Parcheggio irregolare e reato di violenza privata

06 Marzo 2020

La sentenza in commento concerne un tipico caso di condanna per il reato di violenza privata, consistente nell'aver intenzionalmente parcheggiato la propria auto all'ingresso di un cortile in uso ad altri condomini, in modo tale da impedirne l'accesso e l'uso alla persona offesa avente diritto di accedervi, e nell'aver rifiutato, nonostante le sollecitazioni di rimuovere la vettura, così sortendo l'effetto coattivo violento tipico della fattispecie incriminatrice.
Massima

Risponde penalmente del reato di violenza privata ex art. 610 c.p. colui che si rifiuta di rimuovere l'auto parcheggiata all'ingresso del cortile comune in uso anche ad altri condomini, così impedendone l'accesso, con la coscienza e la volontà di comprimere la libertà di autodeterminazione della parte offesa.

Il caso

Tizio si rifiuta di rimuovere l'auto parcheggiata all'ingresso di un cortile in uso anche ad altri condomini, così impedendo ad uno di questi di poter accedere e prelevare degli oggetti di sua proprietà ivi depositati. Tizio, in presenza della polizia giudiziaria accorsa sul luogo, espressamente dichiara di non aver volutamente spostato l'auto e di aver così voluto ostruire l'accesso all'area condominiale.

Avverso la sentenza della Corte di Appello di condanna, la difesa dell'imputato eccepisce una erronea interpretazione della legge penale e vizio di motivazione sotto il profilo dell'inutilizzabilità delle dichiarazioni autoaccusatorie rese dall'imputato alla polizia giudiziaria, e in ordine alla erronea applicazione dell'art. 610 c.p., in quanto il mero rifiuto di rimuovere l'auto, all'espressa richiesta del condomino, non sarebbe equiparabile ai caratteri della violenza e della minaccia che connotano l'azione penalmente rilevante nel reato di violenza privata.

La questione

La questio iuris concerne l'applicazione dell'art. 610 c.p. e, in particolare, se possa essere assimilata alla violenza e alla minaccia (requisiti questi che connotano la condotta tipica) il mero doloso rifiuto di interrompere una condizione di limitazione dei diritti altrui volontariamente determinata.

Occorre premettere che il reato di violenza privata, di cui all'art. 610 c.p., punisce la condotta di “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare o omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”. Esso resta integrato ogni volta che la condotta dell'agente, connotata da violenza o da minaccia, sia idonea a produrre una coazione personale del soggetto passivo, privandolo della libertà di determinarsi e di agire in piena autonomia.

La prima questione interpretativa che pone la norma concerne la nozione di violenza, all'apparenza semplice ma in realtà di difficile determinazione e controvertibile.

La giurisprudenza è solita includere nel concetto di violenza tanto quella “propria”, che riguarda l'ipotesi di impiego di energia fisica sulle persone o sulle cose (in quest'ultimo caso, con conseguenti danni materiali), esercitata direttamente o per mezzo di uno strumento, che quella “impropria”, comprensiva cioè in via residuale di ogni altra ipotesi non riconducibile all'impiego di energia fisica, ma diversa dalla minaccia ( che invece consiste nella mera prospettazione di un male ingiusto). Ebbene, nel contesto della norma in commento, la violenza consiste non soltanto nell'impiego di una vis corporis corpori data, ma comprende l'uso di qualsivoglia mezzo fisico diretto a raggiungere l'effetto di coazione.

Pertanto, accedendo a questa nozione di “violenza impropria”, interpretata in senso assai ampio ed estensivo, comprensivo di qualunque mezzo usato e a prescindere da qualunque grado di pressione esercitato sulla vittima, si ritiene che sia decisivo, ai fini dell'integrazione del reato, l'effetto coattivo dell'altrui libertà personale. Il fatto incriminato consiste infatti nel “costringere altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”. Perciò, ai fini dell'integrazione del delitto, è necessario che la condotta - sostanzialmente a forma libera, malgrado le connotazioni della violenza e della minaccia - comporti la perdita o comunque la compressione di una libertà di autodeterminazione (di movimento, di uso, ecc.) in danno alla vittima.

Tra le modalità della condotta e l'evento deve però sussistere un rapporto di causalità, nel senso che il comportamento della vittima deve essere conseguenza diretta della condotta tenuta dall'autore, anche se non occorre che l'effetto coercitivo dell'autodeterminazione in capo alla persona offesa sia assoluto, potendo anche condotte che rendono solo meno agevole l'esercizio del diritto, non impedendolo, integrare la fattispecie in esame, in quanto decisivo è l'effetto di dover tollerare o fare qualcosa. Si ritiene, infatti, che la costrizione, quale evento del reato, ricomprenda nel suo ambito semantico sia la coartazione assoluta sia quella relativa.

Per queste ragioni - alla luce di un'interpretazione estensiva ai limiti del divieto di analogia - la giurisprudenza ritiene che solo la condotta meramente passiva non possa integrare l'elemento oggettivo del reato, riconducendo nella fattispecie penale in esame anche casi di parcheggio irregolare, ovvero qualunque condotta anche assai latamente connotata dai requisiti della violenza impropria (certamente non si configura la violenza propria, che suppone l'uso della forza su persone o su cose, né quella della minaccia, in quanto non vi è la prospettazione di un male ingiusto, ma una condotta attiva), purché essa comporti una limitazione delle libertà della parte offesa.

Sotto il profilo soggettivo, il reato è punito a titolo di dolo generico: perciò occorre la conoscenza e la volontà di costringere taluno, mediante l'uso di violenza o di minaccia, a fare tollerare o omettere qualcosa. E' invece irrilevante il fine dell'azione.

Le soluzioni giuridiche

Ai motivi di ricorso, la Corte di Cassazione risponde ribadendo la giurisprudenza consolidata che ha ravvisato l'ipotesi di violenza privata nel caso di limitazione del diritto di uso o di accesso di luoghi privati o comuni, soprattutto quando risulti in modo inequivocabile dimostrata la coscienza e volontà (il dolo) di impedire o ostacolare l'esercizio di un diritto, come nelle ipotesi in cui il proprietario dell'auto parcheggiata in modo non ortodosso si rifiuti espressamente di rimuovere l'ostacolo, ovvero quando dalle risultanze probatorie emerga oltre ogni ragionevole dubbio che la condotta non sia imputabile a titolo di colpa.

Ad esempio, la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato il reato di violenza privata, per aver intenzionalmente parcheggiato la propria autovettura all'interno del cortile condominiale in modo tale da impedire l'uscita di quella della vittima e, quindi, omettendo, nonostante le ripetute sollecitazioni, di rimuovere detta autovettura, in cui l'effetto coattivo “violento” consiste nell'aver costretto la persona offesa a restare a lungo sul posto anzichè allontanarsi come essa avrebbe voluto con il proprio automezzo. In particolare, la condotta penalmente rilevante si è ravvisata nel momento in cui il reo ha opposto un netto rifiuto all'invito di spostarla da parte di quest'ultimo per potersi allontanare (Cass. pen.,sez. V, 28 febbraio 2011, n. 7592).

Altrettanto, con sentenza del 2017, la Cassazione aveva individuato il reato di violenza privata nella condotta di colui che occupa il parcheggio riservato ad una specifica persona invalida in ragione del suo status, impedendone l'accesso, e quindi privandola della libertà di autodeterminazione e di azione (Cass. pen. n. 17794/2017).

Infine, con la sentenza n.1912/2018, la Corte di Cassazione ha confermato questo indirizzo interpretativo, riconoscendo rilevanza penale alla condotta del condomino che parcheggiando malamente l'autovettura impedisce al vicino di effettuare agilmente la manovra, ribadendo quindi la illiceità penale dei c.d. atti emulativi sulla strada, ovvero di quelle condotte che, pur costituendo esercizio di un diritto, sono finalizzate esclusivamente alla compressione di un diritto altrui. Si veda in proposito, fuori dall'ambito dei rapporti di vicinato e condominiali, il caso in cui l'imputato aveva parcheggiato la propria autovettura dietro quella della parte offesa e aveva opposto un rifiuto all'invito di quest'ultima di spostarla (Cass. pen., sez. I, 4 luglio 2005, n. 24614).

Osservazioni

Dalla rassegna giurisprudenziale in esame, è possibile cogliere gli elementi costitutivi dell'applicazione del reato di violenza privata nell'applicazione al caso de quo. Esso si compone di alcuni elementi fattuali, indispensabili ai fini dell'offesa sul bene giuridico e ai fini della consumazione: il parcheggio irregolare; la limitazione del diritto di autodeterminazione o di movimento della parte offesa; il rifiuto di spostare l'auto all'espressa richiesta della parte offesa.

Occorre, infatti, evidenziare che solo il netto rifiuto può perfezionare il delitto di violenza privata, connotando così inequivocabilmente con i caratteri della violenza “impropria” sul piano oggettivo la condotta di parcheggio irregolare come “costringimento a fare, tollerare o omettere”, e indiziando sul piano soggettivo con la presenza del dolo la mera condotta, che, altrimenti, ben potrebbe essere riconducibile ad una mera negligenza (colpa).

Il reato, infatti, nel caso di parcheggio irregolare, si manifesta e perfeziona completamente con il rifiuto a rimuovere la causa di compressione della libertà altrui, e non nel mero elemento oggettivo che, in sé considerato, non assume le connotazioni offensive richieste dall'art. 610 c.p., il quale richiede sia i caratteri della violenza e della minaccia, sia l'inequivocabile volontà di costringere taluno a fare o omettere qualcosa, e non la mera negligenza o maleducazione stradale.

Guida all'approfondimento

Fiandaca - Musco, Diritto penale parte speciale, I delitti contro la persona, Bologna, 2015, 209

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