Spazzacorrotti: la Consulta si esprime sulla natura delle norme attinenti la fase esecutiva della pena

Lorenzo Cattelan
09 Marzo 2020

È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost., l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis...
Massima

È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 25, secondo comma, Cost., l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 c.p. e della sospensione dell'ordine di esecuzione della pena prevista dall'art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; è ulteriormente illegittimo l'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, per contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati per uno dei reati ivi elencati che, prima dell'entrata in vigore della legge medesima, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio stesso.

Il caso

Con la rivoluzionaria sentenza in commento i giudici della Consulta hanno deciso, riunendole, undici ordinanze di rimessione che hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art.1, comma 6, lettera b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici).Per effetto della citata normativa, nota col nome di legge spazzacorrotti, i reati commessi ai danni della P.A. sono stati inclusi nel catalogo di cui all'art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354 (di seguito ord. pen.), con la conseguenza che, in relazione agli stessi, la concessione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione è ora subordinata alla collaborazione del condannato con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-terord. pen. e dell'art. 323-bis c.p., oppure alla impossibilità o irrilevanza della collaborazione medesima (art. 4-bis, comma 1-bis, ord. pen.). La norma viene censurata per la sua portata retroattiva, ossia per la mancanza un regime transitorio che dichiari applicabile la norma ai soli fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore.

Nel dettaglio, quattro ordinanze di rimessione sono originate dai Tribunali di Sorveglianza di Venezia, Taranto, Potenza e Salerno a seguito di istanze di concessione di benefici (permessi premio) o misure alternative alla detenzione (detenzione domiciliare, affidamento in prova al servizio sociale e semilibertà) da parte di condannati per reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Per tutte si riporta il caso sottoposto all'attenzione dai giudici di sorveglianza di Venezia, che per primi (in data 8 aprile 2019) hanno sollecitato l'intervento della Corte Costituzionale.

A. B., condannato ad anni tre di reclusioneper aver commesso, dal 2002 al 2011, i reati di cui agli artt. 110, 81, comma 2, 318, 319, 319-quater e 321 c.p.ha presentato da libero, a seguito di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p., istanza di affidamento in prova al servizio sociale, in data antecedente all'entrata in vigore della legge c.d. spazzacorrotti.Le risultanze istruttorie sono parse favorevoli all'interessato, attesa la regolare condotta serbata in sede di regime cautelare, l'avvenuto pagamento di un principio di risarcimento del danno nonché la positiva relazione d'indagine socio-familiare dell'UEPE competente. Tuttavia, il Tribunale di Sorveglianza, preso atto all'efficacia retroattiva della citata legge spazzacorrotti, si è trovato nell'impossibilità di applicare la misura alternativa richiesta dall'istante dal momento che, secondo consolidata giurisprudenza, nella specifica fase de qua il giudice sarebbe tenuto ad applicare anche le modifiche normative sopravvenute rispetto al momento della sospensione dell'esecuzione (ex multis Cass. pen., sez. I, 18 dicembre 2014, n. 52578).

Le restanti ordinanze di rimessione, invece, sono state pronunciate dai giudici dell'esecuzione (nella specie, Corte d'appello di Lecce, GIP presso il Tribunale di Cagliari, GIP presso il Tribunale di Napoli, Tribunale ordinario di Brindisi, GIP presso il Tribunale di Caltanissetta), investiti di istanze volte ad ottenere la sospensione o la declaratoria di illegittimità di ordini di esecuzione della pena emessi nei confronti di condannati per reati contro la pubblica amministrazione, commessi prima dell'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019. Tali ordini di esecuzione non sono stati sospesi, per effetto dell'inclusione del reato per il quale l'interessato è stato di volta in volta condannato nell'elenco dei delitti di cui all'art. 4-bisord. pen., in relazione ai quali l'art. 656, comma 9, lettera a), c.p.p. prevede, per l'appunto, il divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.

Anche in questo caso, a titolo esemplificativo, si riporta il caso attinente all'ordinanza più tempestiva (Corte D'Appello di Lecce, ord. 4 aprile 2019).

In relazione alla pena residua di anni tre, mesi dieci e giorni due di reclusione comminata per i reati di cui agli artt. 81, 110 e 314 c.p., commessi tra il 19 maggio 2000 e il 21 marzo 2002, la Procura generale di Lecce nel febbraio 2019 ha emesso nei confronti di R.B. L. ordine di esecuzione dell'ordine di carcerazione (senza previa sospensione). Per l'effetto di tale atto, l'interessato è stato condotto in carcere pur possedendo i potenziali requisiti per fruire di una misura extramuraria. Ciò posto, il giudice dell'esecuzione, compulsato dai legali del condannato ha ritenuto non infondate le questioni di illegittimità costituzionale, dal momento che dal loro accoglimento deriverebbe la possibilità per R.B. L. di ottenere l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione e di presentare da libero l'istanza di concessione di misure alternative alla detenzione.

Le questioni

La Corte Costituzionale è chiamata a stabilire se la mancata limitazione degli effetti dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019 ai soli condannati per fatti commessi successivamente alla sua entrata in vigore sia compatibile:

con l'art. 25, secondo comma, Cost. e con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 della CEDU, sotto il profilo del principio di legalità e non retroattività della pena; e ciò in quanto il divieto di applicazione retroattiva delle modifiche normative che aggravano la pena prevista per il reato comprenderebbe altresì le modifiche normative che, come quella in esame, restringano presupposti e condizioni di accesso a benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione;

con il diritto di difesa di cui all'art. 24, secondo comma, Cost., dal momento che la modifica normativa operata dalla disposizione censurata potrebbe potenzialmente vanificare le strategie processuali degli imputati poi condannati, i quali potrebbero, ad esempio, aver scelto un rito alternativo confidando in una diminuzione di pena sufficiente per poter beneficiare della sospensione dell'ordine di esecuzione della pena;

con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., in relazione ai principi di ragionevolezza e funzione rieducativa della pena, attesa l'automatica incidenza, sul percorso rieducativo dei condannati, delle sopravvenute preclusioni all'accesso a benefici penitenziari e a misure alternative alla detenzione, con conseguente impossibilità per l'autorità giudiziaria di operare valutazioni individualizzate in sede di esame delle istanze di concessione di detti benefici e misure;

con l'art. 3 Cost., sotto un duplice profilo: da un lato, l'irragionevole disparità di trattamento creatasi tra condannati per i medesimi delitti, commessi anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, i quali sarebbero sottoposti a un regime differenziato quanto all'accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, a seconda del momento – anteriore o successivo alla vigenza di detta disposizione – in cui la magistratura di sorveglianza esamini la relativa istanza di concessione; dall'altro, l'irragionevole disparità di trattamento fra autori dei medesimi delitti, commessi rispettivamente prima o dopo l'entrata in vigore della disposizione censurata, poiché solo i primi, ma non anche i secondi, potrebbero espiare la pena in regime extramurario.

Le soluzioni giuridiche

La pronuncia in commento, prima di esaminare la fondatezza delle questioni suesposte, nel rigettare le argomentazioni proposte dall'Avvocatura dello Stato, ricorda che così come la sospensione dell'ordine di esecuzione, di cui all'art. 656, comma 5, c.p.p. è istituto di natura «servente» rispetto alla richiesta di misure alternative alla detenzione (Corte Costituzionale, 6 febbraio 2018, n.41), allo stesso modo il divieto di sospensione, di cui al comma 9, lettera a), della medesima disposizione è condizionato dalla presunzione di pericolosità correlata all'inserimento di un determinato reato nel catalogo di cui all'art. 4-bisord. pen.

La portata rivoluzionaria della sentenza interpretativa di accoglimento si coglie nel punto in cui la Corte affronta la questione attinente al regime normativo da applicare riguardo alle norme concernenti la fase prettamente esecutiva della pena divenuta irrevocabile. In altri termini, con riferimento alle predette norme occorre far applicazione del principio tempus regit actum ovvero di quello, più favorevole al reo, che vieta l'applicazione retroattiva della legge sfavorevole?

Innovando il diritto vivente, i giudici costituzionali affermano che, di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi – si afferma – l'applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l'art. 25, secondo comma, Cost.

Da questo punto di vista, infatti, è indubbio che con l'entrata in vigore della Legge spazzacorrotti si è venuta a determinare, per una serie di reati contro la pubblica amministrazione (artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322 e 322-bisc.p.), una trasformazione della natura delle pene previste al momento del reato e della loro incidenza sulla libertà personale del condannato, sia per quanto attiene alla disciplina delle misure alternative alla detenzione, sia per quanto riguarda la liberazione condizionale e il divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena.

È per dunque per queste ragioni che la Corte, stante il silenzio del legislatore sul regime intertemporale delle modifiche in esame, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma censurata così come risultante dal diritto vivente.

La Corte, consapevole della portata a dir poco innovativa del neofita principio di diritto accolto, accompagna il lettore nella lettura di numerosi precedenti costituzionali sollecitati già nel 1992, anno in cui, a seguito della strage di Capaci, il legislatore ha subordinato per la prima volta la concessione dei benefici penitenziari e delle più ampie misure alternative alla detenzione,con riferimento ai condannati per delitti di criminalità organizzata e terrorismo, al presupposto della collaborazione con la giustizia, contestualmente prevedendo la revoca di tali benefici e misure, pur già concessi, nei confronti dei condannati che non avessero collaborato ai sensi dell'art. 58-terord. pen. (art. 15 del decreto legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356).

A ben vedere, infatti, in tutte le sentenze accuratamente citate (sentenze n. 306 del 1993; n. 504 del 1995; n. 445 del 1997; n. 137 del 1999; n. 273 del 2001) i giudici di Piazza del Quirinale non hanno mai esplicitamente fornito una risposta ai dubbi di compatibilità con l'art. 25, secondo comma, Cost. dell'effetto retroattivo previsto dall'art. 15, comma 2, del d.l. n. 306 del 1992, pur giungendo ad affermare che la questione avrebbe potuto “meritare una seria riflessione” (Corte Costituzionale, 11 giugno (dep. 7 agosto) 1993, n. 306). In questi approdi si è sostanzialmente spostato il baricentro della questione sull'analisi degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. ai fini di accertare il pregiudizio di una similedisciplina rispetto a potenziali situazioni di “regressione incolpevole del trattamento” rieducativo (già in essere) a favore del condannato.

Richiamando un diverso punto di vista, la Corte Costituzionale ricorda che la granitica giurisprudenza di legittimità (inaugurata da: Cass. pen., SS.UU., 17 luglio 2006, n. 24561) ha sposato l'orientamento secondo cui le norme sull'esecuzione della pena non hanno carattere di norme sostanziali e soggiacciono pertanto, in assenza di specifica disciplina transitoria, al principio tempus regit actum (vengono citate, in particolare, le seguenti pronunce: Cass.pen., sez. I, 18 settembre 2006, n. 30792; Cass.pen., sez. I, 15 luglio 2008, n. 29155; Cass.pen., sez. I, 9 dicembre 2009, n. 46924; Cass.pen., sez. II, 22 febbraio 2012, n. 6910; Cass.pen., sez. I, 12 marzo 2013, n. 11580; Cass.pen., sez. I,18 dicembre 2014, n. 52578; Cass.pen., sez. I, 9 settembre 2016, n. 37578).

La necessità di offrire un'adeguata risposta al disagio provocato dalle scelte del legislatore del 2019 trova, secondo la Consulta, adeguato ancoraggio nelle risposte giurisprudenziali provenienti dalla Corte EDU e riguardanti la garanzia di cui all'art. 7 CEDU, che sancisce il principio di irretroattività della legge penale.

In questo senso, si rivela fondamentale il richiamo al caso DelRio Prada contro Spagna del 2013 (Corte EDU, Grande Camera, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna), in cui si è stabilito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull'esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all'art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». La portata del principio di diritto ivi affermato sarebbe d'altro canto confermata anche dalla sua applicazione internazionale (sono opportunamente richiamate diverse pronunce della Corte Suprema degli Stati Uniti nonché specifiche disposizioni conformi della normativa francese).

In aggiunta, a sostegno della bontà della soluzione accolta dai giudici di Strasburgo, la Consulta valorizza l'interpretazione costituzionalmente conforme dell'art. 24, comma secondo, Cost. ai sensi della quale una modifica in peius, con effetto retroattivo sui processi in corso, della normativa in materia penitenziaria, è suscettibile di frustrare le (legittime) aspettative poste a fondamento di tali scelte difensive, esponendo l'imputato a conseguenze sanzionatorie affatto impreviste e imprevedibili al momento dell'esercizio di una scelta processuale, i cui effetti sono però irrevocabili.

In sostanza, in uno Stato di diritto il divieto di applicazione retroattiva della legge penale sfavorevole operacome imprescindibile limite all'esercizio del potere politico, a garanzia delle libertà fondamentali dell'individuo.

Ecco allora che i giudici costituzionali negano -tenendo conto della diacronicità del fenomeno esecutivo delle vicende penali nonché della necessità di non creare plurimi regimi esecutivi paralleli, ciascuno legato alla data del commesso reato - la compatibilità con la legge fondamentale di un sistema che preveda la retroattività delle norme penitenziarie che implichino la trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato.

In altre parole, nell'ipotesi in cui al momento del fatto fosse prevista una pena suscettibile di essere espiata in regime extramurario, la quale – per effetto di una modifica normativa sopravvenuta al reato – divenga una pena che, pur mantenendo il medesimo nomen iuris, vada eseguita all'interno del perimetro carcerario, si viene a creare un aliud rispetto alla punizione originariamente concepita, con conseguente inammissibilità di un'applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost.

Tanto premesso, la Corte Costituzionale ritiene che l'art. 25, secondo comma, Cost. non si opponga a un'applicazione retroattiva delle modifiche derivanti dalla disposizione censurata alla disciplina dei meri benefici penitenziari, e in particolare dei permessi premio e del lavoro all'esterno. ll condannato che fruisca di un permesso premio, o che sia ammesso al lavoro all'esterno del carcere, continua in effetti a scontare una pena che resta connotata da una fondamentale dimensione “intramuraria”. Egli resta in linea di principio “dentro” il carcere, continuando a soggiacere alla dettagliata disciplina che caratterizza l'istituzione penitenziaria, e che coinvolge pressoché ogni aspetto della vita del detenuto.

Con riferimento agli effetti prodotti dalla c.d. spazzacorrotti sul regime di accesso alle misure alternative alla detenzione disciplinate dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, e in particolare all'affidamento in prova al servizio sociale, alla detenzione domiciliare nelle sue varie forme e alla semilibertà, invece, la soluzione adottata dalla Corte è opposta. Per usare le stesse parole della pronuncia in commento, si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sentenza n. 349 del 1993), finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza n. 327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un'accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.

Analoghe considerazioni si pongono esaminando l'istituto della liberazione condizionale di cui agli artt. 176 e 177 c.p. essendo anch'esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, «tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».

Da ultimo, la sentenza analizza le ordinanze di rimessione proposte dai giudici dell'esecuzione.

Il riformulato art. 656, comma 9, c.p.p. – che vieta la sospensione dell'ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella relativa alla condanna per un reato di cui all'art. 4-bisord. pen. – produce l'effetto di determinare l'inizio dell'esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull'eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l'intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto.

Conseguentemente, la Corte Costituzionale riconosceanche alla disposizione in esame un effetto di trasformazione della pena inflitta, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto; con conseguente sua inapplicabilità, ai sensi dell'art. 25, secondo comma, Cost. alle condanne per reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della legge spazzacorrotti, che ne ha indirettamente modificato l'ambito applicativo, tramite l'inserimento di numerosi reati contro la pubblica amministrazione nell'elenco di cui all'art. 4-bisord. pen.

Osservazioni

Il principio di diritto enunciato nella sentenza in esame è rivoluzionario per due ordini di ragioni. In primis per la sua portata generale che lo rende potenzialmente applicabile alla posizione di tutti quei condannati per i delitti “ostativi” iscritti nell'art. 4-bis della l. 354/75 per fatti commessi anteriormente all'entrata in vigore del d.l. 13 maggio 1991, n. 152, che ha introdotto appunto la disciplina restrittiva la cui applicazione retroattiva è stata ora dichiarata incostituzionale. In secundis per il fatto che innova coraggiosamente il diritto vivente, discostandosi in maniera decisa rispetto alle plurime pronunce di legittimità inaugurate da Cass. pen., SS.UU., 17 luglio 2006, n. 24561.

Le argomentazioni da cui dipanano le questioni affrontate nella vicenda in esame si basano sull'analisi dell'art. 25, secondo comma, Cost. da cui discende pacificamente tanto il divieto di applicazione retroattiva di una legge che incrimini un fatto in precedenza penalmente irrilevante, quanto il divieto di applicare retroattivamente una legge che preveda una pena più severa per un fatto già in precedenza incriminato (in questo senso, Corte Costituzionale, 25 ottobre 2018, n. 223); divieto, quest'ultimo, che trova esplicita menzione nell'art. 7, paragrafo 1, secondo periodo, CEDU, nell'art. 15, paragrafo 1, secondo periodo, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché nell'art. 49, paragrafo 1, seconda proposizione, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.

Altro baluardo su cui poggia l'intera ricostruzione giuridico-fattuale operata dalla Corte Costituzionale è rappresentato dagli Engel criteria, elaborati dalla Corte EDU nel 1976 e da ultimo interpretati col noto caso A. e B. contro Norvegia del 2016 (in tema di ne bis in idem), che per primi hanno evidenziato i presupposti su cui si fonda la ricostruzione di una sanzione in termini sostanzialmente penali, al di là del mero dato formalistico proposto dal singolo ordinamento nazionale. Nei casi in cui il mutamento del diritto (anche in seguito a overruling giurisprudenziale) abbia inciso in termini talmente significativi sulla pena in espiazione da rendere alquanto sfumati i confini tra disciplina sostanziale della stessa e regolamentazione della sua esecuzione, si è di fronte ad una situazione che giustifica l'estensione alla fase esecutiva del principio di legalità delle pene.

L'interpretazione di tale approdo giurisprudenziale, in questo senso, ha delle ricadute pratiche particolarmente significative, in primis proprio in tema di principio di legalità. Qualificare una norma, attinente o meno alla fase esecutiva della condanna irrevocabile, in termini sostanzialmente penali significa applicare le garanzie tipiche dell'art. 2 c.p. nonché, in prospettiva sovranazionale, dell'art. 7 CEDU.

Sotto il medesimo punto di vista, il caso Del Rio Prada c. Spagna del 2012 ha statuito che il requisito di legittimità convenzionale della prevedibilità non concerne soltanto la sanzione, ma governa, altresì, la sua esecuzione, ivi compresa la possibilità che un determinato istituto di matrice penitenziaria determini un'anticipata rimessione in libertà.

L'approccio internazionalistico, reso oramai obbligato dalle attuali dinamiche giuridiche, rappresenta una chiave argomentativa di prim'ordine. In questa prospettiva, infatti, si colloca anche l'unico precedente di legittimità che ha prospettato dubbi di legittimità costituzionale della mancata previsione di una disciplina transitoria da parte della disciplina penitenziaria introdotta dalla c.d. spazzacorrotti, anche se ha ritenuto di non poter sollevare la relativa questione per difetto di rilevanza nel caso di specie. La Corte di cassazione ha osservato, in proposito, che l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità circa il carattere processuale delle norme dell'ordinamento penitenziario andrebbe oggi rimeditato, anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte EDU, sì da garantire l'effettiva prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie: «l'avere il legislatore cambiato in itinere le “carte in tavola” senza prevedere alcuna norma transitoria» presenterebbe «tratti di dubbia conformità con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art. 117 Cost., là dove si traduce […] nel passaggio – “a sorpresa” e dunque non prevedibile – da una sanzione patteggiata “senza assaggio di pena” ad una sanzione con necessaria incarcerazione» (Cass. pen., sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541).

Dal punto di vista pratico, inoltre, è doveroso sottolineare come la Corte Costituzionale abbia proposto una distinzione tra norme che regolano la (mera) esecuzione della pena detentiva e disposizioni che attengono, invece, alle misure extramurarie quali forme di esecuzione alternativa al carcere.

Tra gli istituti che attengono alla mera organizzazione della pena detentiva, a titolo esemplificativo, sono collocabili i colloqui dei detenuti con familiari e difensori, le telefonate, la corrispondenza, la permanenza all'aperto nonché i permessi e il lavoro all'esterno (sotto quest'ultimo profilo è solo il caso di rammentare che parte della dottrina tende ad equiparare il lavoro all'esterno come misura alternativa in senso proprio). Con riguardo a questi istituti, in particolare, l'incidenza del dictum della Corte non muta l'attuale assetto normativo, assunto che in caso di introduzione di modalità esecutive o presupposti di accesso più gravosi, il principio regolatore sarà quello espresso dal brocardo tempus regit actum, con il temperamento della non regressione trattamentale.

Nel caso delle misure alternative (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà), al contrario, ogni modifica restrittiva dei relativi presupposti di concessione incide inevitabilmente sulle concrete prospettive, per il condannato, di scontare la propria pena “fuori” o “dentro” il carcere.

Merita un breve approfondimento, in questo senso, la portata del concetto di misure alternative. Oltre a quelle espressamente citate dalla Corte, infatti, pare non doversi dubitare della riconduzione alla richiamata nozione dell'istituto di cui all'art. 47-quaterord. pen., che si rivolge ai soggetti affetti da AIDS o da grave deficienza immunitaria; tale misura, invero, risulta già esente dalle preclusioni tipiche dell'art. 4-bisord. pen.

In merito alla liberazione anticipata speciale, invece, pur essendo preclusa ai condannati c.d. ostativi, deve ritenersi che la sostanza dell'istituto non comporti un cambiamento qualitativo dell'esecuzione carceraria, essendo piuttosto determinato ad incidere sull'aspetto quantitativo della durata della pena da espiare.

Un ultimo accenno, infine, merita il beneficio di cui alla l.199/2010, pur qualificato dalla giurisprudenza quale mera modalità esecutiva della pena anziché quale misura alternativa in senso stretto. Difatti, l'applicazione dell'esecuzione della pena presso il domicilio è subordinata alla tipologia del reato, che cioè non deve essere ricompreso nell'elenco eterogeneo stilato dall'art. 4-bis, ord. penit. Da ciò deriva, come ha avuto modo di osservare autorevole dottrina (Fiorentin), a stretto rigore, che oggi a un condannato per taluno dei delitti di cui alla l. 3/19, potrà essere applicato l'affidamento in prova al servizio sociale e, contraddittoriamente, sarà preclusa l'applicazione dell'esecuzione domiciliare (beneficio connotato da ben maggiori garanzie dal punto di vista delle esigenze di difesa sociale).

In aggiunta, quid iuris delle istanze di riparazione per ingiusta detenzione (artt. 314 ss. c.p.p.) avanzate dai detenuti che, a causa della illegittima disciplina de qua, non abbiano potuto attendere da “liberi sospesi” la decisione del tribunale di sorveglianza sull'eventuale applicazione in loro favore di misure alternative al carcere?

Preso atto del criterio probabilistico adottato dalla Consulta nel giudizio in commento, pare doversi escludere un indistinto riconoscimento del ristoro riferito al pregiudizio asseritamente subito. In altri termini, è solo nei confronti di quei soggetti prima facie ragionevolmente meritevoli di accedere ad una misura extramuraria che può stabilirsi la legittima applicabilità del rimedio risarcitorio ex art. 314 c.p.p.. Ne rimangono pertanto esclusi coloro che non posseggono i requisiti oggettivi su cui ancorare le prescrizioni alla base di una qualsiasivoglia misura alternativa ovvero coloro che abbiano già visto respinte dal tribunale di sorveglianza le proprie analoghe istanze di accesso ai benefici penitenziari.

In conclusione, si segnala che, in applicazione della sentenza in commento, la Corte d'Appello di Lecce lo scorso 4 marzo 2020 (ud. 28 febbraio 2020) ha dichiarato temporalmente inefficace – per consentire l'espletazione degli adempimenti di cui all'art. 656, co. 5, c.p.p. – l'ordine di esecuzione emesso nei confronti di un condannato per la fattispecie di cui agli art. 12, commi 1 e 3, d.lgs. 286/1998 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) commessa anteriormente all'entrata in vigore dell'art.3-bis, comma 1, d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, che ha inserito anche detto reato nel novero dei delitti enunciati dall'art. 4-bis ord. pen.

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