Acquisizione delle dichiarazioni rese durante le indagini preliminari: in caso di reperibilità in diverso procedimento opera l'art. 500 comma 4 c.p.p.?

27 Marzo 2020

La questione in esame è la seguente: nel caso in cui il testimone si renda reperibile in altro procedimento è utilizzabile il meccanismo dell'art. 500, comma 4, c.p.p.?
Massima

In tema di prova testimoniale ai fini della rituale acquisizione al fascicolo del dibattimento ex art. 500, comma 4, c.p.p. delle dichiarazioni in precedenza rilasciate da testimone resosi irreperibile in quanto sottoposto a violenza e minaccia al fine di non deporre o di deporre il falso, non rileva la circostanza che il medesimo si sia reso reperibile in un diverso procedimento, essendo determinante il fatto che nel processo di cui trattasi, e non in altri separati giudizi, il teste sia stato oggetto di violenza o intimidazione.

Il caso

A seguito di sentenza doppia conforme, gli imputati – condannati per i delitti di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione – proponevano ricorso in Cassazione lamentando la violazione dell'art. 500, comma 4, c.p.p. per avere i giudici di merito ritenuto legittima l'acquisizione delle dichiarazioni della persona offesa, resasi irreperibile e destinataria di violenze fisiche – riferite de relato dalla madre della medesima – per non farla testimoniare.

In particolare, i difensori evidenziavano che: a) non vi erano elementi concreti per affermare che la persona offesa era stata destinataria di violenza o minaccia; b) non era stata accertata correttamente la irreperibilità, dal momento che la stessa aveva ricevuto regolarmente la notifica, sottraendosi poi, successivamente, al disposto accompagnamento coatto; c) in altro procedimento penale connesso a quello nel quale gli imputati erano stati condannati, la vittima si era regolarmente presentata per deporre in udienza, circostanza che da un lato evidenziava come la stessa fosse reperibile e dall'altro si trattava di circostanza incompatibile con l'asserita tesi della violenza o minaccia subite.

La Corte di Cassazione rigettava il ricorso, evidenziando da un lato che le dichiarazioni della madre della p.o. erano state correttamente valutate come dimostrative della violenza esercitata nei confronti della vittima e della intimidazione subita, dall'altro che la circostanza che la persona offesa si era resa reperibile in un diverso procedimento era elemento irrilevante ai fini dell'operatività dell'art. 500, comma 4, c.p.p., dal momento che è la circostanza che in “questo processo” (e non in altri e separati giudizi) la p.o. sia stasta fatta oggetto di minaccia/violenza.

La questione

La questione in esame è la seguente: nel caso in cui il testimone si renda reperibile in altro procedimento è utilizzabile il meccanismo dell'art. 500, comma 4, c.p.p.?

Le soluzioni giuridiche

La sentenza in commento offre lo spunto per alcune riflessioni in materia di acquisizione e di utilizzabilità della prova nel processo penale.

Il principio del contraddittorio evoca l'idea della simultanea e contrapposta compartecipazione di tutte le parti del processo: la vocatio in judicium e la contestazione dell'accusa ne garantiscono l'attuazione.

La normativa circa l'elaborazione e la valutazione in contraddittorio della prova completa il mosaico.

L'art. 111 Cost., ai commi 3 e 4, vale a dire nella parte in cui definisce il principio del contraddittorio, costituisce la norma regina per la lettura e l'esegesi della legge (l. 63/2001) dettata per la sua attuazione, giacché esalta i due aspetti imprescindibili del contraddittorio: nel suo risvolto oggettivo, esso indica il metodo di accertamento giudiziale dei fatti, mentre in quello soggettivo deve essere inteso quale diritto dell'imputato a confrontarsi con il suo accusatore.

Parte della dottrina ritiene, dando un'interpretazione restrittiva di tale norma, che la prova valida per la decisione finale possa formarsi solo oralmente all'interno della cross examination; in tal modo le dichiarazioni rese durante le indagini preliminari – segrete – pure contestate a colui il quale avesse fornito una differente versione, non sarebbero assolutamente utilizzabili ai fini della prova del fatto affermato in precedenza.

La Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla nuova versione dell'art. 500 c.p.p., condividendo l'interpretazione restrittiva, ha affermando che l'art. 111 Cost. ha espressamente attribuito risalto costituzionale al principio del contraddittorio anche nella prospettiva della impermeabilità del processo, quanto alla formazione della prova, rispetto al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le parti; alla stregua di siffatta opzione, appare del tutto coerente la previsione di istituti che mirino a preservare la fase del dibattimento – nella quale assumono valore paradigmatico i principi dell'oralità e del contraddittorio – da contaminazioni probatorie fondate su atti unilaterali raccolti nel corso delle indagini preliminari (Corte Cost. n. 36/2002).

L'art. 500 c.p.p., pertanto, va letto alla luce dell'art. 111, senza accantonare tuttavia il combinato disposto degli artt. 526 e 514 c.p.p.

Il 1° comma dell'art. 526 statuisce che “il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento”, mentre l'art. 514 pone la regola generale in base alla quale non costituisce legittima acquisizione la lettura dei verbali delle dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, salvi i casi espressamente previsti.

La lettura delle due norme conduce alla ragionevole conclusione che le prove dichiarative precostituite sono inutilizzabili, salvi i casi in cui la legge ne consenta l'acquisizione; conseguentemente, le norme che consentono l'utilizzabilità di dichiarazioni rese in precedenza hanno natura eccezionale e, come tali, non sono suscettive di estensione analogica.

In questa prospettiva va situata anche la disposizione di cui all'art. 526, comma 1-bis, la quale, nel riproporre testualmente il dettato dell'art. 111, comma 4, Cost., vieta di utilizzare quale prova della colpevolezza le dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto al contraddittorio.

Essa altro non è che una norma di chiusura, limitandosi a stabilire una regola di esclusione, senza alcuna eccezione di sorta; tuttavia ciò non denega che l'imputato, titolare del diritto al contraddittorio in senso soggettivo (diritto dell'imputato a confrontarsi con l'accusatore) possa abdicare a tale diritto e permettere che le dichiarazioni accusatorie siano utilizzate contra se.

Del resto, il diritto dell'accusato di esaminare o far esaminare il proprio accusatore costituisce un diritto fondamentale dell'individuo, tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Esso trova la sua massima attuazione nelle ipotesi in cui la prova dichiarativa viene formata in contraddittorio dinanzi al giudice; la giurisprudenza europea richiede infatti che, «in linea di principio», gli elementi di prova siano prodotti di fronte all'accusato, in una pubblica udienza, nel contesto di un confronto contraddittorio (C. EDU, 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, §85).

Si tratta tuttavia di un modello derogabile: anche un mero “contraddittorio differito” garantisce il diritto al confronto tutelato dalla Convenzione.

Il processo, infatti, può del pari dirsi equo quando all'imputato è stata assicurata un'occasione adeguata e sufficiente per contestare la testimonianza a carico, nel momento in cui la deposizione viene resa ovvero successivamente (C. EDU, 20 aprile 2006, Carta c. Italia, § 48; C. EDU, 7 agosto 1996, Ferrantelli e Santangelo c. Italia, § 51; C. EDU, 15 giugno 1992, Ludi c. Svizzera, § 49).

I problemi di compatibilità con i principi convenzionali si pongono allorché vengano lette in dibattimento ed impiegate in una decisione di condanna dichiarazioni raccolte unilateralmente dagli organi inquirenti, senza che vi sia stata alcuna “occasione adeguata e sufficiente” di confronto tra accusato e accusatore: il deficit di garanzie derivante dalla mancata attuazione del modello del contraddittorio non è compensato dalla presenza di un'occasione di confronto; e l'imputato si vede irrimediabilmente sottratta l'opportunità di sottoporre a verifica la veridicità e l'affidabilità della deposizione resa, provando a metterne in discussione la credibilità (C. EDU, 20 novembre 1989, Kostovski c. Paesi Bassi, § 41).

L'ipotesi è quella in cui le dichiarazioni di un “testimone a carico” – inteso nell'accezione autonoma fornita dalla giurisprudenza europea (è considerato “testimone a carico” chiunque, pur se avente diversa qualifica in diritto interno, renda dichiarazioni suscettibili di costituire materiale probatorio sul quale sarà (in tutto o in parte) fondata una sentenza di condanna, cfr. C. EDU, 27 gennaio 2009, Mika c. Svezia, § 36; C. EDU, 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia, § 40), siano raccolte unilateralmente dagli organi inquirenti e utilizzate dal giudice nella sentenza di condanna, in ragione dell'impossibilità di riassumerle in giudizio: si parla, in proposito, di “testimoni assenti” in dibattimento (Le categorie di “testimoni assenti” enucleabili dalla giurisprudenza europea possono raggrupparsi in cinque classi: a) individui la cui audizione è impossibile, perché deceduti o versanti in condizione di salute precarie; b) coloro che hanno il privilegio di astenersi dal deporre in virtù del rapporto di coniugio, parentela o coabitazione con l'accusato; c) coimputati “accusatori” che si sottraggono all'esame dibattimentale ovvero che in quella sede si avvalgono del diritto al silenzio; d) coloro che non si presentano in giudizio senza una ragione apparente, nonostante siano destinatari di una regolare citazione; e) individui esaminati all'estero mediante rogatoria. L'assenza in dibattimento di ciascuna classe di individui è stata giustificata, di volta in volta, sulla base di contro-interessi meritevoli di tutela).
La Corte EDU è stata ripetutamente chiamata a valutare se, ed eventualmente a quali condizioni, l'impiego di tali dichiarazioni possa risultare compatibile con l'art. 6 CEDU.

Tradizionalmente, la Corte EDU ritiene che l'assenza del testimone in dibattimento debba essere giustificata da una “valida ragione” (there must be a good reason for the non-attendance of a witness): essa, in sostanza, deve risultare dal bilanciamento tra il diritto al confronto e un diverso e confliggente interesse, considerato altrettanto meritevole di tutela; se manca un “valido motivo”, l'art. 6 CEDU si assume violato (C. EDU, 15 giugno 1992, Ludi c. Svezia, § 49; C. EDU, 26 luglio 2005, Mild and Virtanen c. Finlandia, § 44ss; C. EDU, 8 giugno 2006, Bonev c. Bulgaria, 43 § ss., in cui si richiede che le autorità nazionali pongano in essere ogni sforzo ragionevolmente esigibile per assicurare la presenza del testimone in dibattimento).

Solo superato questo primo passaggio ci si può interrogare sul valore probatorio delle dichiarazioni rese dal “testimone assente”: al riguardo, la Corte europea ha ripetutamente affermato che in mancanza di un'occasione adeguata e sufficiente di confronto, tali dichiarazioni non possono costituire la “prova unica o decisiva” della sentenza di condanna; diversamente i diritti della difesa risulterebbero compressi in maniera incompatibile con le garanzie dell'art. 6 CEDU (C. EDU, 18 maggio 2010, Ogaristi c. Italia, § 61; C. EDU, 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia, § 86; C. EDU, 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia, § 40, cit.; C. EDU, 20 settembre 1993, Saidi c. Francia, § 43-44; C. EDU, 24 novembre 1986, Unterpertinger c. Austria, § 31-33).

Dall'interpretazione della giurisprudenza europea in tema di testimoni assenti sono perciò ricavabili due regole: la prima richiede la necessaria sussistenza di una valida ragione che spieghi l'assenza del testimone in dibattimento; la seconda impedisce di fondare in via esclusiva o determinante una condanna su dichiarazioni sottratte al contraddittorio.

Se la reticenza è conseguenza di violenza, lusinga o minaccia sul dichiarante, trova applicazione l'art. 500, comma 4, c.p.p., a mente del quale «quando, anche per le circostanza emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso, le dichiarazioni contenute nel fascicolo del dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono essere utilizzate»; in casi del genere «il giudice decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che ritiene necessari, su richiesta della parte, che può fornire gli elementi concreti per ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilità»(quinto comma).

In tal modo si realizza una lettura-contestazione con acquisizione al fascicolo per il dibattimento: le dichiarazioni rese in sede predibattimentale, pertanto, potranno essere utilizzate dal giudice per la decisione e valutate secondo i consueti canoni interpretativi.

La norma in realtà traduce la deroga alla formazione della prova in contraddittorio prevista dall'art. 111, comma 5, Cost., il quale, oltre al consenso dell'imputato e alla accertata impossibilità di natura oggettiva, contempla l'ipotesi della provata condotta illecita.

Ebbene, al fine di acclarare i condizionamenti subiti dal testimone, facendo riferimento al dato letterale, è possibile ritenere che siano bastevoli elementi concreti, il che se da una parte esclude la necessità di una prova dotata del grado di consistenza necessario per fondare un giudizio di condanna, dall'altra, esclude che il giudice si possa accontentare di meri postulati.

La prova della coartazione può ritenersi raggiunta anche sulla base della sola modalità dell'esame ed è chiarificatore – seppur con le opportune cautele – l'esame critico della ritrattazione dibattimentale, poiché qualora essa non venisse chiosata con adeguatezza e non potesse essere intesa quale manifestazione dell'intento di ristabilire tardivamente una verità adombrata nella fase delle indagini preliminari, il contegno dibattimentale del dichiarante diventerebbe ad un tempo il presupposto per l'applicazione della norma in esame ed uno degli elementi di convincimento di un probabile intervento inquinante.

Scopo della disposizione in esame è quello di evitare un inquinamento probatorio, specialmente nei processi di criminalità organizzata, ove maggiori sono le pressioni cui è esposto il testimone.

Per il recupero a fini probatori delle pregresse dichiarazioni non conta chi abbia commesso l'illecito, ma se questo fosse realmente idoneo a incidere sulla libertà di scelta del testimone.

Quindi non è necessario che la condotta illecita provenga dall'imputato (Cass. pen., Sez. II, n. 5997/2008; Cass. pen., Sez. II, n. 39716/2018) o sia stata realizzata con il suo concorso, dovendosi ammettere l'acquisizione delle dichiarazioni pregresse anche quando i comportamenti illeciti sono ascrivibili solo ad alcuni coimputati (Cass. IV, n. 38230/2009) oppure a soggetti terzi (Cass. III, n. 220/2004).

Quindi, se il giudice, sulla base dell'andamento del dibattimento, ha fondati motivi per ritenere che il teste sia stato intimidito, può disporre gli accertamenti necessari al fine di appurare la fondatezza o meno dei suoi sospetti, avviando un micro procedimento incidentale a forma libera.

La norma prevede che il giudice decida sull'acquisizione senza ritardo, al fine di non paralizzare l'accertamento principale; tuttavia, la violazione di tale regola non determina alcuna nullità (Cass. pen., Sez. III, n. 18761/2010).

La decisione incidentale può fondarsi sia sugli elementi concreti forniti dalle parti, come prevede espressamente la norma, sia su quelli assunti dal giudice d'ufficio perché ritenuti necessari.

Nulla vieta che gli elementi concreti per ritenere che il testimone sia stato sottoposto a pressioni siano tratti dall'atteggiamento assunto dal teste nel corso della deposizione dibattimentale, qualora la prudente valutazione del giudice gli consenta di cogliervi i segni della subita intimidazione; né alcuna valenza può assumere, in senso contrario, il mancato espletamento degli accertamenti incidentali previsti dall'art. 500, comma 5, trattandosi di attività istruttoria meramente eventuale, alla quale il giudice può attendere se ne ravvisi la necessità, senza esservi, tuttavia, obbligato (Cass. V, n. 16055/2011).

Osservazioni

Nella sentenza in commento, in conclusione, è ribadito il principio secondo il quale può darsi lettura di una dichiarazione assunta in fasi antecedenti il dibattimento ed in assenza di contraddittorio quando l'irreperibilità sopravvenuta del dichiarante non dipenda da una libera e volontaria scelta del medesimo, dal momento che lo stesso era stato vittima di lesioni personali per costringerlo a non testimoniare.

In particolare, l'odierno principio diritto è certamente rispettoso del dettato normativo di cui all'art. 500, comma 4, c.p.p., giacché è stata condivisa la valutazione compiuta dal giudice di merito relativa all'accertamento necessario delle evenienze che nel caso di specie hanno “inquinato” la prova dichiarativa, a nulla rilevando che in altro procedimento la persona offesa si era resa reperibile, sottoponendosi ad esame.

In siffatta ipotesi, difatti, la soggettività della mancata ripetizione dell'atto non integra una violazione del diritto al confronto contemplata dall'art. 111, comma 5, Cost., che, dinanzi a un tale contesto, richiede l'acclarata impossibilità oggettiva di ripetizione dibattimentale dell'atto dichiarativo.

Invero, nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte non vi è lesione dell'art. 111 Cost., comma 4, come interamente riformulato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, di inserimento dei principi del giusto processo nella Costituzione, dal momento che la colpevolezza dell'imputato è stata provata sulla base di dichiarazioni accusatorie rese da un soggetto che, certamente non per libera scelta, si è sottratto all'interrogatorio da parte degli imputati a causa delle precedenti lesioni subite.

L'art. 500, comma 4, c.p.p. prevede che le dichiarazioni rese precedentemente al giudizio possano essere acquisite al fascicolo per il dibattimento, e utilizzate come prova del fatto narrato, solo quando vi siano elementi concreti per ritenere che il dichiarante sia stato fatto oggetto di violenza, minaccia o subornazione affinché non deponga ovvero deponga il falso: detti elementi devono consistere, secondo parametri correnti di ragionevolezza e di persuasività, in elementi sintomatici della violenza o dell'intimidazione subita dal teste, purché siano connotati da precisione, obiettività e significatività.

Secondo la giurisprudenza, le disposizioni dei commi 4 e 5 dell'art. 500 c.p.p. devono essere lette ed interpretate unitariamente, nel senso che la prima consente di desumere i fatti di violenza o minaccia od offerta di utilità al testimone sia da circostanze emerse prima e fuori dal dibattimento che, alternativamente, da circostanze emerse nel dibattimento, mentre la seconda richiede l'impulso di parte solo affinché il giudice disponga gli accertamenti richiesti sulle dette circostanze, ma non anche perché decida sulla acquisizione dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nelle indagini preliminari (Cass. pen., Sez. VI, n. 31461/2004).

Rientrano fra gli elementi valutabili ai fini dell'accertamento dell'inquinamento probatorio, quale presupposto dell'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone ai sensi dell'art. 500, comma 4, le modalità della deposizione e il contegno tenuto dal teste in dibattimento (Cass. pen., Sez. VI,n. 22555/2017; Cass. pen., Sez. VI, n. 18065/2011), i condizionamenti economici o la paura di essere allontanato dal nucleo familiare (Cass. pen., Sez. III, n. 2696/2011).

Ai fini dell'acquisizione al fascicolo per il dibattimento delle dichiarazioni predibattimentali del testimone, l'idoneità della minaccia richiesta dalla disposizione in esame è integrata da qualsiasi comportamento suscettibile di incutere timore e di far sorgere la preoccupazione di poter soffrire un male o un danno ingiusti, ancorché non oggettivi ma semplicemente percepiti, tale da compromettere o diminuire la libertà morale del teste che ne è destinatario, a nulla rilevando la circostanza che il teste abbia poi reso deposizione (Cass. pen., Sez. III, n. 46501/2015).

Per altro verso, è pur noto ed affermato dalla Corte di Cassazione nel suo massimo consesso il principio secondo cui, ai fini dell'operatività (ex art. 526 c.p.p., comma 1 bis) del divieto di provare la colpevolezza dell'imputato sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame dell'imputato o del suo difensore, non è necessaria la prova di una specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, ma è sufficiente - in conformità anche ai principi convenzionali (e, in particolare, all'art. 6 CEDU) - la volontarietà dell'assenza del teste che sia determinata da una qualsiasi libera scelta, sempre che non vi siano elementi esterni che escludano una sua libera determinazione (Cass. pen., Sez. un., n. 27918/2010).

Va chiarito, tuttavia, che la regola di giudizio contenuta nell'art. 526 c.p.p., comma 1 bis, per cui la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore, è stata correttamente intesa nel senso che l'utilizzazione delle precedenti dichiarazioni è necessariamente preclusa laddove emerga che la mancata comparizione al dibattimento sia dipesa, per l'appunto, da una scelta libera (Cass. II, n. 7290/2019) ovvero, in definitiva, dal fatto che il soggetto, avendone comunque avuto conoscenza, non si è presentato all'esame in dibattimento o in rogatoria, quali che siano i motivi della mancata presentazione, purché ovviamente riconducibili ad una sua libera scelta, e cioè ad una scelta non coartata da elementi esterni (Cass. sez. un., n. 27918/2010).

In sostanza, sebbene non rilevi lo specifico intendimento di sottrarsi al contraddittorio, occorre pur sempre che il soggetto abbia avuto contezza della prevista comparizione, senza di che non potrebbe parlarsi di libera scelta (Cass. sez. II, n. 57.243/2017).

In ogni caso e deroghe al contraddittorio sopra menzionate non scalfiscono la centralità del medesimo, inteso quale metodo di conoscenza della verità giudiziaria, poiché sono volte a garantire la genuinità dell'accertamento processuale.

Guida all'approfondimento

Chelo, Modalità per l'acquisizione dei verbali di precedenti dichiarazioni rese da persona minacciata che non si sottrae all'esame, in www.ilpenalista.it, 8 aprile 2019.

Granvillano, Il contraddittorio nel processo penale: specchi e riflessi di un solido avamposto, in www.filodiritto.it, 28 ottobre 2011.

Maffei, Il diritto al confronto con l'accusatore, Piacenza, 2003, 242 ss.

Pollera, Mutamenti giurisprudenziali e defettibilità delle rationes decidendi nella corte di Strasburgo: il caso dei testimoni assenti, in Cass. penale, 2018, 1372 ss.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario