Espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale con citazione diretta: illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 3-quater, del TUI

04 Marzo 2020

È costituzionalmente illegittimo l'art. 13, comma 3-quater, del d.lgs. 286/1998 nella parte in cui non prevede che, nei casi di decreto di citazione diretta a giudizio ex art. 550 c.p.p., il giudice possa…
Massima

È costituzionalmente illegittimo l'

art. 13, comma 3-

quater

, del d.lgs. 286/1998

(

Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero

) nella parte in cui non prevede che, nei casi di decreto di citazione diretta a giudizio

ex

art. 550 c.p.p.

, il giudice possa rilevare, anche d'ufficio, che l'espulsione dell'imputato straniero è stata eseguita prima che sia stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio e che ricorrono tutte le condizioni per pronunciare sentenza di non luogo a procedere.

Il caso

L'autorità rimettente è il Tribunale Ordinario di Firenze investito del giudizio penale, con citazione diretta ai sensi dell'

art. 550 c

.

p

.

p

.

, nei confronti di un cittadino extracomunitario imputato del reato di furto in abitazione il quale, tuttavia, al momento dell'emissione del decreto che ha disposto il giudizio, risultava già espulso dal territorio dello Stato in forza dell'esecuzione coattiva di un provvedimento di espulsione amministrativa.

La questione

L'

art. 13, comma 3-

quater

,

del

d.lgs.

n. 286/1998

(c.d.

Testo Unico Immigrazione

) prevede che - nei casi di espulsione amministrativa del cittadino extracomunitario di cui ai commi precedenti dello stesso articolo - «il giudice, acquisita la prova dell'avvenuta espulsione, se non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio, pronuncia sentenza di non luogo a procedere».

Già in un precedente arresto, la Corte Costituzionale, mediante un'interpretazione adeguatrice della norma osservata, ne ha esteso l'applicabilità anche ai procedimenti relativi ai reati per i quali non sia contemplato, come nel giudizio a quo, lo svolgimento dell'udienza preliminare: da allora, il P.M., a fronte dell'intervenuta espulsione richiede al G.I.P. la pronuncia di non luogo a procedersi ex art. 13, comma 3-quater, cit. (ord. 143/2006).

La norma indagata, ancorché così riletta alla luce della prefata pronuncia, è parsa al giudice rimettente di dubbia conformità ai precetti costituzionali nella parte in cui, ammettendo la pronuncia di non luogo a procedersi nelle sole ipotesi in cui

non sia “ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio”,

finisca per precludere, al giudice del dibattimento

investito con citazione diretta,

la possibilità di pronunciare sentenza di non luogo a procedersi anche ove l'azione penale sia stata solo erroneamente esercitata dal P.M. per essere già intervenuta l'espulsione dello straniero al momento dell'emissione del decreto di citazione diretta.

A parere del giudice a quo l'art. 13, comma 3-quater cit., così (necessariamente) interpretato, sarebbe foriero di un'irragionevole discriminazione almeno sotto un triplice profilo: (i) tra i procedimenti in cui è prevista l'udienza preliminare e i procedimenti a citazione diretta a giudizio, perché solo nei primi la difesa dello straniero si troverebbe nella concreta possibilità, offerta dalla sede preliminare, di eccepire il difetto di procedibilità ai sensi e ai fini della norma censurata; (ii) tra gli stessi imputati per i reati procedibili con citazione diretta ex art. 550 cit. che inevitabilmente si vedrebbero discriminati in ragione del corretto o meno operato del pubblico ministero nel rilevare la causa di non procedibilità (iii) tra P.M. e l'imputato, in violazione del principio, proprio del sistema accusatorio, di partecipazione

dell'accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado.

Per le stesse ragioni, ritiene il Tribunale di Firenze, la norma violerebbe il principio del contraddittorio e della parità di condizioni tra le parti processuali di cui agli artt. 24, 101, comma 1 e 111 della nostra Carta Costituzionale.

Le soluzioni giuridiche

La Consulta ripercorre, con particolare dedizione, l'evoluzione nel tempo della regola di settore contenuta nella norma censurata, ritenendo la dimensione diacronica utile per comprenderne la ratio legis.

Fino al 2002, rammenta il Giudice delle leggi, la disciplina di settore nulla prevedeva in ordine alla procedibilità dell'azione penale per eventuali reati commessi dallo straniero irregolare, per il quale, pertanto, il procedimento (e processo) penale proseguiva normalmente anche nel caso di sua intervenuta espulsione. A tutela, poi, dell'esercizio del diritto di difesa dell'immigrato espulso e sottoposto a procedimento penale in Italia, l'

art. 17 del T.U.I.

prevedeva – e prevede tuttora – l'autorizzazione dello stesso a rientrare in Italia per il tempo strettamente necessario per l'esercizio del diritto di difesa.

L'introduzione, da parte della norma censurata, di quella che è stata autorevolmente definita come una “condizione di procedibilità atipica” (Corte Cost., ord. nn. 142 e 143 del 2006), risale alla

legge 30 luglio 2002, n. 189

, recante “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, adottata con l'esplicito intento di «contrastare in modo più efficace l'immigrazione clandestina» (così la relazione introduttiva al disegno di legge).

La ratio della novella è da ravvisarsi, osserva la Corte, nel prevalente interesse pubblico a limitare il rientro, fosse anche per motivi di difesa, dell'immigrato irregolare già espulso (stante anche la difficoltà concreta di dar seguito ai rimpatri forzati): interesse a tal segno prevalente, da giustificare la rinuncia da parte dello Stato all'esercizio della potestà punitiva mediante l'introduzione del beneficio in commento che, per costante giurisprudenza di legittimità, resta risolutivamente condizionato

ex

art. 345 c.p.p

.

al mancato illegale rientro in Italia dello straniero (

Cass.

pen.

, Sez. VI,

28 marzo 2012,

n.

12830

). Significativa dell'equilibrio individuato dal legislatore nel bilanciamento dei diversi interessi in gioco è certamente, poi, l'abrogazione del comma 3-sexies dell'art. 13 cit., intervenuta con il

d.l. 144/2005

(recante Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale, convertito, con modificazioni, in

legge 31 luglio 2005, n. 155

), per effetto della quale tale assetto di interessi pubblici neppure è derogato a fronte della commissione di reati particolarmente gravi.

In questa prospettiva di stampo securitario, suggerisce la Consulta, devono essere lette anche altre misure introdotte dal legislatore al fine di agevolare l'esecuzione delle espulsioni: da un lato, l'introduzione del silenzio–assenso dell'autorità giudiziaria procedente a fronte della richiesta di rilascio di nulla osta all'espulsione dello straniero irregolare; dall'altro, la circoscrizione del divieto di rilascio del prefato nulla osta alle sole ipotesi di “presenza di inderogabili esigenze processuali valutate in relazione all'accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all'interesse della persona offesa” (art. 13, comma 3, cit.).

Ricostruita in detti termini la ratio informatrice della norma investigata, il Giudice delle leggi ribadisce quanto dallo stesso già affermato, oltre tredici anni prima, nell'ordinanza n. 143, e cioè che l'art. 13, comma 3-quater, cit. non può non trovare applicazione – per la contraddizione che non lo consente - anche ai reati perseguibili con il rito della citazione diretta di cui all'

art. 550

c.p.p.

, al perseguimento dei quali, evidentemente, lo Stato ha un interesse addirittura diminuito attesa la loro minor gravità («

siffatte

rationes

, peraltro, “non soltanto non depongono nel senso della limitazione dell'operatività dell'istituto ai soli episodi criminosi di maggiore gravità, ma militano, semmai, in direzione esattamente inversa»

, pag. 6 della sentenza in commento). Né diversamente è dato concludere nell'ipotesi, qui investigata,

di decreto di citazione diretta emesso successivamente all'esecuzione dell'espulsione. L'ipotesi, richiamata a titolo solo esemplificativo dalla Corte, è quella della mancata comunicazione, da parte del questore al PM, dell'avvenuta esecuzione dell'espulsione. La Corte afferma che ipotesi come quella citata non possono giustificare, quale inconveniente di fatto, un trattamento differenziato per fattispecie da ritenersi analoghe e pienamente comparabili in ragione del decisivo elemento comune costituito dall'esecuzione dell'espulsione prima dell'emissione del provvedimento che dispone il giudizio.

Tali considerazioni, impongono, a parere della Consunta, di dover ammettere che il giudice possa rilevare d'ufficio – o in ipotesi anche a seguito di eccezione della difesa dell'imputato o finanche dello stesso PM – la sussistenza dei presupposti per la pronunciare la sentenza di non luogo a procedere contemplata dalla norma censurata, anche in una sede processuale diversa dall'udienza preliminare e quindi, contrariamente al dettato normativo della norma, anche dopo l'emissione del decreto di citazione diretta, in sede di dibattimento. Con conseguente irrimediabilmente l'illegittimità costituzionale, in parte qua, della disposizione osservata per violazione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza (

art. 3

, comma 1, Cost.

). Assorbiti gli altri parametri di legittimità costituzionali invocati dal giudice rimettente.

Osservazioni

Nella pronuncia in commento, la Corte finalmente dipana il filo di un discorso lasciato dalla stessa sospeso nella più volte richiamata ordinanza n. 143 del 2006.

Oggi come allora, la chiave di volta del sindacato della Corte è l'art. 3 della nostra Carta Costituzionale.

Lungi dal voler ripercorrere in questa sede le complesse discussioni in ordine alle molteplici forme assunte dall'art. 3 cit. nel giudizio costituzionale, è opportuno quantomeno accennare ai confini entro i quali si colloca il percorso argomentativo seguito dal Giudice delle leggi nella pronuncia in commento.

Ed invero, sebbene - come pure si è commentato – le conclusioni rassegnate dalla Consulta nella sentenza in parola appaiano la logica (quanto scontata) conseguenza dell'iter argomentativo della motivazione dell'ordinanza n. 143 del 2006, nel suo più recente arresto la Corte esplicita e sviluppa - fino a farne dipendere il proprio convincimento - il profilo della ratio che informa

la regola di diritto osservata.

Ed è, infatti, proprio la voluntas legis sottesa all'art. 13, comma 3-quater cit. – come si è fatta chiara alla Corte da un'analisi diacronica e sistematica della disciplina di settore – il punto di doppio avvitamento dell'arresto della Consulta.

In primo luogo, del sindacato di ragionevolezza o, come pure è stata definita, di “razionalità pratica” (Sentenza

C

orte

Cost. 172/1996

). Un sindacato non già sulla ratio, che risulta dal bilanciamento operato dal legislatore e la cui sindacabilità per manifesta irragionevolezza

è stata già esclusa dal Giudice delle leggi con ordinanza n. 142/2006

; per contro, un sindacato rispetto alla ratio.

E proprio rispetto alla ratio - che assurge a parametro interposto di ragionevolezza delle misure adottate dal legislatore - che la Consulta fonda il proprio giudizio di illegittimità costituzionale ritenendo tradita la finalità perseguita dal legislatore nella parte in cui la norma finisca per escludere, quale inconveniente di fatto (id est il mancato rilevamento da parte del PM, prima dell'esercizio dell'azione penale, del difetto di procedibilità), i reati meno gravi dall'operatività del beneficio accordato dal legislatore in termini di non procedibilità del giudizio penale.

Ma, come anticipato, la ratio legis assume rilevanza anche sotto un ulteriore profilo che viene in rilievo ove si abbandoni la prefata prospettiva, marcatamente pubblicistica, per focalizzare l'obiettivo sull'individuo e sul principio di eguaglianza: principio che, come noto, si è evoluto nel tempo alla luce della giurisprudenza costituzionale, nel senso di non escludere (ma anzi imporre) una differenza di trattamento nel caso sussista una “giustificazione legittima e ragionevole, sottoposta ad un rigoroso test di proporzionalità rispetto all'obiettivo perseguito” (sentenza n. 227 del 2010).

Ed infatti, proprio tenuto conto della voluntas legis, il Giudice delle Leggi conclude per la violazione del divieto di non discriminazione ritenendo ingiustificata la disparità di trattamento riservata dalla norma censurata a ipotesi che devono essere considerate, ai fini in esame, “analoghe e pienamente comparabili in ragione del decisivo elemento comune costituito dall'esecuzione dell'espulsione prima dell'emissione del provvedimento che dispone il giudizio”.

Concludendo, la percezione di chi scrive è quella di essere di fronte ad una declaratoria di illegittimità costituzionale in cui la voluntas legis, quale insindacabile parametro interposto del sindacato di ragionevolezza e eguaglianza, rappresenta la variabile indipendente di una funzione matematica sulla quale, dopo anni di evidenza (almeno a decorrere dall'ordinanza del 143/2006), il Giudice delle leggi è oggi intervenuto a rimuoverne l'errore riuscendo nel risultato previsto dal legislatore.

Guida all'approfondimento

MOROZZO DELLA ROCCA,

Immigrazione asilo e cittadinanza, Maggioli, 2018, 243 ss.;

L. D'ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano, 2005

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