Legge - 9/12/1998 - n. 431 art. 1 - Ambito di applicazione.Ambito di applicazione. 1. I contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo, di seguito denominati "contratti di locazione", sono stipulati o rinnovati, successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge, ai sensi dei commi 1 e 3 dell'articolo 2. 2. Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, 4-bis, 7, 8 e 13 della presente legge non si applicano 1: a) ai contratti di locazione relativi agli immobili vincolati ai sensi della legge 1° giugno 1939, n. 1089, o inclusi nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, che sono sottoposti esclusivamente alla disciplina di cui agli articoli 1571 e seguenti del codice civile qualora non siano stipulati secondo le modalità di cui al comma 3 dell'articolo 2 della presente legge; b) agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ai quali si applica la relativa normativa vigente, statale e regionale; c) agli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche. 3. Le disposizioni di cui agli articoli 2, 3, 4, 4-bis, 7, 8 e 13 della presente legge non si applicano ai contratti di locazione stipulati dagli enti locali in qualità di conduttori per soddisfare esigenze abitative di carattere transitorio, ai quali si applicano le disposizioni di cui agli articoli 1571 e seguenti del codice civile. A tali contratti non si applica l'articolo 56 della legge 27 luglio 1978, n. 392 2. 4. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta. [1] Comma modificato dall'articolo 2, della Legge 8 gennaio 2002, n. 2. [2] Comma modificato dall'articolo 2, della Legge 8 gennaio 2002, n. 2. InquadramentoLa regolamentazione delle locazioni ad uso abitativo era inizialmente confinata nella disciplina codicistica, di natura tendenzialmente derogabile, alla quale si sono, via via, sovrapposte, nella prospettiva di una maggiore tutela del conduttore, varie leggi speciali caratterizzate, invece, dalla tendenziale inderogabilità delle relative disposizioni, con conseguente sanzione di nullità delle eventuali pattuizioni in contrasto con esse, sostituite automaticamente dalle norme vincolistiche. La l. n. 392/1978 (c.d. legge sull'equo canone), promulgata nel corso di una stagione caratterizzata da profondi cambiamenti sociali e da incisive riforme dell'ordinamento giuridico, aveva introdotto norme che, sia pure nell'ottica di un superamento della precedente legislazione vincolistica e di un ritorno alle regole del libero mercato, erano comunque fortemente limitative dell'autonomia negoziale privata ed incidevano sullo stesso funzionamento del sinallagma contrattuale, realizzando, in armonia con il sistema di valori della Costituzione, un quadro legislativo ispirato alla tutela del conduttore, visto sempre come contraente più debole. A tal fine, trovavano diversa regolamentazione, in relazione alle differenti esigenze da soddisfare, i vari tipi di locazione, e proprio riguardo alle locazioni ad uso abitativo, erano previste, con limitate eccezioni, una durata minima quadriennale del rapporto ed un sistema dettagliato per la determinazione del canone (appunto, equo) massimo percepibile; tuttavia, la scelta dirigistica del legislatore aveva causato rilevanti distorsioni del mercato delle abitazioni, in quanto i locatori, salvo far ricorso alle locazioni c.d. in nero, avevano preferito tenere gli appartamenti sfitti piuttosto che concederli in godimento a canoni irrisori. Con il d.l. n. 333/1992, convertito, con modificazioni, nella l. n. 359/1992 (c.d. legge sui patti in deroga), il legislatore, per la prima volta, operava una netta inversione di tendenza rispetto alla disciplina vincolistica, ristabilendo, a certe condizioni, la libera determinazione del canone anche per le unità immobiliari ad uso abitativo: in particolare, con questa “miniriforma” – peraltro, non abrogativa della precedente legislazione, poiché quest'ultima continuava a regolare tutti gli altri aspetti – si era venuto a creare un doppio binario, potendosi stipulare sia contratti di locazione ad equo canone, che rimanevano la regola, sia patti appunto in deroga alla legge sull'equo canone, a condizione che il locatore rinunciasse alla facoltà di disdettare il contratto alla prima scadenza, salvo che avesse l'esigenza di adibire l'immobile a determinati usi o effettuare sullo stesso particolari opere previste dalla legge, mantenendo ferma la durata legale del rapporto (4+4). A venti anni dalla legge sull'equo canone e sei dalla novella del 1992, ha preso finalmente corpo l'intento legislativo di dotare il settore delle locazioni abitative di un complesso di norme il più semplice e completo possibile, e nel contempo organico, sì da comprendere non solo la disciplina sostanziale ma anche quella, prettamente processuale, inerente all'esecuzione degli sfratti. Gli obiettivi qualificanti della riforma – come emerge dalla Relazione al progetto di legge – sono stati, da un lato, il superamento delle varie norme transitorie, temporanee e derogatorie ad altre normative, che non avevano più riscontro nella realtà, designando così un quadro maggiormente stabile, e, dall'altro, la liberalizzazione controllata degli affitti, la possibilità di scelta tra due tipologie contrattuali, ed una politica a favore dei conduttori, non disgiunta da maggiori garanzie anche per i proprietari, soprattutto per quanto attiene alla riacquisizione, in tempi più brevi, della libera disponibilità degli alloggi al termine della locazione, riattribuendo all'autorità giudiziaria la direzione ed il controllo della fase esecutiva. La l. n. 431/1998 – che, a ben vedere, si occupa segnatamente solo della durata e del canone, rimandando per gli aspetti accessori del rapporto locatizio alla legge sull'equo canone e alla disciplina codicistica – prefigura anch'essa un doppio canale (libero e agevolato), prevedendo, da un lato, la possibilità di determinarne liberamente il corrispettivo, la cui durata minima deve essere, però, di otto anni (4+4, salvo disdetta alla prima scadenza nei casi consentiti), e, dall'altro, quella di far propri contratti-tipo definiti localmente sulla scorta di un accordo-quadro a livello nazionale tra Organizzazioni della proprietà e degli inquilini, incentivando in vario modo quest'ultima tipologia contrattuale caratterizzata da una più breve durata (3+2, salvo motivata disdetta). Accanto a tali esigenze – in pratica, liberalizzazione del canone, bilanciata da una maggiore stabilità del rapporto – si è affacciata quella di fronteggiare ed eliminare in radice il c.d. sommerso, frequente nella realtà locatizia, tanto che il mancato assolvimento degli obblighi posti dalla normativa fiscale ridonda per la prima volta sul piano civilistico, essendo previsto il diritto del conduttore a ripetere quanto versato in più rispetto agli importi indicati nel contratto registrato, mentre, poi, con la l. n. 311/2004 (legge finanziaria 2005), viene ad essere addirittura introdotta una sanzione di nullità dell'intero contratto nell'ipotesi di mancata registrazione dello stesso. Nello specifico, l'art. 1 della l. n. 431/1998 in commento ha delineato il campo applicativo della nuova normativa, circoscrivendo, al comma 1, la categoria di contratti cui la legge ha inteso riferirsi, segnatamente i contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo, i quali, se stipulati successivamente alla data di entrata in vigore di tale legge (30 dicembre 1998), devono seguire alternativamente una delle due modalità prescritte ai commi 1 e 3 dell'art. 2; lo stesso comma 1, in particolare, stabilisce che non solo la stipula avvenuta successivamente all'entrata in vigore della legge, ma anche il rinnovo (di un rapporto preesistente), successivo a detta data, dei contratti di locazione debba seguire le modalità indicate dall'art. 2, ossia il primo canale c.d. libero e il secondo canale c.d. agevolato. I successivi commi 2 e 3 circoscrivono, più propriamente (anche se in senso negativo), il suddetto “àmbito di applicazione”, individuando cinque tipologie locatizie escluse ed indicando la disciplina normativa rispettivamente applicabile, e precisamente: a) i contratti di locazione relativi agli immobili vincolati ai sensi della l. 1 giugno 1939, n. 1089, b) i contratti di locazione relativi agli immobili inclusi nelle categorie A/1, A/8 e A/9, c) gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, d) gli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche, e e) i contratti di locazione stipulati dagli Enti locali in qualità di conduttori per soddisfare esigenze abitative di carattere transitorio. Chiude l'art. 1 in commento il comma 4, che impone, in via generale – e, quindi, con una disciplina di contenuto assai diverso dai capoversi precedenti, volti a delineare l'àmbito applicativo della novella – la “forma scritta” per la stipula di validi contratti di locazione ad uso abitativo a decorrere dall'entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dalla l. n. 431/1998. Uso abitativoA ben vedere, il legislatore del 1998, nel dettare la nuova disciplina, non si preoccupa di definire la nozione di locazione “ad uso abitativo”, ossia la tipologia la cui tipicità è data dalla particolare destinazione funzionale impressa all'immobile concesso in godimento, sicché la delimitazione dell'àmbito applicativo della stessa normativa è rimessa all'interprete (comunque, è stata comunemente apprezzata l'opzione sistematica di collocare non in chiusura, ma all'inizio della legge, la norma che individua la sfera di operatività della novella, sovvertendo l'opposta soluzione adottata dal legislatore del 1978). In termini generali, si è osservato (Carrato, Scarpa, 331) che la legislazione speciale ha storicamente assicurato alla locazione ad uso abitativo la dignità di istituto autonomo, fornito di un proprio statuto connaturato all'interesse del conduttore di disporre dell'immobile per soddisfare un'esigenza fondamentale della persona; il meccanismo di protezione dell'interesse all'abitazione è così arrivato ad estendersi all'accesso al bene secondo un equo regolamento contrattuale, al godimento adeguato delle esigenze personali e familiari e, infine, alla sufficiente durata e stabilità dell'utilizzazione del medesimo bene. Si è, altresì, rilevato (Nonno, 2) che, una volta abrogati gli artt. 1 e 26 della l. n. 392/1978, la nuova normativa, aldilà delle fattispecie legislativamente escluse – v. infra – concerne tutti i rapporti locativi caratterizzati dalla destinazione abitativa dell'immobile locato, con conseguente irrilevanza dei motivi e delle finalità del godimento, dei mutamenti soggettivi dei destinatari e della stipula del contratto da parte di persone, anche giuridiche, diverse dall'effettivo utilizzatore. In quest'ottica, si è evidenziato (Petrolati 1999, 8) che il richiamato settore degli immobili destinati ad abitazione non coincide con quello del capo I della l. n. 392/1978, essendo rispetto a questo più vasto: infatti, la legge sull'equo canone era volta a disciplinare unicamente il contratto di locazione stipulato per esigenze abitative “primarie” del conduttore, comprendendo in esse sia la necessità di una stabile e duratura dimora, sia il bisogno temporaneo di un'abitazione motivato dalla collocazione del luogo di studio o di lavoro, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1 e 26, comma 1, lett. a); la riforma del 1998 investe, invece, l'intero àmbito delle locazioni concernenti gli immobili ad uso abitativo tout court, senza alcuna limitazione di carattere generale in ragione della natura dell'esigenza del conduttore, primaria o secondaria, stabile o transitoria. Tale assunto si fonda non solo sulla formulazione letterale dell'art. 1, comma 1, ove l'uso abitativo è indicato senza alcuna specificazione, ma anche sulla considerazione complessiva della l. n. 431/1998. Invero, quest'ultima prevede specificamente, all'art. 5, i “contratti di locazione di natura transitoria”, e per essi rinvia ad una delle fonti della disciplina dei contratti soggetti alle convenzioni, nazionale e locale, delle Organizzazioni di settore, così espressamente ricomprendendo, in linea di principio, tutte le locazioni transitorie nell'àmbito di uno dei due modelli generali di rapporto locativo alternativamente richiamati dal comma 1 dell'art. 1 in commento; dal canto loro, i successivi commi 2 e 3, nell'escludere determinati rapporti, seguono un criterio di individuazione di tipo “casistico”, avendo riguardo a specifiche caratteristiche o destinazioni dell'immobile locato, senza però alcuna delimitazione di portata generale volta a ridimensionare il principio affermato dal comma 1 in ordine all'operatività della nuova legge per tutti gli usi abitativi (ad ogni buon conto, trattasi di fattispecie escluse dall'applicazione – non già dell'intera legge, bensì – di singoli articoli espressamente richiamati, che, sia pur rappresentando rilevanti porzioni della novella, configurano pur sempre eccezioni che confermano la regola). Altri autori (Lazzaro 1993, 55) hanno sottolineato il concetto di “abitazione primaria”, ossia quella in cui il conduttore si è stanziato con carattere di stabilità, dimorandovi unitamente al proprio nucleo familiare, con il conseguente inserimento nel quartiere e nelle sue strutture; si tratta del luogo in cui lo stesso conduttore ha la sua dimora abituale – c.d. residenza in senso oggettivo, a prescindere cioè dalle risultanze anagrafiche – che realizza quel diritto sociale all'abitazione, collocabile tra i diritti individuabili dell'uomo ex art. 2 Cost. In questa prospettiva – volta pur sempre ad una tutela rafforzata per il conduttore, sia pure nel quadro di un maggiore spazio all'autonomia negoziale – vanno esclusi, dal novero dei rapporti interessati dalla riforma, in primis, i contratti atipici, come quelli di alloggio, residence, affittacamere, pensione familiare, posti letto, cohousing, ecc., ove il godimento dell'immobile costituisce soltanto una delle obbligazioni principali, ed è accompagnato da una serie di prestazioni accessorie e servizi di natura lato sensu alberghiera (pulizia, cambio biancheria, lavanderia, deposito, luce, acqua, telefono, ecc.), riconducibili al contratto di somministrazione o/e al contratto d'opera, che, però, non si pongono in posizione meramente subordinata alla prima. Né può qualificarsi come locazione il godimento dell'immobile condominiale da parte del portiere, qualora costituisca un parziale corrispettivo della prestazione lavorativa; in tali casi, il proprietario dell'immobile adibito a casa del portiere è lo stesso condominio-datore di lavoro, trattandosi di un rapporto atipico interamente regolamentato dalle norme del contratto di lavoro in cui l'uso dell'alloggio rappresenta una parte della retribuzione maturata dal portiere, il quale dovrà ovviamente lasciare l'appartamento con la cessazione dell'incarico; se, invece, l'alloggio del portiere è di proprietà di un terzo che lo loca al condominio-datore di lavoro, troverà applicazione la nuova disciplina della l. n. 431/1998, laddove rimarrebbe comunque applicabile la sola disciplina codicistica in materia locativa o, al più, quella di un contratto (atipico) a favore di terzo (Scarpa 1999, 15). Ben più problematica è la questione relativa ai c.d. contratti ad uso foresteria – oggetto di esame nell'art. 5 della l. n. 431/1998, al cui commento si rinvia – che sono caratterizzati dalla dissociazione del soggetto conduttore rispetto all'effettivo fruitore dell'immobile locato: invero, tali contratti si concretizzano in quei rapporti stipulati dal locatore con una persona giuridica, una società, ecc. (e in ogni caso con un'entità diversa da una persona fisica), la quale, a sua volta, dà in godimento l'immobile locato ad un soggetto proprio collaboratore o dipendente. Dovrebbero, infine, esulare dall'àmbito di applicazione della l. n. 431/1998 – anche se trattasi di ipotesi marginali – la locazione legittimamente stipulata dal custode relativamente all'immobile pignorato (art. 560 c.p.c.), o al bene oggetto di sequestro giudiziario (in forza del combinato disposto degli artt. 560 e 676 c.p.c.), o posta in essere dal curatore del fallimento in ordine all'immobile acquisito dalla massa (art. 105 l. fall.; per la nuova disciplina, v. d.lgs. n. 14/2019 – Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza); oppure quelle fattispecie non riconducibili in alcun modo al contratto di locazione, quali il contratto con cui vengono costituiti sull'immobile un diritto reale di abitazione o una multiproprietà reale, ed il contratto di comodato. Uso promiscuoLe parti, nella loro autonomia negoziale, possono stipulare anche un contratto di locazione ad uso abitativo e non: invero, in mancanza di una disposizione espressa, nella l. n. 392/1978, così come nella l. n. 431/1998, dell'ipotesi di locazione di immobile adibito ad uso promiscuo, nulla impedisce ai contraenti di concordare la destinazione a più usi dell'immobile locato. In proposito, si è ripetutamente affermato (v., tra le altre, Cass. III, n. 20331/2006) che rientra nella disponibilità delle parti – e non incorre nella nullità assoluta di cui all'art. 79 della l. n. 392/1978 – stabilire quale debba essere in concreto la destinazione da dare all'immobile locato, sicché, come nell'uso abitativo non contrasta con la suddetta norma l'espressa previsione che l'immobile debba servire non a dimora stabile del conduttore ma a realizzare altre sue esigenze di natura transitoria o turistica, così nell'uso non abitativo è concesso ai contraenti di escludere la possibilità di usare l'immobile locato come luogo aperto al pubblico degli utenti e dei consumatori. Si tratta dell'ipotesi in cui un unico immobile sia locato per una pluralità di usi, ossia una porzione utilizzata per finalità abitative e la rimanente ad uso diverso, senza tuttavia la possibilità di scinderle materialmente, oppure si pensi al caso del conduttore che lavora nel medesimo alloggio dove vive; esulano, invece, dalla presente tematica i casi di locazione di immobili apparentemente unici, ma in realtà composti di più locali funzionalmente autonomi e, perciò, destinati ad usi diversi fra loro – per esempio, locali con ingressi e servizi indipendenti – con riferimento ai quali si parla, più propriamente, di locazioni ad uso plurimo, caratterizzate dalla pluralità dei rapporti, ciascuno dei quali segue la propria normativa, e parimenti dicasi nell'ipotesi del proprietario di due ben separate unità immobiliari site nel medesimo palazzo, entrambe locate allo stesso soggetto ma di cui una sia ad uso abitativo e l'altra no, trattandosi di due distinti rapporti, ciascuno soggetto alla sua peculiare disciplina. Orbene, la diversità della disciplina prevista dal legislatore a seconda della diversa destinazione dell'immobile comporta la necessità di stabilire, in riferimento alle locazioni ad uso promiscuo, quale sia il regime giuridico concretamente applicabile. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità suole fare applicazione analogica del principio dell'uso “prevalente” stabilito dal comma 2 dell'art. 80 della l. n. 392/1978 – non abrogato dalla novella del 1998 – in base al quale l'intero rapporto è assoggettato al regime giuridico previsto per la destinazione preminente. In altri termini, alla disposizione de qua viene attribuito il rilievo di principio applicabile analogicamente riguardo a tutti gli aspetti in cui viene in questione il tema della prevalenza dell'uso e la legge non pone specifiche norme di riferimento: il criterio, quindi, finisce per costituire il mezzo di individuazione della tipologia locativa e del regime giuridico (v., ex plurimis, Cass. III, n. 2792/1999; Cass. III, n. 8463/1994; Cass. III, n. 5382/1994). Il problema si sposta allora nel determinare quale esso sia, attraverso un'indagine sul caso specifico ed un conseguente apposito giudizio di merito, restando fermo, però, che la pattuizione di un uso promiscuo non deve essere il modo per aggirare le norme imperative, prospettando come promiscuo un rapporto che tale non è o attribuendo convenzionalmente prevalenza a quanto non è nella realtà (Cass. III, n. 9612/2003). Nel determinare la prevalenza – secondo la giurisprudenza – l'interprete deve tener conto, in primo luogo, della volontà delle parti e, se tale indagine ermeneutica non raggiunga un risultato positivo, rimanendo incerto quale fra gli usi consentiti le parti abbiano inteso quello prevalente, va analizzato l'uso “effettivo” preminente. Tali principi costituiscono oramai ius receptum (Cass. III, n. 6456/1998; Cass. III, n. 11266/1997; Cass. III, n. 8463/1994 cit.; Cass. III, n. 6223/1993): invero, si è ripetutamente affermato che l'applicabilità in via analogica della disposizione di cui all'art. 80, comma 2, della legge sull'equo canone va estesa alle ipotesi di uso promiscuo contrattualmente convenuto dalle parti, di talché il rapporto, per applicazione analogica del criterio indicato dal citato art. 80, deve considerarsi regolato dall'uso prevalente voluto dalle parti, a meno che, avendo il conduttore adibito l'immobile per un uso diverso, non debba assumere rilievo l'uso effettivo; pertanto, quando l'uso promiscuo è stato previsto dalle parti, il giudice, per stabilire quale regime giuridico debba essere applicato al contratto, deve anzitutto accertare la volontà delle parti in ordine all'uso e, solo nel caso in cui sia dedotta un'utilizzazione effettiva secondo un rapporto di prevalenza diverso, può procedere all'accertamento di quest'uso per determinare il diverso regime giuridico eventualmente applicabile. Per quanto attiene, poi, al giudizio sulla concreta prevalenza dell'uso, si è sottolineato che “il mero dato quantitativo della superficie adibita ai due usi non può fondare, di per sé, il riconoscimento della prevalenza dell'uno sull'altro, trattandosi di un criterio correlato ad una valutazione complessiva dell'importanza (soprattutto economica) delle varie utilizzazioni” (così Cass. III, n. 2768/1997). In particolare, si è rilevato che il criterio per determinare l'uso prevalente di un immobile urbano locato, ove destinato a più usi, come quello di abitazione e di attività di affittacamere, al fine dell'individuazione del regime applicabile al contratto ai sensi dell'art. 80 della l. n. 392/1978, non può consistere esclusivamente nel raffronto fra le superfici destinate rispettivamente all'uno e all'altro uso, ma è determinante l'accertamento se l'abitazione del conduttore e della sua famiglia, o anche del personale dipendente, sia in funzione dello svolgimento dell'attività di affittacamere, o se, invece, tale attività sia marginale (Cass. III, n. 5632/1993; Cass. III, n. 575/1991). In applicazione del menzionato criterio economico-funzionale, è stata ritenuta la prevalenza dell'uso non abitativo riguardo al caso del forno e della panetteria con annessa abitazione, considerata la maggiore incidenza della destinazione commerciale nell'economia del rapporto (Pret. Santhià 11 gennaio 1988; Trib. Perugia 19 settembre 1985); parimenti, si è affermato che la prevalenza “va determinata non solo in relazione all'ampiezza dei locali destinati alle diverse attività, ma anche secondo un criterio economico, sia in relazione al volume degli affari, sia in relazione all'importanza della vendita al minuto nei confronti dell'intera attività esercitata” (così Pret. Parma 11 febbraio 1988; in senso conforme, Pret. Cremona 20 luglio 1988); oggetto di esame, da parte della giurisprudenza di merito, è stato anche il caso di un immobile adibito sia ad abitazione sia ad attività di parrucchiere (Pret. Piacenza 21 novembre 1985; Trib. Napoli 24 febbraio 1984; Pret. Taranto 30 ottobre 1981); nel caso di locazione di un immobile ad uso promiscuo, in altra occasione, si è applicato il regime giuridico delle locazioni ad uso abitativo se, al momento dell'inizio della locazione, l'attività artigianale venga esercitata anche in un altro luogo, mentre di nessuna altra abitazione disponga il conduttore, poiché in tal caso l'esigenza più impellente e primaria soddisfatta dalla locazione è per il conduttore quella abitativa (Pret. Firenze 30 ottobre 1992). Sempre in tema cumulo di uso abitativo e non abitativo, i giudici di legittimità hanno chiarito che l'esercizio tra le pareti domestiche, da parte del conduttore, di un'attività lavorativa accessoria non necessariamente contrasta con la destinazione unitariamente abitativa dell'immobile (Cass. III, n. 7128/1983). Mutamento dell'usoVa premesso che il rispetto della destinazione d'uso del bene costituisce uno degli obblighi del conduttore: invero, l'art. 1587, n. 1), c.c. prescrive che il godimento del bene abbia luogo nell'àmbito dell'uso determinato nel contratto o per l'uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze; la destinazione del bene rappresenta, quindi, una specificazione del godimento o, meglio, il confine entro cui questo deve attuarsi. Orbene, l'art. 80, comma 1, della l. 392/1978 – norma non abrogata espressamente dall'art. 14 della l. n. 431/1998, al cui commento comunque si rinvia – stabilisce che, se il conduttore adibisce l'immobile ad uso diverso da quello pattuito, il locatore può chiedere la risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ha avuto conoscenza del mutamento di destinazione; la disposizione, quindi, predetermina la gravità dell'inadempimento a fini risolutori, individuando, quale unico criterio rilevante, il semplice cambio di destinazione. Decorso il termine trimestrale senza che la risoluzione sia stata chiesta, in forza del comma 2 dello stesso art. 80, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all'uso effettivo dell'immobile; qualora la destinazione ad uso diverso da quello pattuito sia parziale, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all'uso prevalente. La ratio della norma è quella di applicare agli immobili locati il regime giuridico corrispondente al loro uso effettivo, onde evitare che il locatore venga a subire, per iniziativa del conduttore, una disciplina del rapporto diversa da quella convenzionalmente pattuita (per tutti, Nardone, 2017). Il concetto di “uso diverso da quello contrattuale”, che legittima il locatore a chiedere la risoluzione del contratto con la specifica azione di cui all'art. 80 citato, nei limiti temporali ivi fissati ed a pena di decadenza, non si identifica, però, con qualsiasi mutamento di destinazione, bensì solo con quello che comporti un corrispondente mutamento di regime giuridico; in altri termini, se la violazione degli obblighi contrattuali da parte del conduttore importa sì una variazione della destinazione d'uso, tale però da non comportare anche un “mutamento di regime giuridico”, non si applica l'art. 80 della l. 392/1978 (Cass. III, n. 11055/2002). Resta, comunque, ferma l'esperibilità dell'ordinaria azione di risoluzione per inadempimento, contemplata dal codice civile, per le diverse ipotesi di cambiamento della destinazione della res locata, che costituisce, appunto, una delle obbligazioni principali del conduttore (il servirsi cioè della cosa per l'uso convenuto). Invero, l'inosservanza dell'obbligo di destinare la cosa all'uso pattuito potrebbe dare titolo alla risoluzione del contratto, ma solo qualora determina una rilevante alterazione dell'equilibrio sinallagmatico, ove si tratti cioè di un inadempimento di non scarsa importanza ex art. 1455 c.c. (all'uopo, il giudice potrebbe essere chiamato a valutare la rispondenza sinallagmatica tra canone e attività consentita); la risoluzione del contratto dovrebbe, inoltre, essere pronunciata solo ove la nuova destinazione si sostituisca all'originaria prevalendo definitivamente su di essa, non potendo rilevare una situazione temporanea e precaria; il tutto, salvo che il locatore non si avvalga, ai sensi dell'art. 1456 c.c., della clausola risolutiva espressa, laddove il giudice non è tenuto ad effettuare alcuna indagine sulla gravità dell'inadempimento, avendo le parti preventivamente valutato che l'uso diverso dell'immobile locato determina l'alterazione dell'equilibrio giuridico-economico del contratto (Cass. III, n. 25141/2008). Pertanto, l'azione di cui all'art. 80 della l. n. 392/1978 presuppone il “mutamento di regime giuridico”, che il rapporto subisca per effetto del diverso uso dei locali fatto dal conduttore rispetto a quanto pattuito, ma, al riguardo, la magistratura di vertice è divisa tra due orientamenti. Secondo un indirizzo (minoritario), la norma trova applicazione solo nel caso di passaggio dalla disciplina per le locazioni abitative a quella delle locazioni ad uso diverso da abitazione, e viceversa (Cass. III, n. 9689/1994). Secondo l'altro indirizzo (assolutamente prevalente), qualsiasi “mutamento” è rilevante, e dunque anche quando ciò avviene all'interno di una specifica tipologia di locazione; in proposito, si è osservato che l'uso diverso da quello contrattualmente stabilito, al quale si riferisce l'art. 80, non va individuato soltanto nella generale dicotomia tra uso abitativo e non abitativo – la quale, pur costituendo la più macroscopica ipotesi di uso diverso da quello pattuito, non ne esaurisce l'intera gamma – bensì in ogni mutamento d'uso che comporti un corrispondente mutamento di regime giuridico (Cass. III, n. 25141/2008; Cass. III, n. 2976/2005; Cass. III, n. 2962/1996; Cass. III, n. 11952/1992; Cass. III, n. 5689/1990; Cass. III, n. 4600/1986); Recentemente, gli stessi giudici di legittimità (Cass. III, n. 5767/2010) hanno statuito che, in tema di locazioni abitative, la norma dell'art. 80 della l. n. 392/1978, essendo diretta ad evitare che venga elusa la disciplina fissata per le diverse tipologie locative, va riferita a tutti i casi in cui la variazione comporti l'applicazione di una diversa disciplina e, quindi, anche nel caso di mutamento dall'uno all'altro sottotipo di locazione abitativa di cui all'art. 26, lett. a), della citata legge, e finanche in quello in cui il mutamento di destinazione produca effetti più sfavorevoli per il conduttore, restando estranei alla norma in questione solo quei cambiamenti d'uso dai quali non derivi innovazione nella disciplina giuridica del rapporto ed in relazione ai quali è configurabile solo un inadempimento contrattuale legittimante il ricorso all'ordinaria azione di risoluzione prevista dall'art. 1453 c.c. Quest'ultimo orientamento è stato, da ultimo, ribadito dai giudici di Piazza Cavour (Cass. III, n. 969/2017), i quali hanno precisato che la norma contenuta nell'art. 80 si applica anche al mutamento che trasforma l'uso di immobile, previsto per le esigenze abitative transitorie del conduttore, in quello diverso di abitazione utilizzata per destinazione abitativa stabile, e viceversa; si è ritenuto che tale norma tuteli un interesse assolutamente estraneo a quello del locatore, identificabile con l'esigenza di assicurare l'effettivo rispetto delle tipologie normative, sicché il mutamento di destinazione dell'immobile, da un uso protetto dalla l. n. 392/1978 ad un uso per così dire “neutro” e viceversa, rientra nella previsione del suddetto art. 80; l'aggiunta di una diversa attività a quella originariamente pattuita non comporta l'applicabilità della citata norma, ma va riguardata sotto il profilo dell'inadempimento del conduttore da valutarsi alla stregua dell'ordinaria disciplina del codice civile, con la conseguenza che ha carattere di gravità solo ove si traduce in una rilevante violazione del contratto in relazione alla volontà dei contraenti, alla natura ed alle finalità del rapporto nonché all'interesse del locatore. Anche la dottrina si è mostrata divisa sul punto. Da taluni, si è ritenuta l'inapplicabilità del citato art. 80 nel rapporto tra le tipologie contrattuali previste dalla novella, soprattutto riguardo alle locazioni transitorie ed a quelle destinate alla soddisfazione di esigenze abitative stabili (Verardi, 146), ferma restando l'applicabilità della medesima nel rapporto con tipologie contrattuali estranee all'uso abitativo, e ciò in quanto lo specifico regime giuridico previsto per le locazioni transitorie sarebbe incompatibile con la disciplina sul mutamento d'uso; anche altri autori (Bucci, 132) propendono per l'inapplicabilità dell'art. 80 nell'ipotesi di utilizzo di fatto del bene locato per esigenze stabili come seconda casa e, quindi, in modo saltuario, ipotesi che, del resto, concreta uno specifico motivo di diniego di rinnovo alla prima scadenza. All'inverso, la dottrina prevalente è orientata a ritenere applicabile l'art. 80 nel caso di immobile locato per uso abitativo che successivamente venga di fatto destinato ad un uso diverso, mentre problematica è l'opposta ipotesi di un contratto locativo per uso diverso da quello abitativo, stipulato verbalmente, caratterizzato da un successivo utilizzo abitativo dell'immobile locato, scontrandosi il principio della forma scritta di cui all'ultimo comma dell'art. 1 della l. n. 431/1998 con quello dell'applicazione del regime giuridico proprio dell'uso effettivo imposto dall'art. 80 (Pignatelli, 263). Autorevole opinione (Preden, 355) è quella secondo cui l'art. 80 l. n. 392/1978 sarebbe stato abrogato per incompatibilità, ragion per cui dovrebbe considerarsi inammissibile non solo il passaggio dalla locazione non abitativa a quella abitativa, ma anche quello inverso poiché il requisito della forma scritta è imprescindibile sia per la pattuizione originaria che per l'estinzione della medesima pattuizione in virtù di un nuovo accordo contrattuale per definizione tacito. Infine, altra dottrina (Lazzaro, Di Marzio, 368) propende per l'integrale applicabilità dell'art. 80 della l. n. 392/1978 sia all'interno delle tipologie locatizie di cui alla l. n. 431/1998, sia con riferimento alle ipotesi di passaggio da locazioni estranee a tale legge, anche se verbalmente stipulate, ad usi abitativi contemplati dall'art. 1 e viceversa: infatti, il requisito della forma scritta non impedisce il persistente funzionamento del meccanismo legale di cui all'art. 80 della l. n. 392/1978 purché in origine il contratto sia sorto validamente. Dunque, la risoluzione del contratto è collegata al semplice mutamento di destinazione, considerato inadempimento grave per presunzione di legge e non più per valutazione del giudice; all'inerzia del locatore il quale non richieda la risoluzione del contratto nel termine di tre mesi, è attribuita efficacia sanante dell'inadempimento, con conseguente assoggettamento del contratto alla disciplina normativa conforme all'effettiva utilizzazione dell'immobile (Cass. III, n. 2976/2005); poiché la diversa destinazione dell'immobile è quella che si realizza in concreto con l'effettivo diverso uso della cosa locata, è solo da tale momento che comincia a decorrere il termine perentorio per chiedere la risoluzione del contratto, non potendo venire in rilievo, a tal fine, una situazione di semplice conoscenza della sola intenzione del conduttore. Tale interpretazione è conforme all'impianto complessivo della suddetta norma che esige l'effettiva conoscenza da parte del locatore (Cass. III, n. 5767/2010), e si configura necessariamente in rapporto ad una situazione concreta ed attuale di un uso diverso, e non ad un progetto di mutamento di destinazione che il conduttore potrebbe anche non attuare (Cass. III, n. 3683/2006). Per effetto dell'intervento dei giudici della Consulta (Corte cost., n. 185/1988), il termine trimestrale – entro cui il locatore deve reagire alla condotta del conduttore – scatta solo quando il primo ha avuto effettiva conoscenza di quanto il secondo ha posto in essere; ciò impone allora di distinguere se, in pendenza del rapporto, il locatore abbia o meno appreso del mutamento di destinazione, poiché è solo quando tale consapevolezza sia venuta in essere che si applica il disposto dell'art. 80 citato. Se il conduttore muta l'uso pattuito dell'immobile e il locatore non esercita l'azione di risoluzione entro tre mesi da quando ne è venuto a conoscenza, il silenzio del locatore viene interpretato come implicito consenso al mutamento d'uso, con effetti novativi del precedente rapporto ed applicazione ad esso del regime giuridico corrispondente all'uso effettivo, con decorrenza dalla scadenza del termine per proporre l'azione di risoluzione (Cass. III, n. 9356/2002). Per aversi una manifestazione di volontà, sia pure tacita, del locatore, diretta a convalidare l'illegittima situazione posta in essere dal conduttore con il mutamento della destinazione dell'immobile locato, è necessario, però, che sussistano elementi concreti ed atti inequivoci, dai quali possa individuarsi la volontà derogatrice della clausola circa l'uso contrattuale convenuto; a tal fine, la semplice tolleranza, ed anche la stessa scienza ed inerzia, del locatore non costituisce acquiescenza in ordine al mutamento di fatto nella destinazione dell'immobile, posto arbitrariamente in essere dal conduttore, in contrasto con i patti contrattuali. Pertanto, ove il proprietario non abbia tempestivamente esperito ex art. 80 della l. n. 392/1978, l'azione di risoluzione del contratto a seguito del mutamento di uso da parte del conduttore, posto che il mancato esercizio di tale azione va interpretato come implicito consenso al mutamento d'uso, ai fini del riconoscimento del diritto di prelazione di cui all'art. 38 della citata legge rileva la destinazione effettiva dell'immobile locato, ove lo stesso venga successivamente utilizzato per lo svolgimento di attività comportanti contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori, e non quella diversa originariamente pattuita, sicché il conduttore che si voglia avvalere della facoltà di prelazione è tenuto a provare, oltre all'intervenuto mutamento della destinazione, l'avvenuta decorrenza del termine a disposizione del locatore per proporre l'azione di risoluzione (Cass. III, n. 699/2010). Ad ogni buon conto, il decorso del termine di decadenza di cui all'art. 80 della l. n. 392/1978, per mancato esercizio da parte del locatore dell'azione di risoluzione del contratto entro tre mesi dall'avvenuta conoscenza, non è rilevabile d'ufficio dal giudice, dovendo la parte interessata, nel sollevare l'eccezione, manifestare chiaramente la volontà di avvalersi dell'effetto estintivo dell'altrui pretesa, ricollegato dalla legge al decorso di un certo termine (Cass. VI/III, n. 17005/2011). Fattispecie legislativamente escluseIl comma 2 della l. n. 431/1998, che disciplina le locazioni di immobili “ad uso abitativo” – escludendo, quindi, quelle ad uso diverso, la cui disciplina è tuttora integralmente disciplinata dal capo III della l. n. 392/1978, e, al contempo, non operando alcuna distinzione in ordine alla data di costruzione come faceva la l. n. 359/1992 – limita ulteriormente l'àmbito applicativo di tale legge, nel senso che individua sostanzialmente quattro tipologie locatizie escluse segnatamente dall'applicazione degli artt. 2 (stipula e rinnovo del contratto di locazione), 3 (disdetta del contratto), 4 (convenzione nazionale), 4-bis (tipi di contratto, come inserito dall'art. 2, comma 1, della l. n. 2/2002), 7 (condizioni per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio), 8 (agevolazioni fiscali) e 13 (patti contrari alla legge); dal canto suo, il comma 3, riguardo ad una quinta tipologia di contratti di locazione, conferma l'inapplicabilità di tali disposizioni, non richiamando, però, solo l'art. 8, concernente le agevolazioni fiscali, di cui pertanto quest'ultima tipologia può beneficiarne. A ben vedere, manca un'unica ratio della selezione operata, essendo le varie ipotesi sorrette da considerazioni alquanto diverse: in taluni casi, hanno avuto peso le peculiarità tipologiche dell'immobile oggetto del contratto (abitazioni in ville, castelli, palazzi di eminenti pregi artistici o storici, ecc.); in altri, l'opzione è stata motivata da un attenuato rilievo della funzione “abitativa” soddisfatta dall'immobile; in altri ancora, si sono volute evitare interazioni ed attriti con specifiche normative. In questa prospettiva, non può affermarsi, quindi, che le ragioni delle singole esclusioni siano le stesse: le fattispecie de quibus sono accomunate unicamente dalla circostanza che il legislatore non le ha ritenute meritevoli della tutela apprestata dalla nuova disciplina, ma la ratio delle singole scelte è differente a seconda della diversa tipologia contrattuale presa in considerazione (Nonno, 4). L'eterogeneità delle esclusioni è anche manifesta (Lazzaro, Di Marzio, 122) nel rapporto tra la disciplina legale delle locazioni abitative ed il residuo àmbito rimesso all'autonomia negoziale delle parti: invero, l'esclusione comporta l'applicazione, in taluni casi, della disciplina codicistica, pressoché integralmente derogabile, mentre, in altri, di specifiche normative sorrette da finalità pubblicistiche, come tali, rigide ed inderogabili. A questo punto, resta solo da chiedersi se l'elenco di cui sopra sia o meno tassativo, oppure residuino talune fattispecie contrattuali che sfuggono alla rigida regolamentazione dettata per le locazioni ad uso abitativo. Dalla Relazione parlamentare alla c.d. legge Zagatti, si evinceva che gli obiettivi prefissati erano, da un lato, il riordino dell'intero settore nell'intento di semplificare il più possibile il quadro normativo e, dall'altro, l'introduzione di un complesso di regole certe nelle quali potesse trovare maggiore spazio l'autonomia delle parti; in quest'ottica, si è ritenuto (Nonno, 21) che si sia voluto delineare un sistema chiuso, con l'individuazione di figure contrattuali tipiche non solo con riferimento all'abitazione primaria, ma anche per il soddisfacimento di particolari transitorie delle parti meritevoli di tutela, lasciando alla disciplina del codice civile o alla specifica normativa di settore solo quelle fattispecie espressamente considerate nell'art. 1, commi 2 e 3, le quali non si è reputato di far rientrare nell'àmbito applicativo della novella del 1998. D'altronde, la generica formula normativa dell'art. 26, comma 1, lett. a), della l. n. 392/1978 aveva spesso lasciato spazio, in passato, a facili elusioni delle norme imperative dell'equo canone, sicché è apparsa evidente che la regolamentazione dei contratti di locazione lato sensu transitori fosse espressione della volontà del legislatore di definire normativamente tutte le possibili tipologie di locazioni ad uso abitativo. Non è mancato chi (Lazzaro 1999, 133), anche approfittando delle imprecisioni terminologiche del legislatore, ha tentato di superare la rigidità del sistema e, ponendo l'accento sulla circostanza che la protezione normativa si giustifica solo per quei contratti di locazione stipulati dal conduttore per la soddisfazione di proprie personali esigenze abitative, ha ritenuto che possano stipularsi validi contratti di locazione allorquando il medesimo conduttore non debba fare uso personale del bene; in questa prospettiva, troverebbe applicazione la sola disciplina del codice civile nei contratti c.d. ad uso foresteria, oppure per quelli stipulati da particolari Enti nell'intento di destinare l'immobile ad ostello per studenti universitari c.d. fuori sede. Edifici di interesse storico e artistico Il patrimonio culturale immobiliare italiano, di regola, è di proprietà pubblica, ma non si esclude che possa anche appartenere ai privati: nel primo caso, vige una presunzione di interesse storico-artistico, mentre nel secondo il particolare regime di tutela è subordinato ad un'apposita “dichiarazione di interesse culturale”, rilasciata dalle competenti Autorità, che appunto ne attesti tale valore; stanti i gravosi oneri di manutenzione e conservazione, e gli specifici vincoli che ne limitano la circolazione giuridica, le unità immobiliari site in tali fabbricati godono di determinate agevolazioni fiscali (sul versante delle imposte sui redditi e dei tributi locali, come I.C.I., I.M.U. e TA.S.I.), e soggiacciono ad una particolare normativa qualora il relativo proprietario intenda concederne il godimento a terzi a titolo di locazione. Invero, il comma 2, lett. a), dell'art. 1 della l. n. 431/1998 esclude dall'applicazione della nuova disciplina delle locazioni ad uso abitativo, in primo luogo, proprio gli “immobili vincolati ai sensi della l. 1° giugno 1939, n. 1039”, ossia gli immobili che, in buona sostanza, presentano interesse storico, artistico, archeologico, etnografico, per i quali viene fatto esplicito rinvio alla disciplina codicistica, salvo che non siano stipulati secondo le modalità di cui al comma 3 dell'art. 2, ossia secondo il canale del canone c.d. concertato; in quest'ultimo caso, si estende ai proprietari la facoltà di accesso alle correlate agevolazioni fiscali, anche se appare poco plausibile che il locatore, proprietario di un immobile con tali caratteristiche di pregio, opti per il canale c.d. amministrato, al solo fine di beneficiare delle agevolazioni fiscali connesse all'utilizzo di questo tipo di contrattazione. La ratio di tale esclusione – come, d'altronde, quella della tipologia locatizia successiva – risiede nell'ovvia considerazione che il legislatore ha voluto tutelare unicamente i soggetti che fossero realmente deboli sotto l'aspetto economico-sociale, il che non può ritenersi, almeno di regola, per quella categoria elitaria di conduttori cui si rivolge l'offerta degli immobili di pregio di cui sopra. L'inapplicabilità della disciplina speciale, poi, si giustifica (Carrato, Scarpa, 337) in base all'interesse che il legislatore manifesta per la conservazione e la fruibilità pubblica dei beni culturali, e che trova realizzazione soprattutto mediante tecniche di controllo della relativa circolazione giuridica; d'altronde, l'eventuale esercizio, da parte dello Stato, della prelazione implica l'acquisizione del bene stesso al regime del demanio pubblico e, quindi, la configurabilità di un suo godimento in favore di terzi solo in forza di concessione ammnistrativa e non di contratti di diritto privato, ed effetto automatico della prelazione artistica esercitata sul bene di interesse storico-culturale è anche l'estinzione del rapporto di locazione concluso dal precedente proprietario nei confronti del terzo, il quale non potrà vantare alcuna pretesa nei confronti della Pubblica Amministrazione. Premesso che la disciplina de qua è ormai confluita nel d.lgs. n. 490/1999 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali), e nel d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), va sottolineato che il riferimento contenuto nella l. n. 431/1998 non è a tutti i beni culturali, ma esclusivamente – secondo quanto recita la disposizione – “agli immobili vincolati” ai sensi della l. n. 1089/1939. Al contrario, i “beni culturali che compongono il patrimonio storico e artistico nazionale” non sono soltanto immobili poiché, “sono beni culturali”, ai sensi dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 490/1999, anche beni mobili (come, ad esempio, le collezioni che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico, i beni archivistici, i beni librari). Inoltre, non tutti gli immobili tutelati dalla legge appaiono suscettibili di formare oggetto di rapporti di locazione abitativa: non lo sono, ad esempio, “i parchi e i giardini che abbiano interesse artistico o storico” di cui all'art. 2, comma 2, lett. f), o “gli studi d'artista” e le “aree pubbliche, aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale” di cui all'art. 2, comma 3, lett. b) e c), del suddetto Testo unico. A ben vedere, la parte più cospicua dei beni culturali è costituita dai castelli e palazzi di eminente pregio artistico-storico, che già vanno a costituire la categoria catastale A/9 e, come tali, sono comunque esclusi – v. infra – dall'àmbito di applicazione della l. n. 431/1998, ai sensi del medesimo art. 1, comma 2, lett. a), secondo periodo. Ne consegue che, nel delimitare il segmento immobiliare sottratto alla vigente legge sulle locazioni abitative in forza del rinvio alla l. n. 1089/1939, occorre individuare quegli immobili che, astrattamente idonei ad essere adibiti ad abitazione, posseggono particolari pregi artistici o storici, ma non sono castelli o palazzi: si può richiamare, in proposito, quella pronuncia (Cass. I, n. 11445/1993), la quale afferma che, “nella suddetta categoria rientrano anche immobili che, pur avendo indubbi pregi storici o artistici, non possono essere considerati né castelli, né palazzi, quali, ad esempio ville, giardini, portici, gallerie, case di semplice fattura e di piccola mole (quale può essere la casa natale di un personaggio illustre di umili origini), singoli locali di immobili più complessi”. Si comprende così il ben modesto rilievo del riferimento in questione, che sembra esteso ad un numero di immobili veramente esiguo nell'economia del fenomeno della locazione abitativa; anzi, taluno non ha condiviso la scelta del legislatore, sottolineando che, “per i castelli e i palazzi, l'interesse della collettività al vincolo coincide con il vantaggio dei conduttori nell'abitare in una dimora prestigiosa, mentre, per un edificio popolare, all'interesse nazionale all'imposizione del vincolo non corrisponde per il conduttore alcun particolare privilegio” (così Tomasso, 97). Per il resto, rimane fermo che la concreta soggezione dell'immobile alla tutela di cui al d.lgs. n. 490/1990, dipende dall'attuazione del procedimento di dichiarazione e successiva notificazione ivi prevista; in particolare, mette punto rammentare che l'art. 6, sotto la rubrica “dichiarazione” – muovendo dagli artt. 2, comma 1, 3, comma 1, 5, comma 1, della l. n. 1089/1939, 36, comma 1, del d.P.R. 30 settembre 1963, n. 1409, e 9, comma 1, lett. b), del d.P.R. 14 gennaio 1972, n. 3 – stabilisce che il Ministero o la Regione, per quanto di propria competenza, dichiarano “l'interesse particolarmente importante”, “l'eccezionale interesse” o “il notevole interesse” dei beni ivi indicati; ed il successivo art. 8, sotto la rubrica “notificazione della dichiarazione”, soggiunge che “la dichiarazione prevista dall'articolo 6 è notificata al proprietario, possessore o detentore delle cose che ne formano oggetto” (v. ora art. 14 d.lgs. n. 42/2004). Orbene, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lett. a), della l. n. 431/1998, i contratti di locazione degli immobili vincolati ai sensi della l. n. 1089/1939 “sono sottoposti esclusivamente alla disciplina di cui agli articoli 1571 e seguenti del codice civile” – con i correlati ampi margini disponibilità consentiti dalla disciplina codicistica – sempre che non siano stipulati secondo le modalità di cui al comma 3 dell'art. 2 della stessa legge, ossia in conformità ai modelli offerti dagli accordi locali tra le Organizzazioni della proprietà edilizia e dei conduttori o del decreto ministeriale emanato in via sostitutiva. Tale formulazione è solo apparentemente chiara, nel senso che essa non può essere presa alla lettera, dal momento che vi sono disposizioni extracodicistiche della cui applicabilità al caso in questione nessuno ragionevolmente dubiterebbe; d'altronde, l'art. 1, comma 2, della l. n. 431/1998 esordisce con l'individuare negli artt. 2, 3, 4, 4-bis, 7, 8 e 13 le proprie disposizioni non applicabili – tra l'altro – alle locazioni de quibus, dal che si deduce l'applicabilità delle rimanenti norme della legge. Per converso, la combinazione del verbo “sottoposti” – in luogo di espressioni maggiormente neutre quali “regolati”, “disciplinati” e simili – con l'avverbio “esclusivamente” ha portato a ritenere che il legislatore, nell'escludere l'applicazione della disciplina di garanzia del conduttore residuata alle abrogazioni attuate dall'art. 14 della l. n. 431/1998, abbia voluto irrigidire la disciplina codicistica, sì da garantire in tal modo una qualche tutela anche al conduttore di tali immobili (Lazzaro 1999, 113). Con riferimento, invece, alle norme della l. n. 431/1998 applicabili ai contratti in oggetto, non sembra potersi dubitare – v. anche appresso – che le relative locazioni abitative, così come gli altri contratti disciplinati dalla stessa legge, siano assoggettate alla prescrizione di forma scritta prevista dall'art. 1, comma 4, della legge medesima; depongono in tal senso, sul piano sistematico, sia la portata generale della previsione di forma, collocata all'art. 1 della legge, sia l'omessa indicazione della menzionata disposizione tra quelle non applicabili ai contratti di cui allo stesso art. 1, comma 2; sul piano della ratio, militano in favore dell'applicabilità del requisito formale alle locazioni di immobili di prestigio sia la finalità di “trasparenza” perseguita dalla norma, sia lo scopo di promuovere l'osservanza degli adempimenti tributari derivanti dalla stipulazione dei contratti di locazione. Si è, tuttavia, osservato che la violazione della previsione di forma scritta non poteva in questo caso dare ingresso all'azione di riconduzione “a condizioni conformi” di cui all'art. 13, comma 5, della l. n. 431/1998, menzionato tra le norme non applicabili alle locazioni di immobili di cui all'art. 1, comma 2, della stessa legge (sull'inapplicabilità dell'art. 13, vecchio testo, alle ville, v. Cass. III, n. 19568/2004); e l'inapplicabilità dell'art. 13, inoltre, priva di sanzione la pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, ossia la condotta consistente nel redigere due contratti di locazione, uno destinato ad avere forza di legge tra le parti e l'altro destinato al fisco. Per il resto, l'indicazione delle norme della l. n. 431/1998 non applicabili a tali tipologie di locazioni abitative degli immobili de quibus (gli artt. 2, 3, 4, 4-bis, 7, 8 e 13) pone interrogativi di non agevole soluzione. Ragionando a contrario, dovrebbe ritenersi applicabile l'art. 5 in tema di locazioni transitorie, ma è difficile immaginare chi – non essendo sottoposto ad alcun vincolo di durata del rapporto o di quantificazione del corrispettivo – possa utilizzare un simile tipo contrattuale, per cui si è costretti a spiegare l'omessa menzione dell'art. 5 con l'intrinseco collegamento esistente tra le locazioni transitorie e quelle ordinarie, che implicherebbe in radice l'inapplicabilità alle locazioni di tali immobili della disciplina delle locazioni transitorie (Piombo, 450). Parimenti, di difficile comprensione si palesa la mancata indicazione dell'art. 6 sul rilascio degli immobili, giustificabile solo sul rilievo che la disposizione pone un congegno di carattere transitorio, come tale non applicabile ai contratti stipulati nel vigore della nuova legge (in ordine all'incompatibilità della normativa transitoria dettata dall'art. 6 nei suoi primi tre capoversi con le locazioni successivamente escluse dall'àmbito di operatività della riforma, De Stefano 1999, 95). Non appare pertinente, poi, la mancata indicazione, tra le norme non applicabili, degli artt. 9, in tema di disposizioni per i fondi per la previdenza complementare, e 10, in materia di ulteriori agevolazioni fiscali, mentre sembra addirittura paradossale che i conduttori di immobili di valore, attraverso l'omessa indicazione dell'art. 11 tra le disposizioni non applicabili, possano fruire di contributi pubblici, previsti per inquilini non abbienti, per il pagamento dei canoni relativi ad immobili costosi (Cuffaro, Giove, 6). È, quindi, apparsa preferibile (Nonno, 8) una diversa opzione ermeneutica – forse meno attenta, ma più coerente sotto il profilo sistematico – volta a sminuire il significato dell'avverbio “esclusivamente” ed a non dare eccessivo peso all'argomento a contrario; si è suggerito di ritenere che il riferimento alla disciplina del codice civile serva unicamente ad evidenziare che tali tipologie locatizie non incontrano i limiti inerenti alla durata e al canone previsti dalla l. n. 431/1998, e non già ad escludere l'applicazione, anche in via analogica, delle norme dettate dalla stessa o da altre leggi in materia; in altri termini, occorre fare un'indagine di compatibilità caso per caso, nel rispetto delle scelte del legislatore, salvo i profili di incostituzionalità (in quest'ottica, potrebbe trovare, ad esempio, spazio applicativo l'art. 10 della l. n. 392/1978 circa la partecipazione del conduttore alle assemblee condominiali). Immobili di prestigio La seconda categoria di tipologie locatizie, che sfuggono alla generale applicazione della l. n. 431/1998, è costituita dagli immobili accatastati nelle categorie A/1, A/8 e A/9, anch'essi sottoposti, come la tipologia prevista nel primo periodo della lett. a) dell'art. 1, comma 2, esclusivamente alla disciplina codicistica, salva l'adozione delle modalità di cui al c.d. secondo canale di cui all'art. 2, comma 3, della medesima legge. Si tratta, comunque, di categorie numericamente limitate, inferiori per consistenza circa al 3% del patrimonio immobiliare nazionale (Tomasso, 75); il godimento di tali immobili, peraltro, è intuibilmente riservata a fasce sociali particolarmente facoltose, sicché il legislatore ha ritenuto di privilegiare la libertà negoziale dei locatori a fronte delle esigenze di tutela dei conduttori. In proposito, soffermandosi sulla ratio dell'art. 26, lett. d), della l. n. 392/1978, che analogamente escludeva tali tipologie abitative dall'àmbito di applicazione della legge sull'equo canone, una pronuncia di legittimità (Cass. III, n. 12463/1998) osservava, infatti, che, con tale norma, il legislatore del 1978 non aveva ritenuto meritevole della tutela, accordata dalla predetta legge, il soggetto che assumesse in locazione tali immobili; la scelta legislativa era stata, quindi, nel senso di rifiutare, nel contemperamento delle opposte esigenze dei contraenti, la tutela sociale, assicurata in particolare dal c.d. equo canone, al soggetto il quale, acquisendo in locazione un immobile siffatto, dimostrava con ciò stesso di godere di ampie possibilità economiche. A tali fini, viene in considerazione la capacità di reddito dei conduttori, che il legislatore, con presunzione iuris et de iure, ha fatto derivare dalla detenzione dei singoli beni, con la conseguente esclusione dalla tutela in questione di quei soggetti che di essa non appaiono abbisognevoli; in altri termini, l'esclusione di tali rapporti locativi dal perimetro applicativo della l. n. 431/1998 prescinde del tutto dalla natura dell'esigenza abitativa avvertita dal conduttore, traendo invece dalla peculiare tipologia degli alloggi, di certo eccedenti lo standard medio di un habitat civile, e quindi pure dalle correlate condizioni economiche del conduttore, la presunzione della superfluità di una speciale protezione del rapporto locativo (Breccia, 143). Orbene, la disciplina del catasto su base nazionale, attuata allo scopo di censimento della proprietà immobiliare e di controllo delle entrate tributarie, risale alla l. n. 2136/1865; allo scopo di “accertare le proprietà immobiliari urbane e determinarne la rendita” nonché di “costituire un catasto generale dei fabbricati e degli altri immobili urbani”, il r.d.l. 13 aprile 1939, n. 652, convertito in l. n. 1249/1939, ha poi istituito il Nuovo Catasto Edilizio Urbano – ancora oggi in vigore, nonostante la modifica di cui al d.P.R. n. 138/1998 – ove sono fissati, appunto, i presupposti per l'individuazione delle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, menzionate dall'art. 1, comma 2, lett. a), secondo periodo, della l. n. 431/1998; alle richiamate modifiche, è peraltro seguita una serie di disposizioni di integrazione, senza, però, giungere ad una compiuta ed organica riforma del settore, stante che la l. n. 23/2014, che delegava il Governo per la revisione della disciplina del sistema estimativo del catasto dei fabbricati, è rimasta tuttora sulla “carta”. Occorre ricordare che la classificazione catastale è riferita alle “unità immobiliari” e, secondo l'art. 5 del r.d.l. n. 652/1939, “si considera unità immobiliare urbana ogni parte di immobile che, nello stato in cui si trova, è di per se stessa utile ed atta a produrre un reddito proprio”; tale classificazione poggia sul seguente procedimento di individuazione: a) delimitazione delle zone censuarie comunali ed inquadramento delle unità immobiliari, all'interno di esse, in funzione delle caratteristiche di destinazione d'uso (in particolare, appartengono al gruppo A le unità immobiliari destinate ad abitazione); b) suddivisione dei gruppi in categorie che, relativamente al gruppo A – per quel che qui rileva – sono le seguenti: A/1 (abitazioni di tipo signorile, relative a fabbricati siti in zone di pregio e dotati di caratteristiche costruttive, tecnologiche e di rifiniture di livello superiore a quello dei fabbricati di tipo residenziale), A/8 (abitazioni in ville) e A/9 (abitazioni in castelli o in palazzi di eminenti pregi artistici o storici). In questa prospettiva, ha acquistato particolare rilievo il tema della disapplicazione dell'atto di classamento catastale da parte del giudice ordinario in caso di difformità tra tale atto e la reale situazione dell'immobile. In proposito, si è più volte affermato che, nella controversia fra il locatore ed il conduttore per la determinazione dell'equo canone, il giudice ordinario, ove lo ritenga non conforme alla legge, può disapplicare l'atto di classamento dell'unità immobiliare operato dalle autorità amministrative e determinare, in via incidentale ed al limitato fine del computo del canone locativo, nella specifica controversia sottoposta al suo esame, la categoria catastale da attribuire a quelle unità, precisando che la disapplicazione dell'atto di classamento illegittimo non trova ostacolo nel mancato ricorso, ove configurabile, al giudice tributario avverso il classamento stesso, e ciò senza la possibilità di espungere dall'ordinamento l'atto amministrativo divenuto oramai inoppugnabile davanti agli organi a ciò preposti per decorso dei termini contemplati dalla legge (v., ex plurimis, Cass. III, n. 14867/2013; Cass. III, 3001/2012; Cass. III, n. 17214/2010; Cass. III, n. 5465/2006; Cass. III, n. 27002/2005; Cass. III, n. 15422/2004; Cass. S.U. n. 11938/1998; Cass. S.U., n. 2131/1997; Cass. S.U., n. 5844/1984). Merita sottolineare che la questione della corrispondenza del classamento alle reali caratteristiche dell'immobile ha rilievo non solo ai fini della (oramai) obsoleta questione della determinazione dell'equo canone, ma anche ad altri particolari fini, come, ad esempio, per stabilire se un determinato rapporto ricada o meno sotto la disciplina speciale locatizia (Cass. III, n. 14459/2006, concernente immobile appartenente alla categoria A/9). In quest'ottica, la disapplicazione della categoria catastale potrebbe comportare l'annullamento del contratto per errore ai sensi dell'art. 1427 c.c. per la parte che veda mutare la disciplina originaria del rapporto a seguito della diversa qualificazione dell'immobile disposta dal giudice, purché il locatore dimostri che, qualora fosse stato a conoscenza dell'errore di classamento, non avrebbe provveduto affatto a stipulare il contratto di locazione o l'avrebbe stipulato a diverse condizioni (si pensi ad un immobile accatastato come A/8, ossia abitazione in villa, poi modificato in A/7, abitazione in villino). Dunque, la l. n. 431/1998, nell'escludere dalla propria disciplina – oltre agli immobili di categoria A/8 e A/9, già menzionati dall'art. 26 della l. n. 392/1978, anche – gli immobili appartenenti alla categoria catastale A/1, ossia le abitazioni di tipo signorile, prima non contemplate, sembra aver ricompreso in un'unitaria disciplina tutte le locazioni abitative di immobili che potrebbero definirsi “di lusso”, per cui sorge il quesito se l'individuazione debba compiersi o meno in applicazione del d.m. 2 agosto 1969 (recante “caratteristiche delle abitazioni di lusso”). Argomenti a favore della soluzione negativa si traggono da una decisione degli ermellini, in cui si afferma che la disciplina ricordata definisce le caratteristiche delle abitazioni di lusso solo ai sensi e per gli effetti delle l. n. 408/1946, contenente disposizioni per l'incremento delle costruzioni edilizie, l. n. 35/1960, avente ad oggetto agevolazioni tributarie in materia edilizia, e l. n. 26/1968, concernente la proroga dei termini per l'applicazione delle agevolazioni tributarie in materia edilizia, e solo al fine, quindi, di escludere queste abitazioni dalle particolari agevolazioni fiscali e tributarie previste dalle predette norme (Cass. I, n. 1029/1995; conformi, con specifico riferimento al tema del classamento catastale, Comm. trib. centr. 17 gennaio 1985; Comm. trib. Siena 6 giugno 1983; contra, Comm. trib. centr. 28 marzo 1988, la quale ha ritenuto legittima la classificazione di un'unità immobiliare nella categoria A/8, qualora la stessa abbia una superficie superiore a mq. 240). In proposito, si è chiarito (Cass. III, n. 19301/2013) che, in caso di locazione di un'unità abitativa accatastata A/2 – risultante dal frazionamento di un edificio vincolato ai sensi della l. n. 1089/1939 ed incluso nella categoria A/9 – non trova applicazione la deroga di cui all'art. 1, comma 2, lett. a), della l. n. 431/98, conseguendone che la locazione in parola segue le regole generali di cui alla stessa l. n. 431/98 e non può essere, pertanto, disciplinata dagli artt. 1571 ss. c.c. Quanto alla villa, l'espressione adoperata dalla normativa catastale lascia intendere come non sia necessario che la villa costituisca un'unica unità immobiliare, ben potendo essere strutturata in maniera tale che, mantenendo ferme le caratteristiche della categoria particolarmente pregiata, possa presentarsi con più unità, tutte aventi la categoria A/8 (Lazzaro, Di Marzio, 148). In alcune direttive, tale categoria è stata così descritta: “Appartenenza a costruzioni isolate, aventi mole alquanto superiore a quella dei villini; con vedute a prospetto su tutti i lati e circondate da ampio spazio destinato a parco. Le caratteristiche intrinseche ed estrinseche in linea di massima corrispondono a quelle delle abitazioni di tipo signorile. Non si escludono casi in cui tali caratteristiche vengono superate per la presenza di materiali nobili e di opere di pregio artistico, come pure non si escludono casi (vecchie e modeste ville) in cui le caratteristiche si avvicinano a quelle delle comuni abitazioni”. Le caratteristiche essenziali vanno, quindi, individuate nell'isolamento e nell'ampio spazio di verde che alla costruzione è annesso, conseguendone che si è al di fuori della categoria in esame nel caso di suddivisione di un'originaria grande villa in tanti appartamenti, con la creazione di una sorta di “condominio”, che faccia venir meno le essenziali caratteristiche di riservatezza nonchè di godimento esclusivo (o limitato a pochissime famiglie) del verde (Cass. II, n. 12463/1998). È da ritenere che la disapplicazione della categoria catastale, in caso di suddivisione di una villa in più appartamenti, costituisca apprezzamento da effettuare caso per caso, non condividendo l'affermazione per cui la categoria A/8 si applica, in via di principio, solo se l'entità immobiliare “è occupata da un unico proprietario o da un'unica famiglia” (v., invece, Pret. Firenze 24 febbraio 1988), perché il quadro di riferimento parla non di “ville”, bensì di “abitazioni in ville” (al plurale), adoperando dizione identica a quella usata per l'individuazione dell'altra categoria delle “abitazioni in villini” (A/1) e mostrando così di privilegiare il tipo di costruzione. Riguardo, infine, ai castelli e palazzi di eminente pregio, si è sottolineato che la categoria catastale A/9 ha ad oggetto anche abitazioni in palazzi di eminenti pregi artistici o storici, assoggettati come tali ai vincoli di cui alla l. n. 1089/1939 (v. anche supra). Per risolvere taluni problemi, si rammenta che l'assegnazione a determinate categorie – in via generale - va fatta in base alla destinazione propria di ciascuna unità immobiliare risultante dalle sue caratteristiche costruttive, come è espressamente detto nell'avvertenza preliminare del quadro generale delle categorie, con la conseguenza che il classamento di una singola unità immobiliare va operato collocando l'unità stessa in quella tra le categorie e classi prestabilite per la zona censuaria che, fatti gli opportuni confronti con le unità-tipo, presenti destinazione e caratteristiche conformi o analoghe, ex art. 61 del d.P.R. n. 1142/1949. Una siffatta operazione ben difficilmente è possibile per i “palazzi” in questione, trattandosi di una tipologia aventi caratteristiche costruttive non suscettibili di confronto con quelle di un'ipotetica unità-tipo prescelta per quella zona censuaria: ognuno di essi è, infatti, un unicum ed il riconoscimento della sua importanza per la conservazione del nostro patrimonio artistico “copre di per sé la qualificazione dell'immobile come palazzo” (così Comm. trib. centr. 29 gennaio 1988). D'altra parte, ove si opinasse diversamente – e cioè che il suo frazionamento, con realizzazione di diverse unità abitative, comporti l'attribuzione della categoria catastale che compete alla nuova destinazione (così Pret. Firenze 6 ottobre 1988) – si creerebbero insuperabili conflitti in occasione dell'esercizio di prelazione da parte dello Stato in caso di vendita di una singola unità immobiliare facente parte del più vasto complesso. Merita, quindi, consenso una pronuncia di merito (Pret. Roma 7 febbraio 1989), la quale ha fortemente valorizzato tali profili, concludendo nel senso che l'attribuibilità a tutte le singole unità immobiliari facenti parte di tali “complessi” della categoria catastale A/9 deriva sia dalla loro singolarità, con conseguente collocazione al di fuori dei meccanismi catastali, sia dall'oggettiva considerazione che anche la singola unità immobiliare ha quelle caratteristiche di preziosità, di prestigio, di gradevolezza, ecc. che ne fanno un unicum (nella giurisprudenza di merito, in senso conforme si sono pronunciate: Pret. Palermo 12 maggio 1998; Trib. Milano 8 maggio 1997; Pret. Monza 3 febbraio 1996; si rivelano difformi, invece, altre pronunce per le quali, non potendosi classificare nella categoria A/9 tutte le unità immobiliari di un palazzo di interesse storico-artistico per il solo fatto della loro appartenenza ad esso, bisogna rifarsi all'accertamento eseguito dagli uffici del catasto che hanno censito e classificato le singole unità immobiliari: Pret. Parma 11 novembre 1995; Pret. Chieti 17 giugno 1994). Una pronuncia del giudice di legittimità (Cass. I, n. 11445/1993), richiamata la suddivisione in categorie del gruppo A delle unità immobiliari urbane, ha fatto proprio, in materia tributaria, l'indirizzo qui sostenuto, nel senso che la classificabilità di un castello o di un palazzo di eminenti pregi artistici o storici nella categoria catastale A/9 deve essere valutata unitariamente, senza possibilità alcuna che operi nei confronti di parte di esso una diversa classificazione, né con riferimento alle altre classi della stessa categoria, né riguardo alle altre categorie; in altri termini, un palazzo assoggettato al vincolo di cui alla l. n. 1089/1939 deve essere inquadrato catastalmente nella categoria A/9, indipendentemente dal fatto che singole parti di questo – sia pure suscettibili di essere apprezzate come distinte “unità immobiliari” – possano avere destinazioni (nella specie, abitazione di tipo signorile, abitazione di tipo civile, abitazione di tipo popolare, uffici o studi privati, negozi e botteghe, magazzini e locali di deposito) proprie di altre categorie catastali. Si tratta di un indirizzo conforme ad un orientamento ribadito dai giudici di merito tributari (Comm. trib. Bergamo 18 settembre 1995; Comm. trib. Piacenza 25 marzo 1992; Comm. trib. Piacenza 20 gennaio 1992), accolto anche dalla magistratura contabile (Corte Conti I, n. 37/1994), e che ha trovato sostegno da parte del giudice delle leggi il quale, facendo propria tale interpretazione, l'ha giudicata costituzionalmente legittima, osservando che rientra nella discrezionalità del legislatore e non è manifestamente irragionevole la norma che considera, ai fini del canone di locazione, i requisiti oggettivi dell'immobile, attribuendo rilievo al particolare pregio storico o artistico che esso presenta (Corte cost., n. 237/1997). La tematica è stata, poi, nuovamente sottoposta ai giudici di legittimità i quali, discostandosi dal precedente indirizzo, hanno affermato che, ai fini dell'applicabilità o meno delle norme sull'equo canone, i palazzi di interesse storico o artistico vanno considerati di categoria A/9 solo se destinati ad abitazione, anche se tale destinazione non deve necessariamente comprendere l'intero palazzo e può essere relativa anche ad una sola parte di esso, allorché tale parte, nonostante le minori dimensioni, si possa considerare, ripetendo le caratteristiche architettoniche-costruttive del tutto, un palazzo di eminenti pregi storici o artistici (Cass. III, n. 4922/2000); quest'ultima soluzione sembra ormai aver preso il sopravvento, giacché confermata in seguito (Cass. III, n. 15422/2004; Cass. III, n. 10013/2003), per cui, allo stato, può ritenersi che la destinazione abitativa può essere relativa pure ad una sola parte del palazzo, quando tale parte, nonostante le minori dimensioni, si possa considerare appartenente alla categoria secondo l'incensurabile valutazione del giudice di merito. Alloggi di edilizia residenziale pubblica La terza categoria di tipologie locatizie espressamente escluse dall'àmbito applicativo della l. n. 431/1998 concerne “gli alloggi di edilizia residenziale pubblica”, ai quali si applica, invece, la relativa normativa vigente statale e regionale. La novella del 1998 parla, quindi, di “edilizia residenziale pubblica” ma – a ben vedere – manca una definizione precisa ed esaustiva, per cui, in prima approssimazione, si può ritenere che, in essa, si compendia l'attività pubblica volta a garantire a soggetti sfavoriti per condizioni economiche il godimento di un alloggio che non potrebbero altrimenti ottenere attingendo al libero mercato (Lazzaro, Di Marzio, 123). Nel delineare l'evoluzione normativa della disciplina dell'edilizia residenziale pubblica, occorre prendere le mosse dalle l. n. 167/1962 e l. n. 865/1971, che introducono i piani di zona per l'edilizia economica popolare, apprestano un'apposita organizzazione amministrativa destinata alla gestione della materia e stanziano le necessarie risorse finanziarie, segnando così il passaggio dall'idea della mera elargizione in favore dei meno abbienti a quella della realizzazione del progetto costituzionale, ove la casa – attraverso l'art. 47, comma 2, Cost., ma più in generale attraverso l'art. 3, comma 2, Cost. – è riguardata come bene sociale indispensabile allo sviluppo della collettività, anche mediante il progressivo coinvolgimento dei Comuni e delle Regioni nell'attuazione delle scelte pertinenti (sul versante dottrinale, per tutti, Assini, Solinas, 2). La materia dell'edilizia residenziale pubblica risulta, per questa via, collocata entro quella dei “servizi pubblici” e, segnatamente, di quelli sociali, e tale inquadramento viene accolto anche dalla massima magistratura di vertice, che ha qualificato l'edilizia residenziale come “servizio pubblico di protezione sociale” (Cass. S.U., n. 5332/1980), avuto riguardo sia al contenuto della prestazione, ossia l'accesso all'alloggio di categorie di cittadini meno provvedute, sia al regime delle fasi di provvista dei mezzi e di attuazione. Gli obiettivi dell'edilizia residenziale pubblica, comunemente ripartita nelle tre forme dell'edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata, vengono perseguiti essenzialmente su due fronti: per un verso, viene incentivata la proprietà privata degli alloggi, in applicazione del principio costituzionale di cui all'art. 47 Cost., secondo cui la Repubblica “favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione” – in questo quadro, si colloca la legislazione in tema di cooperative edilizie e, in parte, lo stesso processo in atto di dismissione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, con importanti riflessi anche sulle locazioni abitative – mentre, per altro verso, viene in questione – ed è il profilo che qui maggiormente interessa – la concessione in locazione, a condizioni in qualche modo agevolate, degli alloggi appartenenti al patrimonio di edilizia residenziale pubblica. A questo proposito, l'assai vasto àmbito dell'edilizia residenziale pubblica è fotografato in alcune definizioni normative, come quella che lo estende “a tutti gli alloggi realizzati o recuperati da Enti pubblici a totale carico o con il concorso o contributo dello Stato o delle Regioni, nonché a quelli acquistati, realizzati o recuperati da Enti pubblici non economici per le finalità sociali proprie dell'edilizia residenziale pubblica” (v. anche le l. n. 560/1993, l. n. 52/1976, e l. n. 60/1963). Riguardo alla determinazione dei canoni degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, va, altresì, fatto riferimento agli artt. 4 e 60 del d.lgs. 112/1998, richiamato dall'art. 4, comma 4, della l. n. 431/1998, laddove è stabilito che, “fermo restando quanto stabilito dall'art. 60, comma 1, lett. e), del d.lgs. n. 112/1998, con apposito atto di indirizzo e coordinamento, da adottare con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, ai sensi dell'art. 8 della l. n. 59/1997, sono definiti, in sostituzione di quelli facenti riferimento alla l. n. 392/1978, e successive modificazioni, i criteri in materia di determinazione da parte delle Regioni dei canoni di locazione per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica”. Non dovrebbero essere compresi nella summenzionata categoria (ad avviso di Piombo 1999, 141) gli alloggi realizzati dalle cooperative edilizie per i propri soci, quelli realizzati o recuperati con programmi di edilizia agevolata e convenzionata, quelli c.d. di servizio e quelli di proprietà degli Enti previdenziali, purché non realizzati o recuperati da parte dello Stato o delle Regioni oppure con il loro concorso o contributo. Da ricordare, infine, il d.m. 22 aprile 2008 che, in attuazione dell'art. 5 della l. n. 9/2007, ha definito il concetto di “alloggio sociale”, per il quale il canone di locazione non può superare quello derivante dai valori risultanti dagli accordi locali sottoscritti ai sensi dell'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998 o, qualora non aggiornati, il valore determinato per le locazioni a canone speciale di cui all'art. 3, comma 114, della l. n. 350/2003. Orbene, individuato, sia pure in estrema sintesi, l'àmbito entro il quale può discorrersi di edilizia residenziale pubblica – comprendente sia gli alloggi costruiti con mezzi finanziari pubblici per favorire l'accesso all'abitazione dei ceti meno abbienti, sia gli immobili edificati da soggetti privati in base a convenzioni urbanistiche che contemplano anche i criteri di determinazione dei canoni di locazione per utenti con redditi medio-bassi – va sottolineata la peculiarità che caratterizza, sotto il profilo genetico, il sorgere dei contratti di locazione abitativa ad essa attinenti. Secondo l'orientamento della Suprema Corte, la formazione dei contratti di locazione di immobili appartenenti al patrimonio dell'edilizia residenziale pubblica si articola in due distinti momenti: da un lato, vi è una fase pubblicistica, attinente alla scelta del contraente, ossia al momento della “assegnazione” dell'alloggio, fase nella quale non sorgono per il privato che interessi legittimi, tali da radicare la giurisdizione del giudice amministrativo, e, dall'altro lato, vi è una fase privatistica in senso stretto, che concerne la costituzione e lo svolgersi del rapporto di locazione, con il sorgere di veri e propri diritti soggettivi, azionabili dinanzi al giudice ordinario (v., ex multis, Cass. S.U., n. 1731/2005; Cass. S.U., n. 5051/2004; Cass. S.U., n. 3389/2002; Cass. S.U., n. 67/2001; Cass. S.U., n. 1443/1998; Cass. S.U., n. 9749/1994). Proprio nella duplicità delle fasi, in cui si sviluppa la formazione dei contratti relativi ad immobili di edilizia residenziale pubblica, è stata rinvenuta la ratio dell'esclusione di cui sopra, nel senso che il legislatore del 1998, come quello di vent'anni prima, ha inteso sottrarre all'applicazione della disciplina dettata per la stipulazione dei contratti di locazione abitativa – quali strumenti volti alla regolamentazione di privati interessi – quei rapporti in cui il momento pubblicistico assume un rilievo tale da richiedere specifici ed ulteriori interventi normativi (Nonno, 11). In argomento, merita rammentare, altresì, che la determinazione del canone nel rapporto di edilizia residenziale pubblica da parte dell'Amministrazione è assistita da una presunzione di legittimità sulla base del generale principio vigente in materia di atti amministrativi (Cass. III, n. 6453/1998, riguardo ad immobili appartenenti ad un I.A.C.P.). È, infine, da ricordare che la giurisprudenza di vertice è costante nel ritenere che, in tema di edilizia residenziale pubblica, la natura privatistica del rapporto di locazione, a mezzo del quale viene attuato il provvedimento di assegnazione dell'alloggio, comporta che il rapporto stesso resta assoggettato alla normale disciplina della risoluzione della locazione per le cause previste dal codice civile (Cass. III, n. 2401/1998; Cass. I, n. 6923/1997; Cass. I, n. 10377/1993; Cass. III, n. 4058/1986). Dunque, la l. n. 431/1998, all'art. 1, comma 2, esclude dal proprio àmbito di applicazione gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, ai quali “si applica la relativa normativa vigente, statale e regionale”. La formulazione della norma – solo apparentemente limpida – sembra avere lo scopo di superare la bipartizione di cui all'art. 26, lett. b) e c), della l. n. 392/1978 tra “le locazioni relative ad alloggi costruiti a totale carico dello Stato” e “le locazioni relative ad alloggi assoggettati alla disciplina dell'edilizia convenzionata”, ampliando la sfera dei rapporti esclusi dall'operatività della vigente disciplina e ponendo fine ad alcune incertezze interpretative che si sono poc'anzi poste in luce. Ciò verrebbe attuato (ad avviso di Lazzaro, Di Marzio, 139) spostando l'accento dal momento della costruzione degli immobili – a totale carico dello Stato o nel quadro dell'edilizia convenzionata – alla funzione dei medesimi di sostegno delle esigenze abitative dei meno abbienti. In quest'ottica, si conferma la ratio della norma, atteso che, escludendo tutte le categorie di alloggi destinati a soddisfare finalità sociali – volte segnatamente a garantire una stabile abitazione in favore dei soggetti economicamente più deboli – locati secondo definite modalità, si è inteso sottrarre alla sfera applicativa di una normativa pensata per i privati relativamente a contratti in cui assume un particolare rilievo il momento pubblicistico, tanto da rendere necessaria una normativa speciale (statale e regionale). Perciò, secondo la nuova impostazione (di più ampio respiro), sarebbero da ritenere escluse dall'àmbito di applicazione della l. n. 431/1998 – nei discutibili limiti in cui tale esclusione è congegnata – non solo le locazioni di immobili costruiti a spese esclusive dello Stato o nel quadro dell'edilizia convenzionata, ma, in genere, tutte le locazioni di alloggi destinati a soddisfare finalità sociali di rilievo pubblicistico concessi secondo modalità predeterminate di scelta dell'assegnatario-conduttore ed a canone calmierato (sottolineano l'ampiezza della formula utilizzata dal legislatore, Cuffaro, Giove, 5). Va, però, ribadita l'incertezza della nozione di “edilizia residenziale pubblica”, dalla quale possono derivare nuovi dubbi interpretativi, tanto più che ora l'esclusione de qua in tanto può operare in quanto esista una “relativa normativa vigente, statale e regionale” applicabile alle ipotesi di volta in volta emergenti. Se è sufficientemente chiaro l'intento di ampliare l'àmbito delle locazioni escluse dall'applicazione della l. n. 431/1998, non altrettanto lo è l'individuazione della portata dell'esclusione, avuto riguardo alla scelta legislativa di limitarla agli artt. 2, 3, 4, 4-bis, 7, 8 e 13 della nuova legge, il che, utilizzando l'argumentum a contrario, dovrebbe condurre ad affermare che sono invece applicabili alle locazioni di alloggi di edilizia residenziale pubblica gli artt. 1, 5, 6, 9, 10, 11 e 12. Tutto ciò pone seri interrogativi sia con riferimento alle disposizioni richiamate, sia a quelle non richiamate. Si è sostenuto, in proposito, che il combinato disposto degli artt. 2, 3, 4 e 8 della l. n. 431/1998 contiene la sostanza della regolamentazione dei nuovi contratti di locazione, anche sul piano fiscale; la menzione, tra le norme non applicabili, dell'art. 7 della l. n. 431/1998 – che, fissando le condizioni per la messa in esecuzione dei provvedimenti di rilascio dell'immobile locato, era destinato a combattere il fenomeno dell'elusione fiscale (ma che il giudice delle leggi ha ormai dichiarato incostituzionale nel 2001) – era, invece, di difficile comprensione, mostrandosi piuttosto come espressione di “una singolare situazione di privilegio” (Cuffaro, Giove, 6). Parimenti, muovendo dal nesso di collegamento tra l'art. 1, comma 4, che stabilisce l'obbligo di forma scritta per la stipulazione di validi contratti di locazione, e l'art. 13, comma 1, che pone la sanzione di nullità delle pattuizioni volte a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, ci si è chiesti se “dall'indicata disapplicazione possa desumersi che i contratti di locazione esclusi sono sottratti al rigore della forma, oppure se, pur valendo anche per questi il requisito, sia in qualche modo legittimata l'elusione fiscale” (Cuffaro, Giove, ibidem). Per quanto riguarda le disposizioni ipoteticamente applicabili a contrario, si è sottolineata l'assai problematica compatibilità dell'art. 5 della l. n. 431/1998 – posto in tema di contratti di locazione di natura transitoria – dal momento che l'assegnazione in godimento degli alloggi di edilizia residenziale pubblica opera di regola a tempo indeterminato in favore di chi sia in possesso dei requisiti indicati dalla legge; l'omissione, infatti, non è stata ritenuta rilevante, giacché l'art. 5 è collegato con la disciplina ordinaria degli artt. 2 e 3 della l. n. 431/1998 ed è, quindi, radicalmente inapplicabile nei casi contemplati dall'art. 1, comma 2, riguardo ai quali è prevista l'inapplicabilità dei citati artt. 2 e 3 (Piombo 1999, 450). Altrettanti dubbi pone il mancato richiamo tra le norme non applicabili dell'art. 6 della l. n. 431/1998, se si considera che il godimento degli alloggi di edilizia residenziale pubblica cessa normalmente in presenza di specifiche ipotesi di inadempimento contemplate dalla legge, ma, anche in questo caso, l'omessa menzione dell'art. 6 tra le norme non applicabili è stata ritenuta non decisiva, in ragione della transitorietà della disposizione, come tale non applicabile ai contratti stipulati nel vigore della nuova legge (Piombo, ibidem). E ancora, l'art. 9 recava disposizioni per i fondi per la previdenza complementare e, dunque, non poteva avere applicazione in materia di locazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica (tale articolo è stato, poi, abrogato dall'art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 47/2000); l'art. 10 contiene una disposizione volta a trovare attuazione in successive normative; l'art. 11, che prevede il versamento di contributi integrativi ai conduttori meno abbienti, appare difficilmente compatibile con la disciplina applicabile in materia di edilizia residenziale pubblica, per la quale è già prevista l'applicazione del canone sociale c.d. calmierato, il cui ammontare è stabilito da specifiche disposizioni legislative o regolamentari, proprio perché rivolto a soggetti economicamente deboli. In definitiva, le uniche disposizioni effettivamente applicabili agli alloggi di edilizia residenziale pubblica sembrano essere soltanto l'art. 1, comma 1, relativo alla forma scritta del contratto di locazione, e l'art. 12, istitutivo dell'Osservatorio per la condizione abitativa. Non è inutile rammentare, per completezza, che la summenzionata disciplina speciale ha valenza unicamente nei rapporti tra l'Ente assegnatario ed il privato, perché se quest'ultimo, contravvenendo a specifiche disposizioni che lo vietano, cede in locazione l'appartamento assegnatogli a terzi, il contratto, qualora ritenuto valido, va assoggettato alla generale normativa di cui alla l. n. 431/1998. In proposito, riguardo alla validità del contratto di locazione stipulato da un assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica con un terzo, si confrontano due indirizzi giurisprudenziali: secondo uno, il contratto sarebbe affetto da nullità assoluta, rilevabile d'ufficio dal giudice, sicché all'assegnatario sono precluse tutte le azioni riguardanti il rapporto, salva la possibilità di agire per la rimozione dell'occupante abusivo proprio in considerazione di tale nullità (Cass. III, n. 9813/1997; Cass. III, n. 3563/1988; Cass. III, n. 3693/1986; Cass. III, n. 832/1983); secondo l'altro, sul presupposto che le situazioni riguardanti la legittimità del rapporto tra assegnatario ed Ente assegnante non possono avere rilevanza alcuna nei confronti dei terzi, il contratto è considerato valido ed efficace, conservando il primo tutte le azioni proprie del locatore, senza che il conduttore possa eccepire la decadenza dall'assegnazione, quantomeno fino a che questa non sia effettivamente intervenuta ad opera dell'Ente assegnatario (Cass. III, n. 11280/1993; Cass. I, n. 5159/1992; Cass. III, n. 6390/1990; Cass. III, n. 6773/1986). Finalità turistiche La quarta tipologia locatizia esclusa dal perimetro applicativo della nuova disciplina concerne, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lett. c), gli “alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche”. Siamo in presenza di una categoria normativa che costituisce una new entry nel panorama legislativo, anche se la finalità lato sensu abitativa che tali contratti intendono soddisfare poteva ritenersi inclusa tra quelle genericamente denominate “transitorie” dall'art. 26, comma 1, lett. a), della l. n. 392/1978, laddove la transitorietà veniva definita non tanto in ragione della durata temporale del contratto, quanto piuttosto degli specifici bisogni del conduttore – ovviamente diversi da quelli abitativi primari – che l'immobile era destinato a soddisfare al momento della conclusione del contratto (v., tra le altre, Cass. III, n. 6145/1997; Cass. III, n. 2371/1992; Cass. III, n. 4211/1988). Le locazioni in questione, dunque, rientrano nel novero di quelle sottratte, in misura maggiore o minore, dall'àmbito di applicazione della l. n. 431/1998: assieme ad esse – come si è visto – la medesima disposizione richiama, al comma 2, nelle precedenti lettere a) e b), le locazioni di immobili di lusso o di prestigio oppure vincolati ai sensi della l. n. 1989/1939, e le locazioni di alloggi di edilizia residenziale pubblica, nonché, al comma 3, le foresterie degli Enti locali. Trattasi di un àmbito applicativo, sia pure a contrario, di difficile perimetrazione, anche se, con tutta probabilità, il legislatore ha voluto riferirsi a quei contratti stipulati per un periodo di tempo normalmente, ma non necessariamente, limitato, senza alcun collegamento con esigenze abitative primarie, unicamente per ragioni di villeggiatura, vacanza, riposo, relax, ecc. (Scarpa 1999, 13). Al riguardo, si è acutamente osservato (Lazzaro, Di Marzio, 209) che una mera lettura attenta solo a taluni – peraltro esili – riscontri semantici contenuti nel citato art. 1, laddove si riferisce alle diverse ipotesi di esclusione, potrebbe favorire conclusioni inesatte nell'identificazione della nozione di “finalità turistiche” desumibile dalla norma: quest'ultima, infatti, nel menzionare tanto gli immobili di lusso o vincolati ai sensi della l. n. 1089/1939, quanto gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, prende in considerazione caratteristiche “oggettive” degli immobili, tali da consigliarne – per ragioni del tutto diverse le une dalle altre – l'assoggettamento a distinti statuti normativi: in un caso, “esclusivamente” il codice civile, nell'altro caso, la pertinente legislazione speciale. Ne consegue che l'analogo riferimento contenuto nell'art. 1, comma 2, lett. c), agli “alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche”, potrebbe suggerire che le finalità turistiche siano da ricercare – non già dal lato delle esigenze che muovono il conduttore a contrarre, bensì – sotto il profilo della connotazione oggettiva dell'immobile locato: in tal senso, “alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche” sarebbero quelli con un'obiettiva vocazione turistica, come tali stabilmente destinati ad essere concessi in locazione per quel fine (l'ipotesi interpretativa è suggerita da Piombo 1999, 451). Sotto il profilo oggettivo, il termine “alloggio” usato dal legislatore porta, poi, ad escludere che rientrino nelle locazioni turistiche la messa a disposizione di posti letto o di mere camere ammobiliate, mentre appare irrilevante la concreta ubicazione dell'immobile, non potendosi escludere un uso di tal fatta di un immobile anche in un Comune non ad alta vocazione turistica (Scalettaris 2012, 124). È apparso, invece, più corretto sostenere che le “finalità” non siano proprie della res, bensì dell'agire del contraente, in questo caso del conduttore, il quale sia mosso a contrarre dall'intento di realizzare lo scopo pratico contemplato dalla norma, con conseguente soggezione del rapporto così costituito alla disciplina giuridica individuata dalla legge; in tal modo, viene realizzato un congegno – già ampiamente utilizzato nella l. n. 392/1978 – che si compendia nell'emersione dei motivi, altrimenti irrilevanti, quali elementi tali da caratterizzare causalmente la fattispecie, sì da determinare la maggiore o minore latitudine dell'intervento protettivo del legislatore. Nella categoria contrattuale di nuovo conio, si fanno così rientrare quelle locazioni di immobili, di durata normalmente limitata, non destinate a soddisfare esigenze abitative primarie, ma piuttosto stipulate per esclusive ragioni di svago et similia, con l'ulteriore conseguenza che, nel caso di rapporto locativo destinato a soddisfare esigenze miste e non solo turistiche, lo stesso sarà da considerarsi assoggettato alla disciplina “ordinaria” delle locazioni ad uso abitativo o delle locazioni ad uso diverso (a seconda della natura dell'ulteriore destinazione che il contratto è destinato a soddisfare). Le “finalità turistiche” riguardate sotto il profilo delle esigenze abitative del conduttore, d'altronde, appaiono perfettamente aderenti alla ratio dell'esclusione prevista dall'art. 1, comma 2, lett. c), che è da porre in correlazione con il nuovo trattamento delle locazioni transitorie: mentre l'art. 26 della l. n. 392/1978 fissava la linea di demarcazione tra locazioni protette e locazioni disciplinate dal codice civile a seconda della natura primaria o transitoria delle esigenze abitative del conduttore, il sistema introdotto dalla l. n. 431/1998 ha ricondotto le locazioni transitorie entro l'àmbito di una specifica disciplina – quella dell'art. 5 della legge – distinguendo da queste le locazioni destinate al soddisfacimento di “finalità turistiche”, ritenute meno meritevoli di tutela. Secondo parte della dottrina (Nonno, 14), atteso che la nuova legge ha previsto la stipulazione di contratti di locazione volti a soddisfare esigenze transitorie sia del locatore che del conduttore (art. 5), probabilmente la norma de qua mira ad individuare una (peraltro, diffusa) sub-tipologia di contratto transitorio, non meritevole né della particolare tutela predisposta dalla legge per i contratti volti a soddisfare le esigenze specificamente indicate dagli accordi territoriali in attuazione della Convenzione nazionale di cui all'art. 4, né della tutela più generale inerente ai contratti volti a soddisfare esigenze abitative primarie di cui all'art. 2. Stabilito, dunque, che le “finalità turistiche” attengono alle esigenze abitative del conduttore, permangono gli ulteriori dubbi che concernono la nozione di “turismo” ed i possibili equivoci che questa può suscitare. Turismo – è stato sottolineato – non equivale a villeggiatura, dal momento che turista è colui che viaggia per diporto o istruzione, senza scopi utilitari, mentre villeggiante è colui che trascorre un periodo di riposo e svago in un luogo diverso dalla propria abituale dimora (Piombo, op. loc. cit., il quale, tuttavia, condivisibilmente propone un'interpretazione più ampia della locuzione, tale da includere la destinazione ad uso di villeggiatura). Anzi, lo stesso concetto di villeggiatura appare probabilmente troppo angusto, poiché – essendo esso normalmente inteso come riferito alle ferie estive o invernali – non sembra esteso ad ipotesi che la ratio della norma, invece, certamente attrae a sé: si pensi, in primis, al turismo religioso in occasione dell'anno giubilare o di pellegrinaggi presso luoghi di culto; si pensi, poi, al turismo culturale che in Italia ha evidentemente potenzialità enormi; si pensi, inoltre, al turismo legato ad importanti eventi sportivi protratti per più giorni o settimane; e si pensi, infine, alle questioni che possono porsi dall'applicabilità della disciplina in esame ad eventi come congressi, mercati o fiere, riguardo ai quali il crinale che separa l'aspetto turistico da quello professionale/lavorativo è estremamente sottile. Va così ricondotto all'àmbito di applicazione della medesima disciplina anche il fenomeno che potrebbe dirsi del turismo continuativo – non esattamente inquadrabile nel concetto di villeggiatura – sotto specie di locazione pluriennale di una seconda casa destinata al weekend e alle festività. In definitiva, risulta condivisibile una definizione di “turismo”, nel senso accolto dall'art. 1, comma 2, lett. c), come spostamento di una persona dalla propria residenza abituale per motivi di piacere, con l'esclusione solamente di quelle ipotesi in cui la contemporanea presenza di un'esigenza professionale sia tale da connotare sostanzialmente il soggiorno (Tomasso, 118). Appare, quindi, frutto di un palese errore di prospettiva la recente pronuncia di legittimità, secondo cui le locazioni di immobili ad uso abitativo sono sempre soggette alle previsioni di cui alla l. n. 431/1998, fatte salve le eccezioni contemplate dalla medesima normativa, sicché anche il contratto di locazione di una “seconda casa”, che il conduttore intenda destinare allo svago o al tempo libero, è soggetto alla disciplina (4+4) dettata da tale legge (Cass. III, n. 13483/2011); tale pronuncia omette di spiegare in che cosa consisterebbe il turismo e per quale ragione tale non sarebbe il recarsi costantemente, ma saltuariamente, per ragioni di piacere e di svago, in una qualunque località adatta allo scopo, senza contare che, in tal modo, imporrebbe anche al conduttore una durata quadriennale per una “seconda casa” che, per i motivi più vari, può interessargli solo per un anno; quanto, poi, all'assunto secondo cui la soggezione alla disciplina ordinaria della l. n. 431/1998 sarebbe imposta dalla considerazione che anche l'impiego del tempo libero concorre al soddisfacimento di interessi e passioni dell'individuo funzionali al pieno sviluppo della sua personalità, con riferimento all'art. 2 Cost., è agevole replicare che la protezione di quelle esigenze, al di fuori della tutela dell'abitazione primaria, è estranea all'intenzione del legislatore, senza di che la stessa disciplina delle locazioni transitorie – ove si consideri che le particolari esigenze dei conduttori, oltre che del locatore, ben possono essere funzionali allo sviluppo della loro personalità – non si spiegherebbe. Dunque, le locazioni per “finalità turistiche” – come si è visto – non sono soggette agli artt. 2, 3, 4, 4-bis, 7, 8 e 13 della l. n. 431/1998, e non devono conformarsi ai due principali modelli contrattuali (libero o concertato) previsti dalla nuova legge; tuttavia, a differenza delle altre locazioni escluse a mente dell'art. 1, commi 2 e 3, della stessa legge – locazioni di immobili di prestigio regolate “esclusivamente” dal codice civile, locazioni di alloggi di edilizia residenziale pubblica rimessi alla relativa normativa di settore, locazioni di foresterie degli Enti locali disciplinate dal codice civile alle quali non si applica l'art. 56 della l. n. 392/1978 – la locazione “per finalità turistiche” non è espressamente ricondotta ad un qualche statuto normativo. In mancanza di ogni altra indicazione, però, non è sembrato dubbio che la normativa applicabile debba essere desunta dal codice civile: appare pacifico, infatti, che le locazioni per finalità turistiche, sebbene ontologicamente “transitorie”, siano rette esclusivamente dalle regole del codice civile, e ciò nonostante la discutibile letterale applicabilità agli immobili indicati nella lett. c) degli artt. 5 e 6 della nuova legge. Con riguardo all'art. 5, sembrava che il legislatore avesse rimesso alla contrattazione in sede locale, cui anche il d.m. 5 marzo 1999 ha espressamente rinviato, la scelta se inserire o meno siffatta tipologia di locazioni fra quelle aventi natura transitoria, di guisa che, a seconda dei luoghi, i contratti ad uso turistico sarebbero stati assoggettati alla mera disciplina codicistica o a quella derivante dal decreto ministeriale. Devesi, dunque, propendere per la tesi (Nonno, 15), secondo cui, già in via di pura logica, il contratto ad uso turistico risulta non sussumibile, stante la patente incompatibilità fra le disposizioni, nell'art. 5, volto appunto a soddisfare finalità transitorie non a connotato turistico; in tal senso, si pone un'altra dottrina (Cuffaro, Giove, 4), la quale, dal canto suo, condividendo un'opzione interpretativa non restrittiva della contrattazione collettiva, ha reputato che sia sufficiente che le parti in luogo di tali “elementi e condizioni” indichino la comune intenzione di stipulare il contratto per finalità turistiche, per evitare l'applicazione delle nuove regole dettate nella l. n. 431/1998, e ha sottolineato come le fattispecie contrattuali indicate nell'art. 5 e disciplinate ai sensi di tale disposizione non esauriscano la nozione di locazione transitoria in misura tale che la stessa non vada individuata con esclusivo riferimento alle prescrizioni della suddetta disposizione, da intendersi come non tassative. In particolare, il mancato richiamo, tra le norme non applicabili, dell'art. 5 della l. n. 431/1998 – posto in tema di locazioni transitorie – non può indurre a credere (Lazzaro, Di Marzio, 213) che la disciplina da esso dettata debba applicarsi anche alle locazioni turistiche; aldilà del rilievo che, se la legge avesse voluto assoggettare le locazioni turistiche – che sono pur sempre locazioni transitorie, nel senso di non primarie, destinate a soddisfare “particolari esigenze delle parti” – alla disciplina di cui al citato art. 5, avrebbe potuto non prenderle per nulla in considerazione, si rammenta che l'esclusione di quest'ultima disposizione dal novero di quelle applicabili discende recta via dall'inapplicabilità dell'art. 2 e, in particolare, del comma 3, disposizioni che simul stabunt, simul cadent. Quanto all'art. 6 sul rilascio degli immobili, l'applicazione di tale norma alle locazioni turistiche potrebbe comportare una durata post-contratto il più delle volte maggiore di quella pattiziamente stabilita; peraltro, si è orientati (De Stefano 1999, 95) per l'applicabilità della disciplina de qua solo agli immobili adibiti a dimora abituale e rispondenti ad esigenze abitative primarie, con esclusione degli immobili utilizzati per il soddisfacimento di esigenze abitative secondarie del conduttore, come quelli presi in affitto per villeggiatura. All'inverso, suscita perplessità la non applicabilità degli artt. 7 (norma peraltro dichiarata costituzionalmente illegittima dai giudici della Consulta nel 2001) e 13 (norma miranti a sanzionare le ipotesi di elusione e/o evasione fiscale), proprio con riferimento agli immobili di maggior pregio e notoriamente di maggior rendimento da un punto di vista economico. Quanto, poi, alla teorica possibilità di applicare l'art. 56 della l. n. 392/1978, spetterà al giudice, nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, modulare caso per caso il termine in relazione alle concrete esigenze del conduttore soddisfatte dall'immobile locato, anche se è difficile concepire la concessione di un termine semestrale per il rilascio di un appartamento locato per finalità turistiche, che di per sé potrebbe durare molto meno. Le conclusioni così raggiunte, riassumibili nella soggezione delle locazioni turistiche al codice civile, trovano, poi, riscontro nella previsione dell'art. 53 del d.lgs. n. 79/2011 – recante “Codice della normativa statale in tema di ordinamento e mercato del turismo, a norma dell'art. 14 della l. n. 246/2005, nonché attuazione della direttiva 2008/122/CE relativa ai contratti di multiproprietà, contratti relativi ai prodotti per le vacanze di lungo termine, contratti di rivendita e di scambio” – secondo cui: “gli alloggi locati esclusivamente per finalità turistiche, in qualsiasi luogo ubicati, sono regolati dalle disposizioni del codice civile in tema di locazione”. Né la disciplina codicistica va combinata con le norme della l. n. 392/1978 non abrogate dall'art. 14 della l. n. 431/1998; seppure tali disposizioni sono tuttora vigenti, è tuttavia evidente che la loro mancata abrogazione non può valere a renderle applicabili a quelle fattispecie alle quali esse sarebbero state certamente estranee pur nel pieno vigore della legge sull'equo canone; infatti, non può dubitarsi che, nella vigenza della l. n. 392/1978, quelle che oggi sono locazioni per “finalità turistiche” sarebbero ricadute sotto la disciplina delle locazioni transitorie di cui all'art. 26, lett. a), della stessa legge, integrando un'ipotesi paradigmatica di locazione abitativa destinata a soddisfare esigenze non primarie (Lazzaro, Di Marzio, op. loc. cit.). Per quanto attiene alle norme della l. n. 431/1998 applicabili alle locazioni per finalità turistiche, va anche in questo caso sottolineata l'applicabilità del requisito formale di cui all'art. 1, comma 4, non menzionato tra le disposizioni escluse; inoltre, la finalità turistica, per aver rilevanza ai fini della disciplina applicabile, deve essere comunque estrinsecata nel testo contrattuale: in tal senso, depongono l'utilizzo dell'avverbio utilizzato (“esclusivamente”), nonché l'evidenziata obbligatoria adozione della forma scritta. Si è, però, avvertito (Carrato, Scarpa, 343) che la “finalità turistica” deve costituire il motivo esclusivo che abbia condotto il conduttore a stipulare la locazione, non operando l'esclusione di cui all'art. 1, comma 2, lett. c), della l. n. 431/1998 allorché nel programma obbligatorio siano confluite più esigenze di diversa natura; similmente a quanto accade nel c.d. pacchetto turistico – contratti attualmente disciplinato dagli artt. 82 ss. del Codice del consumo – la locazione de qua si connota essenzialmente per il perseguimento della finalità turistica, la quale non può rappresentare un irrilevante motivo del negozio, né sostanziarsi in interessi che rimangono nella sfera volitiva interna del contraente; in altri termini, tale finalità deve costituire la causa concreta della locazione ed essere consacrata in un'apposita clausola contrattuale, non assumendo, invece, un ruolo centrale la neutra delimitazione temporale, né l'ampia formulazione prescelta consente di limitare la figura ai rapporti locativi stipulati da imprese turistiche o attinenti a strutture ricettive. Merita, inoltre, segnalare una possibile interferenza tra le ipotesi di cui alle lett. a) e c) dell'art. 1, comma 2, della l. n. 431/1998, ponendosi il quesito se, nel caso di locazione per finalità turistica di un immobile di lusso, o vincolato ai sensi della l. n. 1089/1939, debba trovare applicazione la disciplina propria di questi ultimi oppure la disciplina delle locazioni turistiche; la prima soluzione appare preferibile, avuto riguardo al rilievo che la ratio della previsione di cui all'art. 1, comma 2, lett. c), della nuova legge ha lo scopo di sottrarre le locazioni turistiche alla disciplina delle locazioni transitorie, sotto la quale esse altrimenti ricadrebbero in mancanza di una specifica disposizione, sicché la previsione non sembra potersi estendere a rapporti locativi di per se stessi sottratti all'ambito di applicazione della l. n. 431/1998. Va sottolineato, poi, che la disciplina delle locazioni per finalità turistiche trova applicazione esclusivamente riguardo a contratti che abbiano natura di locazione tipica, e non quando il godimento dell'immobile sia accompagnato da ulteriori prestazioni convenzionalmente poste a carico del concedente – si pensi al bed & breakfast – sì da configurare ipotesi di locazioni di tipo alberghiero. In quest'ottica, si richiamano anche ai contratti disciplinati dal d.lgs. n. 427/1998, che recepisce la direttiva comunitaria in materia di comproprietà 94/47/CE – concernente la tutela dell'acquirente per alcuni aspetti dei contratti relativi all'acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di immobili (obblighi informativi nelle trattative, prescrizioni formali nella redazione del contratto, diritto di recesso dell'utilizzatore, divieto di acconti, obbligo di fideiussione a garanzia dei lavori di ultimazione dell'immobile, ecc.) – regolamentando quei contratti di almeno tre anni con cui, verso il pagamento di un prezzo globale, si costituisce un diritto di godimento per un periodo di tempo determinato o determinabile dell'anno non inferiore ad una settimana (c.d. multiproprietà locativa, consistente nella concessione in godimento di un'unità immobiliare sita in un più ampio complesso edilizio, prevalentemente con finalità turistiche, anche se limitati ad un turno predeterminato). Per completezza, si ricorda che la registrazione del contratto è obbligatoria se la durata della locazione è superiore a trenta giorni e, in tal caso, la registrazione assorbe l'obbligo di comunicazione all'Autorità di pubblica sicurezza di cui all'art. 12 del d.l. n. 59/1978; da ultimo, per gli affitti brevi, il d.l. n. 50/2017, convertito in l. n. 96/2017, ha previsto particolari adempimenti fiscali (anche a carico degli intermediari), e la possibilità in capo ai locatori di usufruire, a determinate condizioni, della c.d. cedolare secca. Foresterie degli Enti locali Da ultimo, il comma 3 dell'art. 1 in commento si occupa specificamente, sempre al fine di escludere l'applicabilità della l. n. 431/1998, dei “contratti di locazione stipulati dagli Enti locali in qualità di conduttori per soddisfare esigenze abitative di carattere transitorio”, tipologia di contratti locativi che il legislatore prende in considerazione per la prima volta, stante il differente tenore letterale rispetto all'art. 42 della l. n. 392/1978, e che, in una certa misura, presenta, anche se con una locuzione alquanto farraginosa, notevoli analogie con il contratto ad uso foresteria in quanto l'utilizzatore del cespite è soggetto diverso dal conduttore. Quindi, la peculiarità della fattispecie in esame consiste, da un lato, nella specifica qualificazione pubblicistica della parte conduttrice (Ente locale) e, dall'altro, nella specifica destinazione dell'immobile (uso abitativo di carattere transitorio di soggetti terzi). Sotto il profilo soggettivo, l'espressione “Enti locali” comprenderebbe (ad avviso di Piombo 1999, 449) gli Enti pubblici dotati di poteri autonomi, che operano in àmbito territoriale limitato, includendo anche le Camere di commercio, oppure gli Ordini professionali. Secondo altri (Nonno, 17), il legislatore ha considerato solo quegli Enti locali che la legislazione statale configura come emanazione di comunità territoriali, facendo riferimento, in primo luogo, alle Province e ai Comuni, ma anche ai consorzi di Enti territoriali (come le comunità montane), nonché ad Enti di tipo comprensoriale ed a quelli espressivi di comunità submunicipali; tale interpretazione restrittiva è apparsa più coerente con la ratio dell'esclusione, che è quella di consentire a tali Enti locali (soprattutto ai Comuni) di realizzare un agile strumento privatistico, da modulare caso per caso senza limiti minimi temporali, al fine di provvedere concretamente alle esigenze abitative di quei soggetti, economicamente deboli, temporaneamente privi di abitazione. Sotto il profilo della particolare destinazione, non appare agevole individuare analiticamente quali siano le esigenze abitative di carattere transitorio che i predetti contratti debbano soddisfare, ma sicuramente vi rientra l'ipotesi in cui l'Ente preferisca far fronte a situazioni di emergenza sociale (o comunque rilevante indigenza o disagio) oppure connesse a calamità naturali, ricorrendo allo strumento contrattuale e non a quello autoritativo (Bucci, 26, il quale, comunque, evidenzia un altro nuovo approccio della legislazione speciale nei confronti della locazione ad uso di abitazione, scindendo l'oggettiva destinazione abitativa dalla qualifica formale di conduttore, nel senso di consentire la stipulazione del contratto anche da parte di soggetto diverso dall'effettivo utilizzatore). Trattandosi di locazioni sottratte alla disciplina della l. n. 431/1998 al fine soddisfare esigenze abitative, naturalmente di terzi, di natura transitoria, dovrebbero rientrare, pertanto, quei contratti che gli Enti locali possono stipulare per fronteggiare, ad esempio, le esigenze abitative degli sfrattati, o quelle di soggetti colpiti da terremoti, frane, inondazioni, ma non possono escludersi le ipotesi di necessità abitative temporanee dei dipendenti o di altri soggetti che l'Ente locale, nelle sue relazioni esterne, ritiene opportuno ospitare (potrebbero rientrare anche le locazioni relative ai contratti stipulati dai profughi ai sensi dell'art. 4 della l. n. 344/1991, non espressamente abrogata): in tutti questi casi, comunque, l'Ente assume la veste di conduttore, mentre il terzo fruitore dell'alloggio rimane estraneo al contratto. Nel previgente regime, si era affermato (Cass. III, n. 2274/1988), che qualsiasi contratto di locazione di immobile urbano stipulato, in qualità di conduttore, dallo Stato o da altro Ente pubblico territoriale era assoggettato alla disciplina della l. n. 392/1978 propria delle locazioni di immobili adibiti ad uso diverso dall'abitazione, nella parte richiamata dall'art. 42, in considerazione della natura del soggetto conduttore e senza che rilevasse in alcun modo l'aspetto oggettivo della destinazione dell'immobile locato (nella specie, si era confermata la pronuncia che aveva affermato l'applicabilità della normativa sul canone prevista per i rapporti di cui agli artt. 42 e 70 della l. n. 392/1978, anziché di quella dettata per le locazioni abitative, nel caso di edificio preso in locazione dal Comune per alloggiarvi nuclei familiari privi di abitazione o in condizioni abitative disagiate); in altri termini, si era escluso che un contratto di locazione concluso da un soggetto pubblico per dare alloggio agli sfrattati potesse sottoporsi alla disciplina del capo I del titolo I della l. n. 392/1978, sul rilievo fondante dell'impossibilità di ascrivere alla parte conduttrice pubblica quelle “primarie” esigenze abitative che giustificavano il regime dell'equo canone. La nuova tipologia contrattuale costituisce, quindi, un'eccezione rispetto alla regola generale dell'art. 42 della l. n. 392/1978 (Cuffaro, Giove, 7), nel senso che gli Enti locali, allorquando si adoperano, in attuazione delle proprie finalità istituzionali, per il soddisfacimento di esigenze abitative di terzi senza ricorrere ai provvedimenti autoritativi d'urgenza, pure riconosciuti loro dalla legge (si pensi alla requisizione), non possono utilizzare lo strumento contrattuale di cui al citato art. 42, ma devono provvedere a norma dell'art. 1, comma 3, della l. n. 431/1998; peraltro, sebbene l'ellittica formula legislativa fa pensare diversamente, le esigenze abitative transitorie di cui si parla non possono essere quelle dell'Ente locale che, per sua natura, non può avere esigenze abitative in senso stretto da soddisfare, ma quelle dei terzi, persone fisiche, che sono i reali beneficiari del contratto. Mentre nel regime dell'equo canone, la disciplina della locazione era permeata dalle esigenze personali del conduttore, sicché non veniva ascritta alla tipologia della locazione abitativa quella stipulata da una persona giuridica anche se finalizzata a fornire un alloggio ai dipendenti di quest'ultima, nel nuovo sistema normativo, invece, la locazione appare caratterizzata dal profilo oggettivo della destinazione ad abitazione, a prescindere dall'imputazione dell'uso alla persona stessa del conduttore o a terzi (Petrolati 1999, 12, secondo il quale, però, in questa ipotesi non si realizza un contratto a favori di terzi, in quanto l'utilizzatore finale rimane del tutto estraneo al rapporto negoziale principale, nel quale assume la veste di parte conduttrice solo l'Ente locale). In questa prospettiva, non è sfuggito ad alcuni (Nonno, 19) il sostanziale capovolgimento dell'ottica di protezione effettuato dal legislatore: la tutela che la l. n. 431/1998 appresta al conduttore persona fisica, inteso come soggetto debole del rapporto, non ha, in questa particolare ipotesi, ragion d'essere e diventa, addirittura, controproducente per un conduttore quale l'Ente locale – sicuramente soggetto forte del rapporto, in quanto in grado di imporre le condizioni – che trova nella rigidità della disciplina dettata dalla nuova legge un ostacolo al perseguimento dei propri fini istituzionali. Nello specifico, è stabilita la sottoposizione dei contratti de quibus, in via generale, alle disposizioni codicistiche di cui agli artt. 1571 ss. c.c. e, al contempo, la non applicabilità degli artt. 2, 3, 4, 4-bis, 7 e 13 della l. n. 431/1998, risultando, a contrario, applicabile l'art. 8 sulle agevolazioni fiscali in favore dei locatori, norma, quest'ultima, invece esclusa nelle quattro precedenti tipologie locatizie individuate nell'art. 1 commento (infatti, l'art. 8 non viene richiamato nell'incipit del comma 3 dell'art. 1 tra le disposizioni non applicabili, mentre tale speciale categoria locatizia è richiamata dall'esplicita affermazione formulata nel comma 3 del medesimo art. 8). Inoltre, appare pacifica l'applicabilità dell'art. 1, comma 4, atteso che, per i contratti stipulati dagli Enti pubblici, è già vigente il principio generale della necessità della forma scritta ad substantiam; dubbi di compatibilità si presentano, invece, per l'operatività dell'art. 6 sul rilascio degli immobili, in quanto norma congegnata per i conduttori persone fisiche e la cui ratio difficilmente si giustifica in presenza di un Ente locale, e parimenti perplessità si muovono in ordine all'obbligo del fondo previdenziale di cui all'art. 9, atteso che la scelta della disciplina applicabile espletata dall'art. 1, comma 3, è tesa a favorire le finalità istituzionali dell'Ente locale, pregiudicate dall'introduzione di elementi di rigidità. Così come per i contratti disciplinati dal comma 2, anche per quelli contemplati dal comma 3 non sussistono vincoli di durata e di rinnovo, e l'ammontare del canone locativo può essere liberamente determinato dalle parti – non si applicavano le condizioni per la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio stabilite dall'art. 7 – né vale la norma imperativa che sancisce la nullità di pattuizioni di canoni per un importo superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato. Solo per i contratti di cui al comma 3, il legislatore prevede espressamente la non applicabilità dell'art. 56 della l. n. 392/1978 – norma altrimenti considerata di applicazione generale, che prescrive in ogni provvedimento giudiziale di rilascio la fissazione di un termine per l'esecuzione, entro il limite massimo di sei o, in casi eccezionali, di dodici mesi – conseguendone che la messa in esecuzione del provvedimento di rilascio non può essere posticipata rispetto alla data di emissione dello stesso (o di scadenza del rapporto, se futura), né dal giudice della cognizione, né tantomeno da quello dell'esecuzione. Ad avviso di alcuni (Cuffaro, Giove, 7), tale espressa indicazione dell'inapplicabilità dell'art. 56 della l. n. 392/1978 costituisce la conferma che i rapporti in esame sarebbero soggetti unicamente alla disciplina del codice civile, e che l'inciso contenuto nel comma 3 dell'art. 1 della l. n. 431/1998 dovrebbe leggersi, per esigenze di interpretazione sistematica, anche riferito anche alle altre ipotesi di cui al comma 2. Secondo altri (Nonno, 20), invece, il dato letterale non sembra consentire una simile interpretazione, essendo sufficientemente chiaro che il secondo periodo del comma 3 si riferisce ai soli contratti ivi disciplinati; inoltre, non è detto che l'applicazione dell'art. 56 sia incompatibile con i contratti indicati nel comma 2: infatti, se la ratio della norma è quella di consentire al conduttore di reperire altro alloggio una volta scaduto il contratto di locazione, la stessa può dirsi perfettamente compatibile con le ipotesi di cui sopra, mentre la stessa esigenza di reperire altro alloggio non può essere riconosciuta ad un conduttore che non è persona fisica e non “abita” in proprio, ma per soddisfare esigenze abitative transitorie di terzi. Forma scrittaLocazioni ultranovennali La locazione è, in generale, un contratto non formale nel quale la volontà dei contraenti può essere manifestata con qualunque mezzo espressivo e in qualunque forma idonea: invero, il codice civile prevede la forma scritta ad substantiam per i soli contratti di locazione immobiliare ultranovennali. Per questi ultimi, l'art. 1350, n. 8), c.c. prevede indistintamente la forma scritta ad substantiam (non solo ad probationem), sicché essa configura un elemento costitutivo del contratto, nel senso che il documento deve essere l'estrinsecazione formale e diretta della volontà delle parti di concludere un determinato contratto; tale forma viene imposta in ragione dell'importanza economica dell'atto, che l'art. 1572 c.c. qualifica come atto di amministrazione straordinaria, collegata anche per questo alla formalità di trascrizione ex art. 2643, n. 8), c.c. Tutte le conseguenti modificazioni contrattuali sono soggette anch'esse all'impiego della forma scritta, così anche con riferimento al consenso del contraente ceduto richiesto dall'art. 1406 c.c. ai fini della cessione del contratto; parimenti, anche il contratto preliminare di locazione (art. 1351 c.c.) deve essere redatto in forma scritta, così come la procura a stipulare un contratto di locazione (art. 1392 c.c.), la ratifica di un contratto di locazione stipulato da un procuratore privo di poteri di rappresentanza (art. 1399, comma 1, c.c.), il contratto di locazione per persona da nominare (art. 1403, comma 1, c.c.) e, infine, il mandato senza rappresentanza a concludere un contratto di locazione. In buona sostanza, soggiacciono alla prescrizione formale tutti gli eventuali atti preparatori o strumentali (come ad esempio, la proposta e l'accettazione), nonché tutti quelli diretti a modificare, risolvere o estinguere le locazioni di cui sopra, atteso che essi realizzano la stessa vicenda del contratto risolto, seppure in senso inverso (in ordine, poi, al compromesso o alla clausola compromissoria, la necessità della forma scritta, a pena di nullità, risulta autonomamente stabilita dagli artt. 807 e 808 c.p.c.). Si era, comunque, dell'opinione che dovessero risultare per iscritto i soli elementi essenziali, fra i quali assumeva particolare rilievo l'identificazione dell'immobile, che poteva avvenire anche per relationem (ad esempio, mediante il concorde richiamo delle parti ad una determinata planimetria allegata alla scrittura); risultavano, invece, sottratte al vincolo formale, in quanto accessorie, le determinazioni delle parti attinenti alle modalità di esecuzione delle attribuzioni contrattuali (Cass. III, n. 3839/1982). La mancanza del requisito della forma scritta importa la nullità del contratto ai sensi del combinato disposto degli artt. 1418, 1325, n. 4), e 1350, n. 8), c.c.; la nullità, qualificabile come parziale, colpisce la durata eccedente il novennio, sicché il contratto sopravviverà nei limiti temporali di legge, salvo che il contraente interessato, dimostri che, ridotto nei limiti del novennio, egli non avrebbe concluso il negozio ex art. 1419 c.c. Incidentalmente, va rammentato che, riguardo alle locazioni ad uso diverso che comportano, in sede di rinnovo, una durata complessiva di dodici o diciotto anni, la norma di cui all'art. 1350, n. 8), c.c. è inapplicabile: infatti, il successivo rinnovo del contratto dagli originali sei ai dodici o diciotto anni è solo eventuale e legato alla circostanza che il locatore non disdetti il contratto alla prima scadenza; la forma scritta ad substantiam è applicabile solo ai contratti che sono ab origine previsti per più di nove anni e non per quelli originariamente stabiliti con durata infranovennale, tra i quali vanno ricompresi i contratti di locazione ad uso diverso da abitazione che subiscono, per effetto degli artt. 28 e 29 della l. n. 392/1978, l'obbligatoria rinnovazione del contratto alla prima scadenza, in mancanza dell'esercizio in concreto di tale facoltà, atteso che la limitazione di tali motivi non impedisce di considerare eventuale la rinnovazione ed esclude l'unicità della durata ultranovennale, che è il presupposto per la forma scritta a pena di nullità (Cass. III, n. 1633/1998; Cass. III, n. 6130/1993). Comunque, anche con riferimento alla locazione, come per ogni altro contratto, le parti possono preventivamente pattuire l'adozione di una determinata forma per la futura conclusione del negozio e in tal caso, ai sensi dell'art. 1352 c.c., si presume che la forma sia stata voluta per la validità dell'atto; il contratto da concludere deve essere un contratto a forma libera, altrimenti l'obbligo della forma vincolata discenderebbe comunque dalla legge, come nel caso del patto di usare per iscritto una futura locazione ultranovennale, ma deve ammettersi che le parti possono in tal caso pattuire l'adozione di una forma più rigorosa (Nardone, 2017). La pattuizione di una forma convenzionale può riguardare non soltanto la conclusione del contratto, ma anche dichiarazioni unilaterali in corso di rapporto, come la disdetta o il consenso relativo a possibili vicende future di un rapporto negoziale già instaurato (come il consenso al mutamento di destinazione nel bene locato o all'esecuzione di opere sull'immobile da parte del conduttore). Una volta pattuita la forma scritta per via convenzionale ex art. 1352 c.c., anche lo scioglimento per mutuo consenso del vincolo contrattuale deve avvenire nella medesima forma (Cass. II, n. 8234/2009; Cass. III, n. 25126/2006), sicché eventuali successive pattuizioni verbali o comportamenti concludenti non possono assumere il rilievo di revoca del precedente accordo sulla forma (Cass. III, n. 4861/2000). Ratio della norma L'ultimo comma dell'art. 1 della l. n. 431/1998 ha introdotto una rilevante novità con la prescrizione della forma scritta (atto pubblico o scrittura privata) ad substantiam, diventando così la regola per le locazioni ad uso abitativo quella che era un'eccezionale previsione riguardante solo i contratti di locazione di immobile di durata ultranovennale (art. 1350, n. 8, c.c.). In effetti, la l. n. 392/1978 non aveva introdotto alcuna novità in tema di forma del contratto di locazione, sicché è solo con la novella del 1998 che la locazione, unicamente quella abitativa, in tutti i suoi possibili sottotipi, diviene contratto formale indipendentemente dalla durata e in ragione della sola destinazione d'uso dell'immobile (nel senso che anche il recesso del conduttore dal contratto di locazione ad uso abitativo deve essere comunicato per iscritto, essendo tale tipo di contratto soggetto alla forma scritta ad substantiam, ai sensi dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, v., da ultimo, Cass. III, n. 18971/2022). L'essenziale ragione ispiratrice dell'art. 1350, n. 8), c.c. doveva rinvenirsi nell'importanza della locazione ultranovennale, che assumeva il rilievo della straordinaria amministrazione ex art. 1572 c.c., ed era per questo collegata alla formalità della trascrizione, ex art. 2643, n. 8), c.c.; la stipulazione di una locazione abitativa, invece, non è un atto di particolare rilievo economico, potenzialmente pregiudizievole per il patrimonio dei disponenti, né v'è un'esigenza di conoscibilità della pattuizione da parte della generalità dei terzi; semmai, è la locazione non abitativa, destinata tendenzialmente a durare almeno due sessenni, se non due novenni, ad impegnare maggiormente – pur rimanendo di regola confinata nell'amministrazione ordinaria – il patrimonio dei contraenti. Ogni interpretazione volta a privilegiare l'omogeneità della ratio posta a sostegno di tale previsione formale e di quella prevista dalla disciplina codicistica in tema di locazione, dovrebbe comunque essere disattesa poiché condurrebbe ad un grave sospetto di incostituzionalità, tenuto conto della plateale assenza di una giustificazione razionale alla diversità di trattamento tra locazioni abitative e non abitative (Lazzaro, Di Marzio, 65). Il punto fermo da cui occorre partire è che la ratio della norma – costituente un vulnus al principio generale della libertà di forma – posta a fondamento dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 non è la medesima che sostiene l'art. 1350, n. 8), c.c.: in quest'ottica, la dottrina ha individuato due finalità della previsione. Sotto un primo aspetto, il requisito della forma scritta per la validità del contratto è stato inteso come espressione di una regola di trasparenza nei rapporti tra i contraenti, che va sempre più impregnando l'ordinamento quale strumento di protezione della c.d. parte debole. In tal senso, si è detto che l'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 “si inserisce in una linea di tendenza della legislazione speciale la quale prevede, nei contratti caratterizzati dalla contrapposizione di classi di soggetti di forza diversa, l'uso della forma scritta in una specifica funzione di soddisfacimento delle esigenze informative del contraente debole e di semplificazione della prova dell'esistenza del rapporto” (Nuzzo, 153). In altri termini, si registra, alla base della disposizione in esame, la tutela dell'interesse “ad una determinazione informata e consapevole del regolamento contrattuale” (Breccia, 35); il contraente debole, in questa prospettiva, deve avere scienza dettagliata del contenuto del contratto che è in procinto di concludere, in modo da essere in grado di esprimere un “consenso informato”, in posizione paritaria con il locatore. Più in generale, si consideri che il contratto di locazione richiede una sempre maggiore disciplina di dettaglio – si pensi a spese di registrazione, oneri accessori, obblighi di manutenzione, partecipazione del conduttore all'assemblea dei condomini, deposito cauzionale ecc. – la quale va tradotta in forma scritta, in funzione di trasparenza, proprio nel momento in cui prende il sopravvento una tendenziale deregulation, che assume le forme della maggior derogabilità prodotta per effetto dell'abrogazione dell'art. 79 della legge sull'equo canone; disciplina di dettaglio il cui progressivo incremento appare del resto manifesto se si presta attenzione all'estrema specificità della formulazione dei contratti a canone “concertato” di cui all'art. 2, comma 3, della l. n. 431/1998. Si è, altresì, evidenziato (Carrato, Scarpa, 348) che tale formalismo tende a favorire l'emersione del rapporto economico sottostante a ciascun documento negoziale, e perciò favorisce il mutamento genetico della forma stessa del contratto, che non è più soltanto indice di serietà dell'impegno obbligatorio, o mezzo di certezza ai fini pubblicitari, ma strumento che consente di rilevare lo squilibrio esistente tra i contraenti, tutelando quello più debole (così si sollecita la riflessione e la ponderatezza dell'aderente, e si assicura chiarezza, comprensibilità e trasparenza al contraente non professionale). Secondo un diverso indirizzo, l'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 – più che espressione coerente, sebbene non del tutto sviluppata, di una regola di trasparenza di ampio respiro – perseguirebbe il diverso scopo, ancorché estraneo alla disciplina del rapporto obbligatorio, di promuovere l'osservanza degli adempimenti fiscali derivanti dalla stipulazione del contratto di locazione (Cuffaro 2000, 193); viene così evidenziato l'interesse erariale dello Stato impegnato a disincentivare le locazioni c.d. in nero e, per converso, pregiudicato dalla conclusione di contratti verbali non registrabili. In quest'ultima prospettiva, la nuova disposizione non mira tanto a sensibilizzare le parti sulla peculiare importanza del contratto tra loro concluso, quanto piuttosto a contrastare, attraverso la previsione di contrapposti disincentivi, il diffuso fenomeno delle locazioni c.d. in nero (in ottica premiale, vanno viste le agevolazioni fiscali concesse al locatore ai sensi dell'art. 8 della l. n. 431/1998); tale finalità, emergente anche da altre disposizioni di tale legge, è stata, però, perseguita con una scelta di tecnica legislativa sovrabbondante rispetto allo scopo (De Palo, 23), in quanto astrattamente inidonea a garantirne il contemperamento con l'altra indubbia esigenza di fondo sottesa alla disciplina legale delle locazioni ad uso abitativo, ossia quella delle tutela del conduttore. Operatività del requisito Sebbene la legge si esprima in termini di stipulazione di “validi contratti di locazione”, tale riferimento non deve ritenersi generale, ma va riferito alle sole locazioni abitative in virtù della norma definitoria dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998: ne deriva che, per le locazioni ad uso non abitativo, continua a valere il principio di libertà delle forme, salvo che siano di durata ultranovennale ex art. 1350, n. 8), c.c. (ad ogni contratto di locazione si riferisce, invece, l'art. 1, comma 346, della l. n. 311/2004, c.d. legge finanziaria per il 2005, che dispone la nullità del contratto non registrato, tematica affrontata nell'art. 13, al cui commento si rinvia). Invero, si consideri che la l. n. 431/1998 esordisce con il dare la definizione dei “contratti di locazione” di cui essa si occupa, individuati nei soli “contratti di locazione di immobili adibiti ad uso abitativo” (art. 1): a quei contratti e ad essi soltanto, dunque, si riferisce la stessa legge nel porre il requisito della forma scritta. Viene così in evidenza una diversità di trattamento tra i contratti di locazione di immobili urbani con destinazione abitativa e non abitativa, che ha indotto in taluno il sospetto dell'illegittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza e della ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. (Gabrielli, Padovini, 126; anche Bucci, 17, sottolinea l'inopportunità della sopraggiunta differenziazione del regime formale, considerando anche l'altrettanta rilevanza sociale e le maggiori implicazioni economiche sottese alle locazioni commerciali). L'accusa di incostituzionalità muove dal presupposto che il formalismo trovi fondamento, come di consueto, nell'importanza dell'atto, dal che viene coerentemente tratta la conseguenza che la previsione di forma scritta introdotta per le locazioni abitative a maggior ragione dovrebbe trovare applicazione nel campo delle locazioni non abitative, le quali hanno sovente un'importanza economica maggiore, anche perché destinate, tendenzialmente, a durare almeno due sessenni, impegnando maggiormente il patrimonio dei contraenti; ed anche chi pone il requisito formale in collegamento con le esigenze di prelievo fiscale sottese alla disciplina delle locazioni abitative ritiene che “non è francamente comprensibile, sul piano della razionalità complessiva del sistema, la ragione di una prescrizione non estesa invece alle locazioni per uso diverso” (Cuffaro 2000, 193). La norma non trova applicazione, invece, per i contratti stipulati prima del 30 dicembre 1998 (data di entrata in vigore della novella) e, precisamente, rispetto alle locazioni verbali anteriori alla l. n. 431/1998 e successivamente rinnovate (v., per tutte, Cass. III, n. 22828/2022, ad avviso della quale, in tema di contratti di locazione ad uso abitativo, la prescrizione di requisiti di validità ai sensi degli artt. 1,2 e 14 della l. n. 431/1998, ossia la forma scritta ad substantiam-come, peraltro, anche dell'art. 1, comma 346, della l. n. 311 del 2004 in forza del quale i negozi sono nulli se, ricorrendone i presupposti, non sono registrati - si applica solo ai contratti stipulati dopo l'entrata in vigore delle citate norme, giusta il principio tempus regit actum, non derogato da alcune speciale disposizione transitoria). L'imposizione della forma scritta prevista dall'art. 1, comma 4, è espressamente richiesta solo per la validità dei contratti stipulati successivamente all'entrata in vigore della novella e non di quelli esistenti a tali data; infatti, mentre l'art. 1 estende “la portata della legge a tutti i contratti stipulati o rinnovati dopo l'entrata in vigore della stessa”, il comma 4 limita la necessità della forma scritta solo alla “stipula” di contratti, non facendo alcun riferimento alla risoluzione di quelli già esistenti (ovviamente, nulla impediva alle parti di un preesistente rapporto locativo ad uso di abitazione, fondato su patto orale, di addivenire alla redazione di una scrittura avente efficacia ricognitiva, e quindi non novativa, del vecchio accordo, riproducendo nei suoi elementi costitutivi, come durata, canone, ecc., lo stesso contenuto del negozio riconosciuto). Trattasi di un differente trattamento che, per la giurisprudenza di merito, trovava una sua ragione d'essere nel fatto che, “con la rinnovazione, restano ferme le vecchie pattuizioni contrattuali già approvate e praticate dalle parti, e che, quindi, per tali contratti non appare necessaria la forma scritta” (App. Genova 6 marzo 2002; Trib. Palermo 20 febbraio 2001). Nondimeno, si è condivisibilmente affermato che, tra la norma che impone la forma scritta e quella che prevede il transito nel nuovo regime di tutti i vecchi contratti, ivi compresi quelli conclusi verbalmente, non vi è incompatibilità, dal momento che la forma scritta è richiesta per la validità dei futuri contratti, dal che si desume che i precedenti conservano validità (Izzo 1999, 43; Mirenda 1999, 382). Sempre in ordine all'àmbito applicativo della disposizione in esame, va segnalato che, secondo parte della dottrina (De Palo, 24), aldilà dei contratti stipulati prima del 30 dicembre 1998, essa non trova applicazione anche nell'ipotesi in cui, stipulato un contratto orale ad uso diverso, il conduttore adibisca poi l'immobile ad abitazione, essendo la stessa sussumibile nell'art. 80 della l. n. 392/1978, norma, secondo tale lettura, non abrogata per incompatibilità e dunque pienamente applicabile anche in omaggio al principio di specialità; secondo altra tesi, il problema inerente il coordinamento fra il disposto di cui all'art. 80, comma 2, della l. n. 392/1978 e quello di cui al comma in esame va ricostruito nel senso che il regime giuridico applicabile rimane quello corrispondente all'uso diverso in origine pattuito come prevalente o esclusivo, con irrilevanza dell'uso abitativo effettivo. La forma scritta sarà, inoltre, necessaria qualora con il rinnovo si introducessero nuove condizioni contrattuali vertendosi – non in ipotesi di semplice rinnovazione di quanto già pattuito, bensì – di una nuova regolamentazione del rapporto; tale opzione interpretativa (secondo Lazzaro, Di Marzio, 64) è avallata anche dall'art. 13 che, sanzionando in via generale con la nullità ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato, deve trovare applicazione sia nell'ipotesi di stipula che in quella di rinnovo espresso; ne segue che la stipula del contratto di locazione a mezzo di rappresentante diretto richiede, alla luce del disposto di cui all'art. 1392 c.c., il preventivo rilascio di una procura in forma scritta, per cui, in mancanza della stessa, si versa in un'ipotesi di contratto concluso da falsus procurator o, se ne sussistono gli estremi, in una negotiorum gestio; è pleonastico sottolineare che anche l'eventuale successiva ratifica del negozio posto in essere dal rappresentante senza poteri va effettuata per iscritto. Stante la rilevata portata generale della norma con riferimento alle locazioni abitative, dovrebbero essere comprese quelle speciali contemplate dall'art. 1, comma 2, lett. a), b), c) e quelle transitorie disciplinate dall'art. 5, anche se sono sorti dubbi sull'applicabilità della prescrizione di forma agli immobili di prestigio, a causa della formulazione ridondante, secondo la quale detti immobili sono sottoposti “esclusivamente” alla disciplina di cui agli artt. 1571 ss. c.c. (sempre che non siano stipulati quali contratti a canone c.d. concertato, ossia con modalità di cui all'art. 2, comma 3, della stessa legge). Tuttavia, l'art. 1, comma 2, della l. n. 431/1998 esordisce con l'individuare negli artt. 2, 3, 4, 4-bis, 7, 8 e 13 le proprie disposizioni non applicabili – tra l'altro – alle locazioni di immobili di prestigio, dal che si deduce l'applicabilità ad essi delle rimanenti norme della legge, quali appunto quella sulla forma scritta contemplata nell'art. 1, comma 4; d'altronde, militano nel senso dell'applicabilità del requisito formale alle locazioni di immobili di prestigio sia la finalità di “trasparenza” perseguita dalla norma, sia lo scopo di promuovere l'osservanza degli adempimenti tributari derivanti dalla stipulazione dei contratti di locazione, sicché sarebbe paradossale che, a quest'ultimo scopo, fossero posti in condizione di facilmente sfuggire al fisco proprio quei locatori titolari di immobili di particolare pregio e maggiormente liberi di lucrare da essi in assoluta libertà. Perciò, sembra corretto ritenere che la soggezione delle locazioni abitative di immobili di prestigio “esclusivamente alla disciplina di cui agli artt. 1571 e seguenti del codice civile”, debba essere intesa nel senso che non si applicano alle locazioni de quibus le sole disposizioni della legge dell'equo canone sopravvissute alle abrogazioni di cui all'art. 14 della l. n. 431/1998 (Gabrielli, Padovini, 34). Tali rilievi valgono, forse a fortiori, a fugare eventuali perplessità per quanto concerne le locazioni turistiche, contemplate dall'art. 1, comma 2, lett. c), e ad uguale conclusione positiva, circa l'applicazione della prescrizione formale, deve, poi, giungersi riguardo ai contratti di locazione di natura transitoria e per esigenze abitative di studenti universitari, previsti dall'art. 5 (De Palo, 25). Un discorso a parte merita il principio della libertà della forma in materia locatizia con particolare riferimento ai contratti di locazione stipulati dalla Pubblica Amministrazione, tanto in veste di locatore quanto il conduttore, per i quali è richiesta la forma scritta ad substantiam anche quando la P.A. agisce iure privatorum, laddove la disciplina generale della forma dei contratti pubblici è contenuta nel r.d. n. 2440/1923 sull'amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato (segnatamente, negli artt. 16, 17 e 18). È principio consolidato, infatti, che la volontà di obbligarsi della Pubblica Amministrazione non può desumersi per implicito da atti o fatti, dovendo essere manifestata nelle forme prescritte dalla legge, tra cui l'atto scritto, rispondendo al requisito all'esigenza di identificare con precisione il contenuto negoziale e consentire i controlli previsti dalla legge; d'altronde, tale finalità resterebbe frustrata ove si ammettessero la validità di vincoli contrattuali implicitamente derivanti da atti non diretti a costituirli e non preceduti o seguiti, pertanto, dall'iter procedimentale previsto normativamente. Né la forma è ritenuta surrogabile sulla base di comportamenti concludenti (Cass. III, n. 9165/2002; Cass. I, n. 9246/2000; Cass. III, n. 7977/1994; Cass. S.U., n. 12769/1991). Tuttavia, non si richiede che la stipulazione si perfezioni uno actu e il requisito di forma si ritiene osservato in caso di c.d. elaborazione comune del testo contrattuale, e ciò mediante la sottoscrizione di un unico documento contrattuale il cui contributo sia stato concordato dalle parti, anche laddove la sottoscrizione di tale unico documento non sia contemporanea ma avvenga in tempi e luoghi diversi. Sulla base di tali principi, la Suprema Corte, anche di recente (Cass. VI, n. 12253/2016) ha ribadito la nullità del contratto di locazione stipulato da una P.A. in forma verbale, in violazione – a prescindere dalla natura della locazione – degli artt. 16 e 17 del r.d. n. 2440/1923 e la rilevabilità d'ufficio ove sia stata proposta domanda di risoluzione dello stesso. Dalla necessità della forma scritta ad substantiam per i contratti stipulati dalla P.A., si desume che non è configurabile l'istituto della rinnovazione tacita cui all'art. 1597 c.c. (al cui commento si rinvia); tale principio è stato di recente ribadito dal massimo consesso decidente (Cass. III, n. 11231/2017), che ha escluso per i contratti di locazione stipulati dalla P.A. la possibilità di un comportamento concludente volto a “superare la disdetta”, tanto nel caso in cui si intenda prospettare un rinnovo tacito del contratto di locazione, quanto nel caso in cui si ipotizzi una rinuncia ad avvalersi degli effetti prodotti dalla disdetta. Tale principio non trova, tuttavia, applicazione nel diverso caso di continuazione dell'originario rapporto in forza di clausola apposta nel contratto a suo tempo concluso, che preveda la prosecuzione anche se impropriamente definita rinnovazione dello stesso in caso di mancata disdetta entro un certo termine (Cass. III, n.19410/2016). Natura del vizio Le rationes dell'imposizione della forma scritta vanno, dunque, ricondotte al duplice intento perseguito dal legislatore: da un lato, quello di responsabilizzare il consenso e dare certezza al contenuto dell'accordo e, dall'altro, di favorire la registrazione dei contratti di locazione e, quindi, di disincentivare il fenomeno delle locazioni c.d. in nero. Secondo l'opinione maggioritaria, per un verso, trattasi di disposizione volta a prescrivere l'adozione della forma scritta ad substantiam, e cioè a pena di nullità del contratto ai sensi dell'art. 1350, comma 1, c.c., in quanto risulta essere stata espressamente richiesta “per la validità” del contratto stesso; inoltre, il documento scritto rientra tra i “requisiti del contratto” ai sensi dell'art. 1325, n. 4), c.c.; infine, siamo in presenza di una nullità assoluta, eccepibile, quindi, da entrambe le parti e rilevabile ex officio dal giudice ex art. 1421 c.c. (per tutti, Scarpa 1999, 16; De Palo, 26; Piombo 1999, 138; Scripelliti 2010, 630; Cuffaro, Giove, 8). Ad avviso di altri (Scalettaris 1999, 17), analogamente a quella ex art. 1352 c.c., la nullità de qua sarebbe conseguente ad un difetto di forma rilevabile solo dalle parti contraenti. Seguendo un'altra impostazione (Nuzzo, 154), l'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, invece, “si inserisce in una linea di tendenza della legislazione speciale la quale prevede, nei contratti caratterizzati dalla contrapposizione di classi di soggetti di forza diversa, l'uso della forma scritta in una specifica funzione di soddisfacimento delle esigenze informative del contraente debole e di semplificazione della prova dell'esistenza del rapporto”. Si tratterebbe, quindi, di una nullità di protezione, in analogia con quanto previsto dalla recente legislazione a tutela del consumatore, utente o risparmiatore, tale da poter essere fatta valere soltanto dal contraente protetto, nel caso di specie rappresentato dal conduttore (Lazzaro, Di Marzio, 70); se è vero che il requisito di forma è posto a tutela del conduttore, inteso come contraente debole, la configurazione del vizio derivante dalla stipulazione verbale o per fatti concludenti quale nullità assoluta finirebbe per assumere caratteristiche del tutto sfavorevoli al soggetto che si intende proteggere, privandolo di un titolo giustificativo del godimento del bene: insomma, sarebbe un curioso esempio di protezione del contraente debole se quest'ultimo, in ragione della nullità della pattuizione per difetto di forma, e della conseguente applicazione del principio quod nullum est, con quel che segue, si trovasse esposto all'azione di rilascio intrapresa dal locatore. Pertanto, il contratto stipulato verbalmente, nella linea della “protezione”, appare piuttosto collocarsi su un crinale, secondo che il conduttore ritenga o meno confacente al suo interesse non denunciare la nullità, nel qual caso la locazione vivrà nonostante la carenza di forma, non potendo nessun altro all'infuori del conduttore farla valere; in conclusione, il conduttore è il dominus esclusivo della situazione, giacché l'invalidità comminata dall'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 è da intendere quale nullità di protezione, tale da poter essere fatta valere soltanto dal contraente protetto (per una sostanziale condivisione delle soluzioni propense al carattere meramente relativo della nullità de qua, v. anche Di Marzio 2014, 37). Appare, però, minoritaria la tesi (patrocinata da Lazzaro 1999, 111), che fa leva sulla mancanza di un'espressa sanzione “a pena di nullità” sia nell'art. 1, comma 4, sia nell'art. 13, comma 5, il quale limita tale sanzione alle sole clausole contra legem riguardanti il “prezzo” del godimento. Si è, in contrario, obiettato (Petrolati, 13) che l'art. 1350 c.c., nell'elencare gli atti che “devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata sotto pena di nullità”, rinvia, al n. 13), agli “altri atti specialmente indicati dalla legge”, fra i quali potrebbe rientrare, per evidenti esigenze di certezza, la nuova fattispecie in esame, ancorché concernente non un atto bensì un contratto; peraltro, nella l. n. 431/1998, non si rinviene un collegamento tra invalidità del contratto, non formale, e posizione sostanziale del conduttore, e all'eventuale stipulazione in forma verbale consegue l'instaurazione di un mero rapporto di fatto; il legislatore si è, comunque, preoccupato di disciplinare, almeno in presenza di determinati presupposti – locazione stipulata oralmente per imposizione di parte locatrice – tale rapporto introducendo la figura della “locazione di fatto” prevista dall'art. 13, comma 5 (del resto, laddove si richiama la fisiologica incompatibilità tra la nullità del contratto e la convalida ai sensi dell'art. 1423 c.c., si dimentica che tale incompatibilità non è prevista in termini assoluti, e il rimedio della riconduzione del contratto potrebbe ben rientrare nella clausola di salvezza “se la legge non dispone diversamente”). Al di fuori di tale specifica ipotesi, laddove cioè la stipulazione orale sia stata pretesa dal conduttore o concordata dalle parti, trovano applicazione i principi generali in materia di contratto nullo: ne consegue, non essendo ipotizzabile alcuna forma di convalida, ratifica o conferma, il diritto del locatore ad agire per il rilascio dell'immobile e quello del conduttore di ottenere la restituzione delle somme versate a titolo di canone nei limiti di quelle che eccedono il canone massimo consentito secondo quanto stabilito dagli accordi territoriali (Bucci, 19, il quale ritiene che la nullità sia eccepibile anche dal locatore, ma solo prima dell'immissione del conduttore nel godimento dell'immobile, mentre, dopo tale immissione, l'eccezione sarebbe riservata solo all'inquilino). Altra dottrina (Preden, 355), pur riconoscendo in linea astratta il diritto di ciascun contraente alla ripetizione delle prestazioni effettuate in attuazione di un contratto nullo, sottolinea come il conduttore che abbia usufruito del godimento dell'immobile non può pretendere la restituzione dei canoni corrisposti in quanto ciò importerebbe un ingiustificato arricchimento in danno del locatore. Per la giurisprudenza, è invece pacifico che il requisito di forma sia previsto ad substantiam (Cass. S.U., n. 18214/2015; Cass. S.U., n. 8148/2009), richiamando segnatamente l'art. 1418 c.c. che sanziona con la nullità la mancanza di uno dei requisiti di cui all'art. 1325 c.c., compresa la forma se prevista a pena di nullità. Per effetto di questa norma, il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato senza adottare la forma scritta è nullo (tra le pronunce di merito, si segnalano: Trib. Arezzo 8 novembre 2005; Trib. Savona 13 agosto 2005; Trib. Bari 4 novembre 2004; Trib. Pisa 2 febbraio 2002; Trib. Reggio Calabria 29 marzo 2001); peraltro, la suddetta forma scritta, quale requisito di forma previsto ad substantiam e, quindi, quale primo elemento e fattore della esistenza stessa (o nullità assoluta) del contratto, è preliminare ad ogni altra patologia e preclusiva della dichiarazione di altre nullità (Trib. Roma 24 ottobre 2013). Circa le conseguenze del mancato rispetto del requisito formale (atto pubblico e scrittura privata), prevale, quindi, la qualifica di vizio in termini di nullità del contratto, sia perché ritenuta normale conseguenza del mancato rispetto di una modalità imperativamente prefissata di esercizio dell'autonomia privata, sia argomentando dalla considerazione generale in base alla quale, ex art. 1350, n. 13), c.c., quando per un atto la legge stabilisce la forma scritta si presume che la stessa sia richiesta a pena di nullità se da altre disposizioni non risulti il contrario. Per effetto della norma citata, secondo la giurisprudenza assolutamente prevalente, il contratto di locazione ad uso abitativo stipulato dopo il 30 dicembre 1998 senza adottare la prescrizione formale è, dunque, viziato di una nullità “assoluta”, ossia eccepibile da entrambe le parti e rilevabile ex officio dal giudice, attesa la ratio pubblicistica del contrasto all'evasione fiscale. Invero, come ribadito più volte dalla Suprema Corte (Cass. S.U., n. 18214/2015 cit.; Cass. III, n. 11356/2006; Cass. III, 2772/1998; Cass. S.U., n. 2572/1988), la nullità per difetto di forma è rilevabile d'ufficio, sottolineando che, alla luce del ruolo che l'ordinamento affida alla nullità contrattuale, quale sanzione del disvalore dell'assetto negoziale e atteso che la risoluzione contrattuale è coerente solo con l'esistenza di un contratto valido, il giudice di merito, investito della domanda di risoluzione del contratto, ha il potere-dovere di rilevare dai fatti allegati e provati, o comunque emergenti ex actis, una volta provocato il contraddittorio sulla questione, ogni forma di nullità del contratto stesso, purché non soggetta a regime speciale (escluse, quindi, le nullità di protezione, il cui rilievo è espressamente rimesso alla volontà della parte protetta). In via generale, peraltro, si ammette pacificamente il rilievo officioso della nullità quale presidio a tutela dell'interesse generale (v. Cass. S.U., n. 21095/2004, in cui si afferma il potere del giudice di dichiarare d'ufficio la nullità o l'inesistenza di un contratto ex art. 1421 c.c. indipendentemente dall'attività assertiva delle parti, quindi anche per una ragione diversa da quella espressamente dedotta, nel caso in cui sia in contestazione l'applicazione o l'esecuzione del negozio, la cui validità rappresenta, quindi, un elemento costitutivo della domanda). Non è mancata, tuttavia, qualche pronuncia che ha qualificato la nullità prevista dall'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998 per difetto di forma scritta come una nullità speciale di protezione (c.d. nullità a legittimazione riservata), posta nell'interesse preminente del conduttore inteso quale parte debole del rapporto, che non potrebbe pertanto essere invocata dal locatore per ottenere un accertamento di occupazione senza titolo dell'immobile (Trib. Verona 19 giugno 2015; Trib. Nuoro 21 giugno 2007). Conseguenze sostanziali La previsione dei c.d. rapporti contrattuali di fatto, che conseguivano alla stipulazione in forma verbale e che il legislatore si era preoccupato di disciplinare almeno in presenza di determinati presupposti (locazione stipulata oralmente per imposizione di parte attrice) all'art. 13, comma 5, della l. n. 431/1998 – già rivelatasi poco praticabile in quanto subordinata al raggiungimento della prova “diabolica” dell'imposizione del rapporto non scritto ad opera del locatore – è stata definitivamente eliminata dall'art. 1, comma 59, della l. n. 208/2015 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, c.d. legge di Stabilità per il 2016) – in vigore dal 1° gennaio 2016, che ha riscritto l'art. 13 della l. n. 431/2015, in materia di locazioni abitative. In particolare, l'art. 13 della l. n. 431/1998, nella formulazione antecedente alla l. n. 208/2015 – al cui commento si rinvia – prevedeva, al comma 5, la c.d. azione di riconduzione a condizioni conformi del contratto privo del requisito di forma, come tale affetto da nullità relativa di protezione, denunciabile dal solo conduttore. L'azione, identificabile come di recupero del contratto, costituiva una declinazione del principio generale di conservazione del negozio giuridico (art. 1424 c.c.), ma aveva un'applicazione limitata, in quanto consentita al conduttore nei casi in cui il locatore avesse preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto in violazione di quanto previsto dall'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998. Nel giudizio di accertamento dell'esistenza del contratto di locazione, il giudice determinava il canone dovuto, che non poteva eccedere quello definito ai sensi dell'art. 2 o quello definito ai sensi dell'art. 5, commi 2 e 3; l'azione di recupero della locazione di fatto dava vita ad un contratto il cui contenuto era diverso dall'originario programma quanto meno sotto il profilo economico. La conclusione del contratto di locazione in forma verbale esponeva, quindi, il locatore al rischio di vedersi riconoscere un canone diverso da quello pattuito e presumibilmente inferiore ad esso, dovendo essere fissato in riferimento agli accordi locali relativi ai contratti a canone concertato. Il presupposto di operatività dell'azione di “recupero” della locazione di fatto era, tuttavia, costituito dall'essere stata “pretesa” la stipulazione in forma verbale del contratto da parte del locatore; nel giudizio introdotto ai sensi del previgente comma 5, terzo periodo, dell'art. 13 della l. n. 431/1998, al magistrato spettava il compito di accertare l'esistenza del contratto di locazione, emergente tanto dall'accordo verbale sul punto, quanto dalla concreta esecuzione che le parti gli avevano dato, determinando la formazione di un contratto nel quale l'osservanza della forma scritta restava affidata ad una pronuncia giudiziale (restava fermo che l'onere della prova della pattuizione e dei suoi termini incombevano sul conduttore). In quest'ottica, ci si interrogava se, in mancanza di forma scritta, la protezione del conduttore risultava confinata all'ipotesi in cui l'instaurazione del rapporto “amorfo” fosse stata pretesa dal locatore, e se nessuna tutela meritava il conduttore che avesse liberamente scelto di stipulare il contratto in difetto del requisito formale. Tuttavia, si opinava (Lazzaro, Di Marzio, 71) che, nell'ipotesi di “pretesa” della pattuizione amorfa da parte del locatore, trovava applicazione un peculiare trattamento sanzionatorio nei suoi confronti, giacché il contenuto contrattuale veniva in tal caso eterodeterminato, mediante l'applicazione di parametri che, grazie alla “concertazione” operata a livello locale, risultavano normalmente meno favorevoli di quelli che il locatore aveva realizzato nella contrattazione individuale; ed allora, la sopravvivenza del contratto a condizioni eterodeterminate, nel caso di “pretesa” della pattuizione amorfa, non implicava affatto che il contratto non dovesse sopravvivere, nei termini della pattuizione intercorsa tra le parti, in mancanza della pretesa; perciò, la disciplina dell'azione di riconduzione a condizioni conformi, lungi dal favorire l'interpretazione del vizio derivante dalla mancanza del requisito formale quale nullità assoluta, suggeriva al contrario che il contratto privo del requisito formale non era assolutamente nullo, ed era anzi in nuce valido al pari del contratto scritto. Nello stesso senso, si collocava la relatività dell'azione di “riconduzione a condizioni conformi”, perché, mentre la questione della legittimazione a far valere la nullità prevista dall'art. 79 della legge sull'equo canone era prevalentemente risolta nel senso dell'applicabilità dell'art. 1421 c.c. (Cass. III, n. 5827/1993; Cass. III, n. 1776/1989; nella giurisprudenza di merito, Trib. Busto Arsizio 26 gennaio 2000; Trib. Milano ottobre 1994), il problema veniva superato, in coerenza con l'illustrata ratio dell'istituto, dal tenore letterale della l. n. 431/1998, che attribuiva espressamente al solo conduttore le azioni di ripetizione e riconduzione: difatti, non altri che il conduttore “può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate”, ed il solo medesimo conduttore “può altresì richiedere ... che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi” (art. 13, comma 5, l. n. 4311998). La “relatività” dell'azione era, quindi, implicitamente ma inequivocamente ribadita dal terzo periodo della disposizione (Mirenda 2000, 7), secondo cui “tale azione”, indubitabilmente con le medesime caratteristiche, era, altresì, “consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto”; in questo senso, si è riconosciuto che la formulazione dell'art. 13, comma 5, laddove rimetteva al solo conduttore la legittimazione ad agire, si mostrava tecnicamente perspicua, apparendo coerente con l'intento del legislatore di disciplinare, in un'ottica protettiva, l'ipotesi in cui la carenza di forma avrebbe altrimenti impedito la prosecuzione del rapporto, in pregiudizio dell'interesse del soggetto economicamente più debole. La relatività della legittimazione del conduttore è stata riconosciuta anche dalla più avveduta giurisprudenza di merito (Trib. Catanzaro 27 maggio 2008), secondo la quale la legittimazione a proporre l'azione per la declaratoria di nullità del contratto di locazione ad uso di abitazione concluso in forma verbale non compete al locatore, ma è riservata al conduttore, salvo che la mancata documentazione dell'accordo non sia dipesa, in via esclusiva, dalla volontà dello stesso conduttore. Come sopra rilevato, l'art. 1, comma 59, della l. n. 208/2015, ha riscritto, nell'art. 13, l'azione di riconduzione, limitandola al caso del conduttore che ha subìto la scelta del locatore di “non registrare” il contratto, con la facoltà per il predetto di far convertire giudizialmente la locazione non registrata e con l'attribuzione al giudice del potere di sostituire il contratto e determinare l'entità del canone riconducendo la locazione a condizioni conformi al comma 1 (contratti liberi) oppure al comma 3 (contratti convenzionati) dell'art. 2 della l. n. 431/1998. Pertanto, alla luce dell'attuale normativa, il conduttore, che si trova nell'immobile in mancanza di un contratto scritto, non ha alcun valido titolo, per cui non è detentore qualificato ma un semplice occupante che può essere definito abusivo (Nardone, 2017); in questo caso, è da escludersi che le vicende del rapporto di fatto possano trovare tutela negli strumenti tipici della locazione quali la finita locazione o la morosità. La mancanza di un contratto valido impedirà ad entrambe le parti di azionare l'ordinaria tutela contrattuale ex art. 447-bis c.p.c. (risoluzione, canoni, vizi, pagamento canoni); il titolare dell'immobile potrà agire per far sancire la illegittimità dell'occupazione nelle forme del giudizio ordinario agendo per il rilascio dell'immobile occupato senza titolo; il conduttore potrà ottenere la parziale restituzione delle somme versate a titolo di canone nella misura eccedente quella del canone “concordato”, giacché la restituzione dell'intero canone costituirebbe un ingiustificato arricchimento; infatti, in presenza di un contratto affetto da vizio formale, il conduttore, in quanto occupante, è obbligato ad indennizzare il proprietario per il fatto che ha goduto dell'immobile, indipendentemente dalla circostanza che il suo ingresso nell'immobile non sia avvenuto in modo clandestino ma con il consenso e la consapevolezza del proprietario. Né le somme versate in corrispettivo di un contratto verbale di locazione, nullo, potranno essere ripetute ai sensi dell'art. 2033 c.c. assumendo il ruolo di controprestazione del godimento del bene. Ad avviso di alcuni (Nasini, Nasini, 19), si è, così, sostituta ad una sanatoria di natura “soggettiva” e limitata alla sola mancanza di forma scritta, una sanatoria di tipo “oggettivo” per mancanza di registrazione: quest'ultima, d'altronde, presuppone necessariamente anche la forma scritta, nel senso che la registrazione del contratto, in mancanza della redazione per iscritto del contratto, non sarebbe idonea all'applicazione né del meccanismo di cui al comma 6 dell'art. 13 della l. n. 431/1998, né, più in generale, alla possibilità di sanatoria tardiva, atteso che entrambi presuppongono l'avvenuta stipula di un contratto formalmente valido e, quindi, esistente. Anche la giurisprudenza ha ribadito detto concetto, precisando che “qualora un contratto di locazione sia dichiarato nullo, pur conseguendo in linea di principio a detta dichiarazione il diritto per ciascuna parte di ripetere la prestazione effettuata, tuttavia, la parte che abbia usufruito del godimento dell'immobile non può pretendere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo di tale godimento, in quanto ciò comporterebbe un inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore” (così Cass. III, n. 9052/2010). Recentemente, la Suprema Corte (Cass. III, n. 20383/2016) ha ribadito i termini della questione, rilevando che, in tema di contratto di locazione, il fatto che una delle prestazioni, posta in essere in base a un negozio risultato nullo, sia non ripetibile – nella specie, il godimento dell'immobile ormai consumato – non consente perciò di ritenere lecito che si trattenga l'equivalente monetario stabilito dalle parti, posto che, se il negozio è nullo, “il pagamento” non è dovuto, non essendo né valide né efficaci le determinazioni delle parti circa il valore economico della (contro)prestazione. Si conclude, pertanto, nel senso dell'applicazione dell'art. 2041 c.c. in funzione dell'eliminazione dello squilibrio determinatosi a seguito del conseguimento di un'utilità economica da parte del soggetto con correlativa diminuzione di altro soggetto, nei limiti dell'arricchimento e dell'impoverimento, della parte che, rispettivamente, abbia ricevuto o effettuato la prestazione di un contratto nullo; ciò può avvenire non già sulla base della determinazione fattane dalle parti con il contratto nullo (o riconoscendo il canone pattuito), bensì in esito ad una valutazione oggettiva dell'utilità conseguita, entro i limiti della diminuzione patrimoniale subita dall'esecutore della prestazione resa in virtù del contratto invalido, sicché l'indennità prevista dall'art. 2041 c.c. andrà liquidata nei limiti della diminuzione patrimoniale subita dalla parte nell'erogazione della prestazione e non in misura coincidente con il mancato guadagno che la stessa avrebbe potuto trarre dall'instaurazione di una valida relazione contrattuale (in senso conforme, Cass. III, n. 23780/2014). Aspetti processuali Sul piano prettamente processuale, con l'imposizione della forma scritta si è facilitata la risoluzione delle controversie locative, troppe volte caratterizzate, nella pregressa pratica giudiziaria, dall'assunzione di prove costituende defatiganti e di difficile valutazione. Infatti, la mancata adozione della forma scritta impedisce, ai sensi dell'art. 2735, comma 2, c.c. di raccogliere prove testimoniali in ordine all'esistenza ed al contenuto del contratto – salva l'applicabilità dell'art. 2724, comma 3, c.c. (riguardante l'ipotesi in cui la parte interessata dimostri di aver smarrito senza colpa il documento), l'interrogatorio formale, la confessione stragiudiziale, il giuramento decisorio (art. 2739, comma 1, c.c.), nonché di utilizzare presunzioni semplici (art. 2729, comma 2, c.c.); inammissibile è, poi, la prova testimoniale se diretta a comprovare patti successivi aggiunti o contrari al contenuto dell'atto scritto (art. 2723 c.c.). Trattasi di principi oramai pacifici, confermati da numerosi arresti della magistratura di vertice (datati, ma pur sempre attuali). Al riguardo, si è affermato che, per il combinato disposto degli art. 2725 e 1350, n. 1), c.c., è inammissibile per irrilevanza qualsiasi prova diversa da quella documentale, perché la forma scritta è richiesta ad substantiam a pena di nullità del negozio, e, quindi, salvo che il contraente interessato alleghi e dimostri la perdita incolpevole del documento ai sensi degli artt. 2724, n. 3), e 2725 c.c., anche la prova per testimoni e l'interrogatorio formale (Cass. II, n. 855/1986); parimenti, poiché i negozi giuridici per i quali la legge prescrive la forma scritta ad substantiam sono nulli, e quindi giuridicamente irrilevanti, se non rivestono tale forma, la prova della loro esistenza e dei diritti che ne formano l'oggetto richiede necessariamente la produzione in giudizio della relativa scrittura, che non può essere costituita da altri mezzi probatori e neanche dal comportamento processuale delle parti, che abbiano concordemente ammesso, anche implicitamente, l'esistenza del diritto costituito con l'atto non esibito (Cass. II, n. 2919/1990). Per soddisfare il requisito formale in esame, non occorre che l'incontro delle volontà sia contestuale, ben potendo esso risultare da documenti diversi, anche cronologicamente distinti ed essendo del pari possibile che uno stesso documento originariamente sottoscritto da una sola parte venga sottoscritto in un secondo tempo dall'altra oppure che questa, senza sottoscriverlo, lo produca in giudizio con il dichiarato intento di avvalersi del contenuto negoziale di esso nei confronti del suo autore (Cass. III, n. 6629/1997); si è, altresì, chiarito che, per la sussistenza di una scrittura privata contrattuale, è necessario che dal documento emerga il reciproco consenso delle parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale, ma non che si adottino particolari formule per esprimere tale consenso, sicché nulla esclude che esso venga manifestato da uno dei contraenti con la semplice sottoscrizione “per accettazione” delle dichiarazioni fatte in prima persona dall'altro (Cass. II, n. 12819/1992). Si è ritenuto, poi, che la parte non firmataria possa esprimere il proprio consenso mediante una manifestazione tacita di volontà, a condizione che essa sia comunque desumibile da una dichiarazione scritta (Cass. III, n. 4400/1996); si è precisato, però, che il requisito formale appare rispettato solo quando il documento costituisca l'estrinsecazione formale diretta della volontà contrattuale delle parti e venga posto in essere al fine specifico di manifestare tale volontà (Cass. III, n. 6822/1982); inoltre, nel caso di sottoscrizione di una sola parte, la produzione in giudizio del documento ad opera dell'altra, con il dichiarato intento di avvalersi del suo contenuto negoziale nei confronti del sottoscrittore, vale a perfezionare comunque il requisito formale (Cass. III, n. 4905/1998). Sulla risoluzione consensuale del contratto di locazione ad uso abitativo, si registra un contrasto giurisprudenziale: secondo un orientamento (di cui è espressione, tra le altre, Cass. VI/III, n. 22647/2017), il contratto di locazione ad uso abitativo, soggetto all'obbligo di forma scritta ai sensi dell'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, deve essere risolto con comunicazione scritta, non potendo, in questo caso, trovare applicazione il principio di libertà delle forme, che vale solamente per i contratti in forma scritta per volontà delle parti e non per quelli per i quali la forma scritta sia prescritta dalla legge ad substantiam; secondo altro orientamento (v., da ultimo, Cass. III, n. 11808/2016), l'art. 2, comma 1, secondo inciso, della l. n. 431/1998, nel prevedere che la manifestazione della rinuncia al rinnovo (scilicet disdetta immotivata) alla seconda scadenza dei contratti di cui alla norma debba compiersi con lettera raccomandata da inviarsi all'altra parte almeno sei mesi prima della scadenza del secondo periodo di durata contrattuale, non prescrive a pena di nullità né il mezzo di compimento della manifestazione negoziale (la lettera e, dunque, la forma scritta) né quello della trasmissione (raccomandata). Si è sopra detto che il giudice può rilevare d'ufficio la nullità del contratto di locazione per carenza di forma scritta; il che implica, in applicazione del principio iura novit curia, che il giudice adìto in sede di convalida dello sfratto o della licenza intimate in relazione al dedotto contratto, debba denegare, indipendentemente dalla condotta processuale del conduttore (o anche nell'ipotesi in cui quest'ultimo rimanga contumace) il chiesto provvedimento, e del pari dicasi qualora parte locatrice opti in luogo del procedimento speciale per il rito ordinario locatizio. La giurisprudenza di merito (Trib. Verbania 5 aprile 2001), in tema di sfratto per morosità, ha affermato che, ove il contratto di locazione posto a base del procedimento sommario sia affetto da nullità per mancanza di forma scritta richiesta ad substantiam dall'art. 1, comma 4, della l. n. 431/1998, il giudicante deve, a mezzo di ordinanza, pronunciare il rigetto della domanda per assenza dei relativi presupposti; in pari guisa, si è pronunciato un magistrato toscano (Trib. Pisa 2 febbraio 2003), il quale ha ritenuto la nullità del contratto verbale di locazione di immobile destinato ad uso abitativo con conseguente preclusione d'ufficio per il giudice adìto in sede di procedimento sommario, di prenderlo in considerazione, salvo che il conduttore non alleghi la fattispecie eccezionale che il locatore abbia preteso l'instaurazione di un rapporto di locazione di fatto ai sensi dell'art. 13, comma 5, della medesima l. n. 431/1998 (tra le pronunce di merito in tal senso si segnalano: Trib. Milano 16 marzo 2011; App. Roma 12 maggio 2010; Trib. Trani 5 maggio 2008; Trib. Reggio Calabria 29 marzo 2001; Trib. Verona 21 giugno 2000). Per completezza, appare opportuno riportare gli orientamenti giurisprudenziali che si sono confrontati sul tema del valore della denuncia del contratto verbale. Secondo alcune pronunce, alcuna efficacia può riconoscersi alla denuncia operata, unilateralmente, all'Agenzia delle Entrate effettuata dapprima dal locatore e successivamente dal conduttore, trattandosi di atti idonei a produrre i loro effetti unicamente sul piano fiscale e non su quello civilistico (Trib. Bari 20 marzo 2016). Ad avviso di altre, le disposizioni dell'art. 3, comma 8, del d.lgs. n. 23/2001, anche nel periodo di loro precaria vigenza, non avrebbero potuto supplire al vizio di forma di cui affetto il contratto di locazione abitativa, che fosse concluso verbalmente; infatti, l'applicabilità della disciplina di cui all'art. 3 citato presupponeva, in ogni caso, necessariamente, l'esistenza di un contratto di locazione valido ed immune da vizi sotto ogni altro profilo diverso dalla mancata registrazione nel termine di legge (Trib. Roma 29 aprile 2016). Anche gli ermellini si sono espressi al riguardo: la denuncia di un contratto verbale di locazione all'ufficio del registro ha finalità di solo ordine fiscale, sicché la stessa, quand'anche sottoscritta da entrambe le parti contraenti e quand'anche annualmente ripresentata al fisco, una volta prodotta in giudizio e contestata dalla controparte, non è idonea, in sé, a provare che una pregressa convenzione scritta di locazione pluriennale sia stata novata con accordi di diverso contenuto (Cass. III, n. 329/2000); la denuncia di un contratto verbale di locazione, avendo finalità meramente fiscali, deve, in una controversia fra privati, essere liberamente valutata come dichiarazione di parte in un raffronto critico con gli altri elementi probatori acquisiti alla causa, e ciò anche nell'ipotesi in cui chi l'ha sottoscritta e redatta abbia dichiarato fatti a se sfavorevoli e favorevoli alla controparte, dovendo escludersi che in tale atto, attesa la specificità dello scopo che lo caratterizza, sia configurabile una confessione stragiudiziale, mancando nel dichiarante la consapevolezza e la volontà di porre in essere un'attestazione della verità dei fatti utilizzabile tra le parti nei rapporti contrattuali (Cass. III, n. 1100/1997). BibliografiaAngiolini, Contratti di locazione per “finalità turistiche” di cui alla l. 431/98 e poteri legislativi delle Regioni, in Arch. loc., 2000, 373; Assini, Solinas, Edilizia residenziale pubblica, in Enc. giur., vol. 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