Dubbi di legittimità costituzionale in tema di parità del trattamento sanzionatorio fra rapina propria e impropria

Cristina Ingrao
14 Febbraio 2020

La questione in esame attiene al reato di rapina disciplinato dall'art. 628 c.p. La norma prevede al primo comma la c.d. rapina propria e al comma 2 la c.d. rapina impropria.
Massima

È conforme ai principi di uguaglianza (exart. 3 della Cost.), di offensività (ex art. 25, comma 2, Cost.) e di proporzionalità (exart. 27 Cost.) la previsione della stessa pena edittale per le due distinte ipotesi di rapina cc.dd. propria e impropria rispettivamente previste dai commi 1 e 2 dell'art. 628 c.p.

Il caso

Il caso in esame trae origine da una questione di legittimità costituzionale prospettata innanzi al Tribunale di Palermo in merito all'art. 628, comma 2, c.p., che disciplina la fattispecie della c.d. rapina impropria, in relazione agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, che si assumevano violati.

Tale eccezione di costituzionalità, peraltro, era già stata avanzata, con ordinanza del 9maggio del 2019, dal Tribunale di Torino, nella quale si sottolinea come da sempre la dottrina abbia sollevato perplessità in merito alla ragionevolezza della stessa esistenza del delitto di rapina impropria come figura autonoma di «reato complesso» (ex art. 84 c.p.), che si sostituisce ai reati di furto e violenza privata. In particolare, l'aspetto più discusso ha, appunto, riguardato l'identità di trattamento sanzionatorio per la rapina propria e per quella impropria, che tanto nella coscienza comune, che nell'analisi criminologica, sono avvertite come molto diverse e connotate da differenti gradi di disvalore.

La questione

La questione in esame attiene al reato di rapina disciplinato dall'art. 628 c.p. La norma prevede al primo comma la c.d. rapina propria e al comma 2 la c.d. rapina impropria.

Nella prima fattispecie la condotta si caratterizza per l'uso della violenza o minaccia, finalizzata all'impossessamento della cosa mobile allo scopo di trarne profitto. La dottrina e la giurisprudenza maggioritaria intendono per violenza non solo la vis corporis corpori data, ma qualsiasi mezzo in grado di determinare uno stato di incapacità, totale o parziale, di agire o di volere, inclusa la c.d. violenza impropria. La minaccia, invece, è la prospettazione di un male ingiusto e futuro, il cui verificarsi dipende dall'autore, e che consiste nella lesione o messa in pericolo di beni giuridici di pertinenza del soggetto passivo del reato o di terzi a lui legati da particolari vincoli. La minaccia può rivolgersi tanto alla vittima in via diretta quanto a soggetti diversi, purché sia in grado di produrre l'effetto coercitivo sul possessore del bene mobile.

Nel caso, invece, della rapina impropria, di cui al comma 2, la violenza o la minaccia è esercitata immediatamente dopo la sottrazione della cosa, al fine di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o, alternativamente, di procurare a sé o ad altri l'impunità. Tale non è solo il mancato riconoscimento, ma anche la sottrazione a qualsiasi conseguenza penale del commesso reato, tra cui, ad esempio, la denuncia o l'arresto. L'attività di coercizione deve essere esercitata immediatamente dopo la sottrazione.

Per entrambe le ipotesi è prevista oggi la reclusione da cinque a dieci anni e la multa da 927 a 2.500 euro. Ciò premesso, posto il diverso atteggiarsi, nelle ipotesi previste dai due commi dell'art. 628 c.p., della cronologia fra l'aggressione alla persona, attraverso la violenza o minaccia, e l'aggressione al patrimonio,intesa come sottrazione del bene,è costituzionalmente legittima la previsione della stessa pena edittale per le due fattispecie?

La soluzione giuridica

Il Tribunale di Palermo rigetta l'istanza con cui si richiede di sollevare la questione di legittimità costituzionale suddetta e al fine di giungere a tale decisione preliminarmente, nell'ordinanza in commento, vengono specificati i requisiti richiesti per proporre validamente una istanza di eccezione di costituzionalità.

Nella specie, nella sopraindicata eccezione, devono, a pena di inammissibilità, essere indicati:

- l'atto oggetto di sindacato, cioè la norma in violazione della Costituzione; - il parametro di costituzionalità, inteso quale articolo della Costituzione violato; - ed il petitum, da intendersi come il tipo di pronuncia, da individuarsi specificatamente, che si richiede alla Corte Costituzionale.

Inoltre, deve motivarsi in ordine: - alla rilevanza, cioè alla concreta influenza della norma impugnata nel giudizio a quo; - e alla non manifesta infondatezza, cioè in relazione al ragionevole dubbio sull'incostituzionalità della norma ritenuta illegittima.

Ciò premesso, per quanto attiene al caso di specie, il Tribunale interessato ritiene che l'istanza che richiede di sollevare la questione di costituzionalità, per come argomentata dalla difesa, sia manifestamente inammissibile, perchè totalmente sguarnita dell'indicazione di un preciso petitum, che deve essere necessariamente presente ai fini dell'ammissibilità, non potendosi configurare come tale la generica indicazione della illegittimità della disposizione.

Tuttavia, poiché la legge costituzionalen.1/1948, all'art. 1, riconosce al giudice di sollevare d'ufficio la questione di legittimità, ferma l'obiettiva rilevanza della stessa, il Tribunale investito della questione è tenuto a esplicitare le ragioni nel caso di mancato esercizio di detto potere; pertanto, al tal fine, nell'ordinanza di rigetto in esame vengono dapprima ricostruiti i passaggi argomentativi sostenuti dal Tribunale di Torino, e poi fornite le motivazione della propria decisione di non sollevare la questione di costituzionalità.

L'ordinanza del tribunale di Torino. L'ordinanza del Tribunale di Torino incentra il proprio iter logico-argomentativo riguardo all'illegittimità dell'art. 628, comma 2, c.p. attraverso la disamina di tre parametri:

a) la violazione, sotto due distinti profili, del principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 della Cost.;

b) la violazione del principio di offensività, ex art. 25, comma 2, Cost.;

c) la violazione del principio di proporzionalità della pena, sancito dall'art. 27 Cost;

a) In relazione alla violazione del principio di uguaglianza, innanzitutto, il Tribunale afferma la diversità fenomenica della rapina propria da quella impropria, distinte dall'opposta cronologia fra l'aggressione alla persona (attraverso la violenza o minaccia) e l'aggressione al patrimonio (intesa come sottrazione del bene).

In particolare, con riferimento al comma 1 dell'art. 628 c.p. la legge prevede e punisce, con pene severe, la situazione in cui la violenza precede la sottrazione della cosa altrui. Il rigore del legislatore, a parere del rimettente, è qui pienamente giustificato perché colpisce un soggetto che ha dolosamente premeditato, come strumento fondamentale della sua azione delittuosa, l'aggressione all'incolumità fisica altrui. Il delitto di rapina propria si connota, dunque, quanto all'elemento oggettivo, per il ruolo centrale e primario dell'aggressione alla persona, la quale costituisce il primo approccio dell'agente alla vittima; quanto all'atteggiamento psicologico si connota, invece, per un allarmante atteggiamento della volontà, che non esita a progettare l'uso della violenza alla persona a fini patrimoniali.

Nel caso, invece, disciplinato al comma 2 la situazione di fatto è profondamente diversa. Qui, infatti, l'agente ha deciso di perseguire la finalità di illecito arricchimento in maniera non violenta, ma “clandestina” («furtiva», appunto); l'uso della violenza o minaccia, scartato come prima opzione, si verifica solo quando, immediatamente dopo la sottrazione, il ladro viene scoperto (ciò in quanto sia il fine di assicurare il possesso della refurtiva, sia quello di conseguire l'impunità, presuppongono necessariamente che taluno si sia accorto della condotta furtiva in atto); ecco allora che l'uso della violenza o minaccia, escluso in un primo momento dall'agente, viene innescato dalla reazione della vittima o di terzi che intervengano in suo ausilio.

Ciò detto, il fatto che la violenza segua alla sottrazione, e non la preceda, non sembra poter essere considerato irrilevante dal punto di vista criminologico. Tale circostanza, infatti, per il rimettente, delinea una diversa e meno grave struttura oggettiva del reato e un diverso atteggiamento soggettivo quanto a intensità del dolo e capacità a delinquere. Pertanto, la piena equiparazione delle due situazioni sul piano della «risposta» dell'ordinamento penale costituisce una parificazione arbitraria, che non tiene conto del diverso disvalore delle due condotte esaminate.

Secondo il Tribunale di Torino, inoltre, la disposizione dell'art. 628, comma 2, c.p. rivela una ulteriore disparità di trattamento, che si manifesta quando la situazione dell'autore di una rapina impropria sia raffrontata con quella di chi commetta dapprima un furto e poi, dopo un tempo apprezzabile, usi violenza per conservare la cosa sottratta e/o conseguire l'impunità.

La differenza tra le due situazioni risiede solo in un problematico elemento temporale: nel primo caso la violenza è esercitata «immediatamente dopo» la sottrazione, nel secondo è commessa dopo il trascorrere di un tempo più lungo. Tuttavia, è chiaro che la maggiore o minore distanza cronologica tra la sottrazione e l'uso della violenza sia un aspetto totalmente irrilevante sotto il profilo della gravità della condotta, infatti, in entrambi i casi si hanno un attacco al patrimonio e alla persona di eguale gravità sia sul piano oggettivo, che soggettivo.

La disposizione dell'art. 628, comma 2, c.p. appare, dunque, in contrasto con l'art. 3 Cost., anche perché tratta in maniera diversa situazioni di fatto che sul piano della condotta, del dolo, del pregiudizio alle vittime e di ogni altro aspetto penalmente significativo sono identiche. In definitiva, la disparità di trattamento sancita per la rapina impropria, in raffronto con la disciplina applicabile quando la violenza non segue immediatamente alla sottrazione, concerne aspetti normativi che a loro volta involgono principi di natura costituzionale, e si traduce perciò nella lesione di altri principi costituzionali fondamentali.

b) Con riguardo, invece, alla violazione del principio di offensività, il giudice a quo sottolinea l'impossibilità di differenziare il trattamento sanzionatorio in relazione al concreto disvalore che i fatti di rapina impropria possono concretamente assumere, i cui beni giuridici potrebbero trovare piena protezione già solo attraverso il combinato disposto degli artt. 624, 624 bis, 625 c.p. (rispettivamente furto, furto con strappo o in appartamento, potenzialmente aggravati), 610 c.p. (violenza privata) e 337 c.p. (resistenza a pubblico ufficiale), non ravvedendosi l'esigenza della costruzione di una ulteriore e più aspra fattispecie penale incriminatrice.

Più in particolare si chiarisce che attraverso l'espresso richiamo che l'art. 25, comma 2, Cost. fa al «fatto commesso» si è inteso riconoscere rilievo fondamentale, a fini punitivi, all'azione delittuosa per il suo obiettivo disvalore. Ne discende la costituzionalizzazione del «principio di offensività», che implica la necessità di un trattamento penale differenziato per fatti diversi e, prima ancora, la necessità di distinguere, in sede di redazione delle norme penali incriminatrici, i vari fenomeni delittuosi per le loro oggettive caratteristiche di lesività o pericolosità.

L'attuale disciplina giuridica della situazione in cui taluno debba rispondere di un furto e di una violenza privata (o resistenza a P.U.) commessa non immediatamente dopo al fine di conseguire il possesso della refurtiva o l'impunità, è rispettosa di questo principio. Per il furto è prevista, infatti, una pena minima edittale di sei mesi di reclusione più una multa, che si eleva nelle specifiche ipotesi di cui all'art. 624 bis c.p. e che può subire l'incidenza delle numerose aggravanti, di cui all'art. 625 c.p., e del giudizio di comparazione con eventuali attenuanti. Per quanto attiene alla violenza che segue alla sottrazione, l'art. 610 c.p. consente di graduare la pena detentiva da quindici giorni fino a quattro anni, mentre l'art. 337 c.p., ove la vittima della violenza sia un pubblico ufficiale, prevede pene da sei mesi a cinque anni di reclusione. A tutto questo si aggiunge la disciplina del cumulo giuridico previsto dall'art. 81 c.p.

Da quanto esposto emerge, dunque, che esiste un insieme di disposizioni dettagliate che consentono di ragguagliare la sanzione all'effettiva gravità del fatto concreto in tutte le sue sfaccettature.

La disposizione di cui all'art. 628, comma 2, c.p., invece, si caratterizza per una indifferenza rispetto alle caratteristiche concrete del fatto: qualunque sottrazione, quando sia immediatamente seguita da violenza o minaccia, ancorché lievi, è reputata dal legislatore meritevole di almeno quattro anni (oggi cinque) di reclusione. Alla stregua dell'art. 628, comma 2, c.p., se un tentativo di furto è seguito da un atto violento o minatorio tutte le “particolarità” di cui sopra vengono «azzerate».

c) Infine, il rimettente evidenzia la violazione del principio di proporzionalità, stante l'eccessiva durezza del trattamento sanzionatorio in sé stesso considerato, che non consentirebbe, in concreto, di mirare alla funzione rieducativa, apparendo piuttosto un esempio di tara esclusivamente retributiva della sanzione penale.

Assume rilievo sul punto, in particolare, il comma 2 dell'art. 27 Cost., secondo cui «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». La formulazione della norma richiama e costituzionalizza il principio di proporzionalità della pena, perché una pena sproporzionata alla gravità del reato commesso, da un lato, non può correttamente assolvere alla funzione di ristabilimento della legalità violata; dall'altro, non potrà mai essere sentita dal condannato come rieducatrice; essa gli apparirà solo come una irragionevole vendetta dello Stato, idonea a suscitare ulteriori istinti antisociali.

Ciò premesso, le considerazioni svolte rendono evidente, a parere del giudice a quo, come l'ordinamento non necessiti della disposizione di cui all'art. 628, comma 2, c.p., ciò in quanto le norme che disciplinano le varie ipotesi di furto consentono una repressione penale adeguata alle caratteristiche delle diverse condotte predatorie possibili, mentre le disposizioni in tema di violenza e minaccia come strumento di coazione dell'altrui volontà consentono parimenti un'adeguata repressione della successiva condotta violenta del ladro, sia che essa segua immediatamente alla sottrazione, sia che sia attuata dopo un tempo più lungo.

La decisione del tribunale di Palermo. Una volta illustrate le argomentazioni svolte dal Tribunale di Torino per sostenere la questione di legittimità costituzionale suddetta, il Tribunale di Palermo afferma, nell'ordinanza in esame, di non condividere le conclusioni sostenute dal primo.

a) Nella specie, con riferimento alla violazione del principio di uguaglianza nella sua prima specie, si sottolinea come il delitto di rapina, sia nella forma propria che in quella impropria, è posto a presidio degli stessi beni giuridici, e cioè la libertà personale, ex artt. 13 Cost., 5 CEDU e 6 Carta di Nizza; la salute ed integrità fisica, di cui agli artt. 32 Cost., 2 CEDU e 3 Carta di Nizza; e la proprietà, ex artt. 41 Cost., 1 prot. Add. CEDU, 17 Carta di Nizza. Pertanto, quello che distingue il reato di rapina propria da quella impropria è sostanzialmente l'ordine cronologico con cui si verifica l'offesa dei valori protetti, contraddistinta, però, dalla stessa intensità sia nel primo, che nel secondo caso.

Ciò premesso, si legge nell'ordinanza, non appare condivisibile l'assunto secondo il quale, sotto il profilo criminologico, la violenza “autogena”, cioè predeterminata, in quanto caratteristica genetica dell'azione, sia più grave di quella “eterogena”, che si verifica solo in un contesto di relazione, cioè in caso di reazione della vittima. Ciò in quanto la sussistenza del predetto contesto autore-vittima non elimina affatto la possibilità che colui che voglia solo perpetrare un furto, proprio in virtù della reazione altrui, desista e abbandoni il campo d'azione.

Il rapinatore “improprio”, dunque, pone in essere una condotta altrettanto riprovevole rispetto a quello “proprio” nella misura in cui, nonostante la reazione della vittima, egli sia disposto a offendere, con la stessa carica lesiva dell'integrità fisica e della libertà individuale dell'offeso, rispetto a violenza o minaccia poste in essere a monte dell'agire, i predetti e ulteriori beni giuridici, allo scopo di ottenere l'ingiusto profitto. A ciò si aggiunga che, secondo il comune criterio dell'id quod plerumque accidit, nell'animo del soggetto che sottrae il bene non può che esservi la rappresentazione, e conseguente volontà, che il soggetto titolare reagisca, ciononostante, il reo vuole ottenere il profitto e con la propria violenza o minaccia raggiunge, o tenta di raggiungere, lo scopo desiderato.

In definitiva, rapina propria e impropria sono in astratto contraddistinte da identica gravità fattuale, sicché appare pienamente giustificato lo stesso trattamento sanzionatorio previsto dal legislatore.

Per quel che riguarda, poi, la ritenuta violazione del principio di uguaglianza in termini comparativi fra considerazione giuspenalistica della rapina impropria e delle fattispecie, combinate, di furto e successiva resistenza a pubblico ufficiale intervenuto per eliminare la situazione antigiuridica verificatasi, va detto che le fattispecie richiamate dal rimettente, quali situazioni uguali trattate in modo differente (e più mite), non appaiono sovrapponibili. Infatti, il dato della immediatezza fra sottrazione e violenza o minaccia non solo rende unitario il fenomeno criminale, ma fa sì che questo risulti contraddistinto da una maggiore pericolosità sociale, rispetto a due fatti delittuosi verificatisi autonomamente, quali sono il furto e la successiva resistenza ai militari intervenuti (fatti che sotto il profilo penalistico possono, al massimo, porsi in continuazione). Inoltre, vi è un ulteriore elemento di distinzione fra le fattispecie menzionate, mentre nell'art. 337 c.p. l'offeso è normalmente un soggetto qualificato, dotato della forza pubblica, che interviene in una qualità precisa, diverso è il caso del privato cittadino, normalmente sguarnito di autonomi strumenti di tutela, proprio perchè è lo Stato a godere del monopolio della forza.

b) e c) Alla luce di quanto esposto, secondo il Tribunale di Palermo, non trovano fondamento nemmeno i rilievi di incostituzionalità del comma 2 dell'art. 628 c.p. in relazione ai princìpi di offensività e proporzionalità della pena. Ciò in quanto se naturalisticamente sono diversi i fatti oggetto delle norme richiamate appare evidente che la semplice somma di furto e resistenza o violenza privata non sia in grado di soddisfare l'esigenza di tutela dell'ordinamento, essendo queste poste a presidio di singoli beni, la cui violazione non contestuale appare certamente meno grave di quella posta in essere in condizioni di unitarietà. Da essa discenderà una maggiore esigenza di rieducazione, che si tradurrà in un tempo più ampio di esecuzione penale, che non appare in alcun modo violativa del richiamato principio di proporzionalità.

D'altronde, solo dalle condizioni di fatto potrà stabilirsi in concreto quale sia la effettiva gravità della condotta, potendo il giudice di merito fare ricorso, a monte, alle circostanze aggravanti e attenuanti e, a valle, ai criteri di cui al 133 c.p., affinché la fattispecie concreta venga tradotta in senso giuridico di modo conforme ai canoni costituzionali.

In conclusione

Il Tribunale di Palermo, dopo aver ricostruito le ragioni che hanno indotto il Tribunale di Torino,

lo scorso 9 maggio, a sollevare questione di legittimità costituzione in merito al paritario trattamento sanzionatorio previsto per le due distinte ipotesi di rapina di cui all'art. 628 c.p., rigetta la medesima istanza.

Nella specie, con riferimento alla violazione del principio di uguaglianza, ha affermato che poiché in entrambe le ipotesi il bene giuridico tutelato è lo stesso (libertà personale), quello che distingue il reato di rapina propria da quella impropria è l'ordine cronologico con cui si verifica l'offesa dei valori protetti, contraddistinta, però, dalla stessa intensità sia nel primo, che nel secondo caso.

Per quel che riguarda, invece, la violazione del principio di uguaglianza in termini comparativi fra considerazione gius-penalistica della rapina impropria e delle fattispecie, combinate, di furto e successiva resistenza a pubblico ufficiale intervenuto per eliminare la situazione antigiuridica verificatasi, si afferma la non sovrapponibilità delle fattispecie richiamate, in quanto il dato della immediatezza fra sottrazione e violenza/minaccia non rende unitario il fenomeno criminale, ma fa sì che questo risulti contraddistinto da una maggiore pericolosità sociale, rispetto a due fatti delittuosi verificatisi autonomamente (il furto e la successiva resistenza ai militari intervenuti). Inoltre, diversi sono i soggetti attivi previsti dalle norme di riferimento.

Infine, secondo il Tribunale interessato, infondati risultano pure i rilievi di incostituzionalità della norma in esame in relazione ai princìpi di offensività e proporzionalità della pena. Ciò in quanto se sono naturalisticamente diversi i fatti oggetto delle norme richiamate è evidente che la semplice somma di furto e resistenza/violenza privata non sia in grado di soddisfare l'esigenza di tutela dell'ordinamento, essendo queste poste a presidio di singoli beni, la cui violazione non contestuale è certamente meno grave di quella posta in essere in condizioni di unitarietà.

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