per consentire all’ex moglie di conservarne il cognome

Attilio Ievolella
14 Febbraio 2020

Respinta definitivamente la richiesta presentata dalla donna e finalizzata utilizzare ancora il cognome del marito dopo il divorzio. Per i Giudici gli anni di identificazione in ambito sociale col cognome maritale non rappresentano un dato sufficiente a prolungarne ulteriormente l'uso. Viene anche sottolineato che oggi, a differenza di ciò che avveniva in passato, la donna non perde la propria identificazione personale col matrimonio, conservando comunque il proprio cognome.

Lui avvocato di spicco e anche politico di rilievo, lei ex moglie che, amareggiata per la chiusura del matrimonio, punta almeno a conservare la notorietà garantitale dal cognome del marito, cognome che, spiega, per anni l'ha identificata nel contesto sociale.
A respingere la richiesta è la Cassazione, ritenendo mancanti i presupposti concreti per riconoscere alla donna il diritto di identificarsi ancora col cognome dell'oramai ex coniuge. Decisive due considerazioni: in primo luogo, «non vi è più, come in passato, la perdita del cognome personale della donna – che, pertanto, continua quindi a identificarla –, ma solo l'aggiunta del cognome maritale»; in secondo luogo, non si può escludere che «il perdurante uso del cognome maritale possa costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsente e che intenda ricreare un nuovo nucleo familiare che sia riconoscibile, come legame familiare attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente»

Identità. Ufficializzata la «cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario» tra Tizia e Caio, resta un nodo da sciogliere: l'uso del cognome del marito da parte della oramai ex moglie. Su questo tasto batte con insistenza la donna: le risposte dei Giudici sono però negative. Prima in Tribunale e poi in Appello, difatti, viene respinta la domanda di Tizia finalizzata alla conservazione del diritto ad utilizzare il cognome maritale.
Questione chiusa? Assolutamente no. Ecco spiegato il ricorso in Cassazione proposto dall'avvocato della donna, ricorso centrato sull'interesse dell'ex moglie (e anche della figlia) a conservare il cognome maritale.
Per chiarire la posizione della propria cliente il legale si sofferma sui «profili di identità sociale e di vita di relazione». Più precisamente, egli spiega che «la donna, pur essendosi sposata a 38 anni, si era costruita nell'ambiente sociale di riferimento una identità personale e sociale esclusivamente» col cognome del marito, e difatti «da ventitré anni (sette di fidanzamento e sedici di matrimonio) era così conosciuta nel suo attuale ambiente sociale ed amicale».
Per quanto concerne poi la posizione della figlia di Tizia, il legale ne sostiene «l'interesse a che la madre continui a utilizzare il cognome maritale», rimarcando «il disagio ed il pregiudizio che la contraria determinazione avrebbe potuto provocarle nell'ambiente scolastico in cui la madre aveva sempre speso il cognome maritale».

Notorietà. La visione proposta dall'avvocato della donna non convince però i Giudici della Cassazione. Consequenziale è la conferma della decisione della pronuncia d'Appello. Ciò significa che l'ex moglie non può continuare ad utilizzare impunemente il cognome di Caio.
I magistrati del ‘Palazzaccio' richiamano il Codice Civile, ricordando che esso «prevede che la moglie aggiunga al proprio cognome quello del marito e lo conservi durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze», e aggiungono che tale diritto-dovere «consegue esclusivamente al rapporto di coniugio». In sostanza, quindi, «non vi è più, come avveniva in passato, la perdita del cognome personale della donna – che, pertanto, continua quindi ad individuarla –, ma solo l'aggiunta del cognome maritale» e «questo effetto del matrimonio è circoscritto temporalmente alla perduranza del rapporto di coniugio».
Logico dedurre che «la possibilità di consentire con effetti di carattere giuridico-formali la conservazione del cognome del marito, accanto al proprio, dopo il divorzio, è da considerarsi una ipotesi straordinaria» che non può essere giustificata, però, sottolineano i giudici della Cassazione, «con il mero desiderio di conservare come tratto identitario il riferimento a una relazione familiare ormai chiusa quanto alla sua rilevanza giuridica». Peraltro, «non può escludersi che il perdurante uso del cognome maritale possa costituire un pregiudizio per il coniuge che non vi acconsente e che intenda ricreare un nuovo nucleo familiare che sia riconoscibile, come legame familiare attuale, anche nei rapporti sociali e in quelli rilevanti giuridicamente».
In sostanza, solo circostanze eccezionali possono consentire l'autorizzazione all'utilizzo del cognome del marito una volta chiuso il matrimonio, e in questa vicenda, osservano i Giudici, «nessun interesse davvero meritevole di tutela è stato allegato dalla donna al mantenimento del cognome maritale unitamente al proprio», essendosi ella limitata a puntare sulla «conservazione della notorietà derivatale dall'ex marito nelle frequentazioni sociali», ossia «tra quelle stesse persone che non possono ignorare le vicende della coppia».
Allargando l'orizzonte, poi, si può affermare, secondo i giudici, che «l'uso consuetudinario del cognome maritale – comune a tutte le donne divorziate nel corso del coniugio – non può assumere maggior merito per la notorietà dell'uomo con cui la donna è stata sposata, perché l'interesse a ciò sotteso sarebbe senza dubbio effimero», e in questo caso la donna «nulla allega che possa far ritenere la sua situazione straordinaria, limitandosi a rilevare l'uso del cognome maritale nelle relazioni sociali acquisite».
Peraltro, non si può ignorare che Tizia «si era sposata a 38 anni», quando cioè «aveva già acquisito una propria identità, col suo cognome, anche al di fuori della stretta cerchia familiare», e che «il matrimonio è durato dodici anni e che la convivenza matrimoniale è durata ancora meno, per la crisi coniugale intervenuta dopo pochi anni» dalla celebrazione delle nozze.
Per chiudere, infine, spazio anche alla posizione della figlia. Anche su questo fronte non vi è alcuno specifico e straordinario interesse della ragazza a vedere la madre utilizzare il cognome dell'ex marito, poiché «la sua condizione è del tutto uguale a quella di figli di coppie divorziate e sta ai genitori sostenerla nel suo paventato possibile disagio».

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