Legge - 27/07/1978 - n. 392 art. 5 - Inadempimento del conduttore.Inadempimento del conduttore. Salvo quanto previsto dall'articolo 55, il mancato pagamento del canone decorsi venti giorni dalla scadenza prevista, ovvero il mancato pagamento, nel termine previsto, degli oneri accessori quando l'importo non pagato superi quello di due mensilità del canone, costituisce motivo di risoluzione, ai sensi dell'articolo 1455 del codice civile. InquadramentoStante la particolarità del rapporto che si instaura tra locatore e conduttore – rapporto che ha per oggetto un bene della vita di particolare rilievo sociale (qual è avere una casa in cui abitare) – e la necessità di tutela del conduttore, considerato come contraente più debole nel rapporto, la disciplina del contratto di locazione ad uso di abitazione si rinviene sia nel codice civile, sia nelle leggi speciali che si sono affiancate, stratificandosi tra loro e talvolta sovrapponendosi alla normativa codicistica (quest'ultima, in gran parte, di carattere dispositivo, mentre le disposizioni contenute nelle leggi speciali rivestono, di regola, carattere imperativo). In particolare, la morosità costituisce una “voce specifica” dell'inadempimento contrattuale e, quindi, trae la sua fonte primaria dall'art. 1453 c.c., che disciplina gli effetti dell'inadempimento alle obbligazioni che derivano da un contratto (art. 1173 c.c.), e, segnatamente, da un contratto con prestazioni corrispettive qual è il contratto di locazione, disciplinato dal codice civile negli artt. 1571 ss. c.c.; la morosità del conduttore è, pertanto, l'inadempimento ad una delle obbligazioni sinallagmatiche, e segnatamente quella che fa capo al conduttore di pagare il corrispettivo convenuto (peraltro, quella statisticamente più frequente nella pratica). Nello specifico, si registrano norme ad hoc si occupano della morosità del conduttore. Sul versante codicistico, l'art. 1587, comma 1, n. 2), c.c. – al cui commento si rinvia – che, nel prevedere gli obblighi del conduttore, prescrive che quest'ultimo è tenuto a “dare il corrispettivo nei termini convenuti”, prevedendo, nel caso di inadempimento, la possibilità di risolvere il contratto qualora sussistano i presupposti di cui all'art. 1455 c.c., ossia la “non scarsa importanza” dell'inadempimento, avuto riguardo all'interesse dell'altro contraente (ciò mediante l'azione ordinaria ai sensi dell'art. 447-bis c.p.c. o con lo speciale procedimento di sfratto per morosità e contestuale citazione per la convalida). A livello di legislazione speciale, l'art. 5 della l. n. 392/1978, inserito nel capo I del titolo I dedicato alle locazioni di immobili urbani adibiti ad uso abitativo, che sanziona con la risoluzione del contratto – salvo quanto previsto dall'art. 55 – in base di una predeterminazione della gravità dell'inadempimento, il mancato pagamento del canone che si protragga per oltre venti giorni dalla scadenza prevista, ed il mancato pagamento degli oneri accessori che superi quello di due mensilità del canone. Pertanto, le disposizioni del codice civile, che riguardano la morosità del conduttore e le sue conseguenze, continuano ad applicarsi ai rapporti di locazione di immobili sottratti alla legislazione speciale. In queste ultime ipotesi, il criterio di valutazione adottato è ispirato al principio generale per cui l'inadempimento di una delle parti del contratto, al fine di giustificare la risoluzione, non deve avere scarsa importanza “avuto riguardo all'interesse dell'altra”; la valutazione, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1455 c.c., della non scarsa importanza dell'inadempimento – riservata al giudice di merito – deve, comunque, ritenersi implicita qualora l'inadempimento riguardi il pagamento dei canoni dovuti, che è da ritenersi un'obbligazione primaria ed essenziale del contratto di locazione. Rilevanza dell'inadempimentoLa valutazione della “non scarsa” importanza dell'inadempimento, che l'art. 1455 c.c. esige per la risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive, ha costituito oggetto, nella locazione abitativa, di oscillanti interpretazioni. Il tema, nel regime di proroga dei contratti e di “sospensione” degli sfratti, ha indirettamente assunto notevole rilievo, risultando tradizionalmente privilegiato (passibile cioè di più rapida esecuzione) il titolo di rilascio dell'immobile fondato sulla morosità del conduttore (Spagnuolo 1999, 215; Bove, 3054; Carrato 2006, 83; Signori, 38). Fin da epoca remota, la giurisprudenza è stata, in proposito, particolarmente rigorosa, affermando che l'omesso o irregolare pagamento del canone costituiva violazione di uno dei principali obblighi gravanti sul conduttore, incidente su tutta l'economia del contratto, onde solo in casi eccezionali era ravvisabile quella attenuazione di interesse da parte del locatore idonea ad impedire la risoluzione del contratto (Cass. III, n. 4096/1978; Cass. III, n. 3535/1975; Cass. III, n. 610/1970; Cass. III, n. 2135/1960). È, quindi, intervenuta la legislazione vincolistica (art. 3 l. n. 841/1973), la quale ha posto un criterio legale di valutazione, stabilendo che la morosità del conduttore poteva costituire causa di risoluzione del contratto solo quando si fosse “protratta” per almeno due mesi – o tre mesi, in ipotesi particolari – prevedendo, così, la presunzione assoluta che un inadempimento protrattosi per un periodo inferiore non potesse costituire causa di risoluzione, mentre trovavano applicazione i consueti criteri se fosse stato superato quel limite (Cass. III, n. 4438/1985; Cass. III, n. 3869/1983). In altri termini, se, in passato, la giurisprudenza, in assenza di previsioni normative di senso contrario, aveva confermato l'impostazione tradizionale, secondo cui, atteso che il pagamento del canone costituisce l'obbligazione principale del conduttore, ne discende al suo inadempimento la possibilità, per la controparte locatrice, di invocare la risoluzione del contratto, un primo passo – in un'ottica anche “conservativa” del rapporto negoziale – è stato fatto con il citato art. 3, in virtù del quale si è stabilito, per i contratti prorogati, che la morosità potesse costituire causa di risoluzione dei contratti di locazione (e di sublocazione) di immobili urbani solo ove protratta per almeno due mesi, oppure tre se ricollegabile alle precarie condizioni economiche del conduttore insorte successivamente alla stipulazione del contratto per disoccupazione involontaria o per grave malattia del conduttore medesimo. Tuttavia, la formulazione della norma, se chiara nella previsione della necessaria presenza dei presupposti dalla stessa contemplati per la propria operatività (Cass. III, n. 5477/1983; Cass. III, n. 1786/1979), lasciava ampi margini di intervento agli interpreti sul quomodo. Ad esempio, si era affermato l'orientamento per cui la norma dovesse essere intesa nel senso che la morosità, causa appunto di risoluzione, dovesse non già ammontare ad almeno due mensilità ma, ancorché riguardante un solo canone, dovesse durare almeno due mesi (Cass. III, n. 4018/1980; Cass. III, n. 646/1980; Cass. III, n. 3572/1979); d'altro canto, mentre si affermava l'applicazione diretta della previsione unicamente ai contratti prorogati (Cass. III, n. 2632/1982; Cass. III, n. 400/1982), al contempo se ne evidenziava la generica operatività, a mo' di parametro ispiratore, onde accertare, nella materia locatizia, la gravità dell'inadempimento del conduttore e la sua idoneità a turbare l'equilibrio economico del negozio (Cass. III, n. 183/1982). Era, invece, chiaro ed univoco il principio per cui la previsione avesse carattere eccezionale ed inderogabile, vincolando l'apprezzamento del giudice in ordine alla rilevanza dell'inadempimento e derogando all'eventuale diverso apprezzamento contrattuale delle parti, con la conseguenza che la morosità riferita ad un periodo più breve non potesse costituire causa di risoluzione, e ciò anche se fosse stata pattuita una clausola risolutiva espressa, da ritenersi operativa solo in caso di morosità protratta per il periodo legale (Cass. III, n. 105/1985). In tale contesto – normativo e giurisprudenziale – ha visto la luce l'art. 5 della l. n. 392/1978 il quale, accedendo anch'esso alla previsione del suddetto “inadempimento qualificato” del conduttore, ha risolto alcuni problemi creati dalla legislazione vincolistica, ma originandone altri, non del tutto dipanati dagli interpreti (tra i primi commenti “a caldo”, v. Bernardi, 46; Cappelli, 1254; Fiore, Lo Cascio, Pignatelli, Piombo, 45). Per completezza, mette punto rammentare che una valutazione “legale” di gravità dell'inadempimento all'obbligo di pagamento del canone, quando l'importo complessivo superasse, anche se riferito agli oneri accessori, quello di due mensilità di affitto, era contenuta nell'art. 2 del d.l. n. 551/1988, convertito in l. n. 61/1989, attualmente abrogato a seguito dell'art. 14 della l. n. 431/1998 (per alcune pronunce di legittimità si sono occupate di tali fattispecie, v. Cass. III, n. 9543/1996; Cass. III, n. 10914/1994). Per il resto, vige il principio (espresso di recente anche da Cass. III, n. 36494/2023, per cui, a fronte di una domanda di risoluzione del contratto di locazione per morosità del conduttore, il giudice deve tener conto, nella valutazione della gravità dell'inadempimento, del suo comportamento anche successivo alla proposizione della domanda, dal momento che, non potendo il locatore sospendere a sua volta l'adempimento della propria obbligazione (trattandosi di un contratto di durata), permane in capo allo stesso l'interesse alla percezione del corrispettivo convenuto, dovutogli, ai sensi dell'art. 1591 c.c., fino al momento della riconsegna del bene. Ambito di applicazioneL'art. 5 della l. n. 392/1978, peraltro, è norma tuttora in vigore, non essendo stata espressamente abrogata dall'art. 14 della l. n. 431/1998 – ed anzi è richiamata, unitamente all'art. 55, nelle clausole dei contratti-tipo definiti in sede di accordi locali e poi approvati nella Convenzione nazionale di cui all'art. 4-bis della l. n. 431/1998 – e detta la nuova disciplina delle locazioni degli immobili “ad uso abitativo”, sicché si è sùbito posta la questione se la norma de qua potesse applicarsi anche alle locazioni non abitative (sul versante dottrinale, si registrano diverse posizioni: Potenza, Chirico, Annunziata, 434; Ciocia, 962; riguardo ai riflessi fiscali, Belotti, Quartarini, 1535). La giurisprudenza, dopo un iniziale tentennamento, ha trovato, anche nella sua massima composizione, un proprio assesto in senso negativo. In particolare, dapprima (Cass. III, n. 4057/1985), si è affermato che, nelle locazioni di immobili destinati ad uso diverso da quello abitativo, non avrebbe trovato applicazione il disposto dell'art. 5 della l. n. 392/1978, secondo il quale il mancato pagamento del canone giustifica la risoluzione del contratto di locazione soltanto se siano decorsi venti giorni dalla scadenza prevista; di conseguenza, per questo tipo di locazioni, il mancato pagamento del canone alla scadenza poteva costituire motivo di risoluzione del contratto, senza che fosse necessario attendere il decorso del termine di venti giorni previsto, invece, per le locazioni di immobili destinati ad uso di abitazione. Questo principio è stato disatteso dalla successiva giurisprudenza (Cass. III, n. 8605/1987), che ha opinato, invece, applicabile l'art. 5 della l. 392/1978 anche alle locazioni ad uso diverso dall'abitativo. Il supremo organo di nomofilachia è intervenuto a dirimere il contrasto (Cass. S.U., n. 12210/1990), escludendo – a chiari note – l'applicazione dell'art. 5 della l. n. 392/1978 alle locazioni ad uso diverso dall'abitativo, e affermando che, per la valutazione della gravità dell'inadempimento del conduttore nel pagamento del canone e degli oneri accessori, doveva escludersi l'applicazione del principio della predeterminazione legale con riferimento alle locazioni abitative, continuando, pertanto, a valere i comuni criteri di cui all'art. 1455 c.c., senza che ciò, peraltro, precludesse al giudice l'utilizzazione anche del principio posto dal citato art. 5 come “criterio orientativo” o “parametro di riferimento” del proprio giudizio circa l'importanza dell'inadempimento, ove le particolarità del caso concreto lo giustificassero (nel senso che, per le locazioni non abitative, ai fini risolutivi del rapporto non è applicabile l'art. 5 della stessa l. n. 392/1978 in tema di predeterminazione della gravità dell'inadempimento, bensì il combinato disposto degli artt. 1453 e 1455 c.c., v., nella giurisprudenza di merito, Trib. Modena 29 novembre 2006; Trib. Napoli-Marano 14 novembre 2001; Trib. Busto Arsizio 24 giugno 1999; Pret. Verona 16 maggio 1997; Pret. Chieti 21 settembre 1995; Pret. Verona 12 febbraio 1994; Pret. Napoli 14 luglio 1986; Pret. Pontassieve 31 dicembre 1981; Trib. Foggia 10 settembre 1981; in senso contrario e minoritario, si registrano: Trib. Bassano del Grappa 2 dicembre 1999; Pret. Perugia-Gualdo Tadino 10 giugno 1992; Trib. Napoli 13 novembre 1981; Pret. Gubbio 14 febbraio 1981). Tale orientamento è stato confermato anche dalle pronunce successive dei giudici di Piazza Cavour (Cass. III, n. 1428/2017; Cass. III, n. 13887/2011; Cass. III, n. 13248/2010; Cass. III, n. 24207/2006; Cass. III, n. 8628/2006; Cass. III, n. 5902/2006; Cass. III, n. 17738/2002; Cass. III, n. 10239/2000; Cass. III, n. 1234/2000; Cass. III, n. 4688/1999; Cass. III, n. 11448/1998; Cass. III, n. 10202/1994; Cass. III, 2496/1992; alcune, come Cass. III, n. 6023/1995, Cass. III, n. 2232/1995, Cass. III, n. 10202/1994, Cass. III, n. 7002/1993, Cass. III, n. 659/1993, Cass. III, n. 13575/1991, facevano, però, salva l'operatività della sanatoria giudiziale); tali conclusioni sono state ritenute esportabili anche ai contratti conclusi sotto la vigenza della l. n. 431/1998 (v., in particolare, Cass. III, n. 12321/2005); si è, infatti, chiarito che, anche all'esito dell'introduzione della nuova disciplina delle locazioni abitative, la disposizione contenuta nell'art. 5 della l. n. 392/1978, che ha predeterminato la gravità dell'inadempimento ai fini della risoluzione del contratto, trova applicazione esclusivamente per le locazioni ad uso di abitazione, e non è estensibile al tipo contrattuale della locazione per uso diverso dall'abitazione, come si desume: a) dalla collocazione testuale della norma nell'àmbito del capo I (“Locazione di immobili adibiti ad uso di abitazione”) del titolo I (“Del contratto di locazione”) della suindicata l. n. 392/1978, mentre le locazioni ad uso diverso da abitazione sono disciplinate al capo II del medesimo titolo I; b) dall'essere i due diversi tipi contrattuali a loro volta distinti in sottotipi, con differente disciplina in ragione dei differenti interessi tutelati; c) dal non risultare il suindicato art. 5 indicato nell'art. 41 tra quelli applicabili alle locazioni ad uso diverso da abitazione; d) dal non essere stata la norma in questione, diversamente da numerose altre, espressamente abrogata dalla citata l. n. 431/1998; e) dal non potersi l'applicazione estensiva dell'art. 5 farsi discendere dalla parziale liberalizzazione del canone di locazione introdotta dalla l. n. 431/1998 per le locazioni ad uso abitativo. I principi di cui sopra hanno trovato ulteriore conferma da parte delle Sezioni Unite, intervenute per escludere l'applicazione non solo dell'art. 5 ma anche dell'art. 55 della l. n. 392/1978 – al cui commento si rinvia – alle locazioni ad uso diverso dall'abitazione (Cass. S.U., n. 272/1999, cui hanno dato continuità giuridica Cass. III, 22905/2016; Cass. III, n. 11777/2006; Cass. III, n. 9878/2005; Cass. III, n. 15709/2003; Cass. III, n. 741/2002; v., da ultimo, Cass. III, n. 9555/2017, ad avviso della quale, in un rapporto di locazione ad uso diverso dall'abitativo, l'entità delle pigioni non pagate dal conduttore per tre mesi, e per una metà dell'importo per altre mensilità successive, configura alterazione del sinallagma contrattuale di tale rilevanza da giustificare lo scioglimento del rapporto di locazione ad uso diverso, sol che si consideri la ben più ridotta misura della morosità predeterminata dalla l. n. 392/1978 come causa di risoluzione delle locazioni abitative, ove socialmente più rilevante appare l'esigenza di protezione della posizione del conduttore). L'approdo ermeneutico di cui sopra ha registrato anche l'avallo autorevole dei giudici della Consulta, chiamati appunto a decidere sulla costituzionalità dell'art. 5, in relazione alla disparità di trattamento che esso introdurrebbe tra le locazioni abitative e quelle non abitative. In particolare, si era sollevata la questione di legittimità costituzionale del suddetto art. 5, nella parte in cui prevede che, nelle locazioni ad uso di abitazione, il mancato pagamento del canone, decorsi venti giorni dalla scadenza, costituisce motivo di risoluzione del contratto di locazione, così derogando alla regola generale prevista dall'art. 1455 c.c., che consente di valutare, ai fini della risoluzione del contratto, l'importanza dell'inadempimento avuto riguardo all'interesse dell'altra parte; ne deriverebbe – ad avviso del giudice remittente – sia il contrasto con la funzione sociale che la proprietà deve assolvere (art. 42 Cost.), sia la violazione del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), giacché il ritardo di oltre venti giorni nel pagamento del canone costituirebbe inadempimento che determina la risoluzione del contratto solo per le locazioni abitative, mentre per quelle non abitative dovrebbe essere valutata la gravità dell'inadempimento. Il giudice delle leggi – riguardo alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, nella parte in cui prevede che il ritardo nel pagamento del canone (trascorsi venti giorni dalla scadenza) costituisce motivo di risoluzione del contratto di locazione, senza che debba essere ulteriormente provata la gravità dell'inadempimento (come altrimenti richiederebbe l'art. 1455 c.c.) – ha opinato che ciò investe una regola operante per le locazioni di immobili urbani ad uso abitativo in connessione con l'art. 55 della stessa l. n. 392/1978 che, proprio con un riferimento esplicito all'art. 5 ed all'inadempimento del conduttore, consente a quest'ultimo di sanare la morosità in udienza o nel termine che il giudice gli assegna in caso di comprovate condizioni di difficoltà, con l'effetto che il pagamento esclude la risoluzione del contratto (Corte cost., n. 448/1998; in senso sostanzialmente conforme, v., in seguito, Corte cost., n. 410/2001 e Cass. III, n. 6427/2009). In quest'ottica, il sistema non attribuisce un'ingiustificata posizione di vantaggio al locatore, ma consente, anzi, al conduttore di adempiere (in deroga all'art. 1453, comma 3, c.c.) la propria obbligazione anche quando in ragione del ritardo sia stata chiesta, con l'intimazione dello sfratto per morosità, la risoluzione. Inoltre, se pure si ritenga che la facoltà del conduttore di sanare la mora in giudizio non si riferisca esclusivamente alle locazioni di immobili urbani ad uso di abitazione, in ragione sia del richiamo testuale che l'art. 55 della l. n. 392/1978 opera all'art. 5 della stessa legge, che disciplina appunto l'inadempimento del conduttore in tale tipo di locazione, sia del riferimento al quadriennio (e non al sessennio) che caratterizza la durata legale di queste, comunque, ai fini della verifica di un'eventuale disparità di trattamento, la comparazione non può essere effettuata prendendo in considerazione solo uno degli elementi che differenziano le regole delle locazioni ad uso di abitazione da quelle delle locazioni ad uso diverso, tanto più che, per queste ultime, la valutazione della gravità dell'inadempimento in base alla disciplina comune dei contratti (art. 1455 c.c.) può essere rimessa all'autonomia contrattuale (art. 1456 c.c.), che, solo per le locazioni diverse da quelle abitative, non applicandosi direttamente l'art. 5 della l. n. 392/1978, può disporre clausole risolutive espresse con termini più gravosi per il conduttore di quelli delineati da quest'ultima legge. In dottrina (Grasselli, 2017), si è rimarcata la “differenza ontologica” tra l'art. 5 e l'art. 55; il primo è norma di contenuto meramente sostanziale, in quanto incide sul merito della domanda di risoluzione: nella previsione legislativa, il mancato pagamento del canone entro il termine stabilito costituisce inadempimento grave e, quindi, è valido motivo di risoluzione del contratto senza che il giudice possa, discrezionalmente, valutare il comportamento del conduttore nel suo complesso e pervenire a diversa decisione; il secondo, invece, ha natura anche processuale – tanto che risulta collocato tra le disposizioni processuali della l. n. 392/1978 – disponendo che, se il conduttore, una volta ottenuto il termine di grazia, sana la morosità, il suo adempimento, sia pure tardivo, “esclude la risoluzione del contratto”, per cui la domanda di risoluzione è non più ammissibile, non perché il conduttore, già inadempiente, abbia cessato di esserlo, ma perché, dopo che l'azione è stata legittimamente promossa, viene meno il presupposto della domanda di risoluzione, costituito dalla gravità dell'inadempimento. Pertanto, si è salutato con favore l'indirizzo giurisprudenziale, avallato dalla magistratura di vertice nella sua massima composizione, la quale, per quanto riguardava l'applicazione dell'art. 5 della l. n. 392/1978, ha evidenziato che esistono dati, non soltanto testuali, ma anche sistematici sulla ripartizione organica delle discipline dettate dal legislatore: in primis, la collocazione della disposizione relativa alla c.d. predeterminazione della gravità dell'inadempimento (art. 5) nell'àmbito della disciplina delle locazioni ad uso abitativo, e, poi, la mancata inclusione della predetta disposizione nel novero di quelle (ex artt. da 7 ad 11) la cui vigenza è espressamente estesa al settore attinente alle locazioni di immobili per uso non abitativo. La differenza ontologica tra le due disposizioni, art. 5 e art. 55, portava, quindi, ad escludere che tra le due norme sussistesse un nesso di interdipendenza tale da condizionare l'applicabilità dei benefici della sanatoria, alla vigenza del criterio valutativo posto dall'art. 5, con ciò venendo meno l'ultimo appiglio argomentativo volto a sostenere l'estensione dell'imperatività di detto criterio al di fuori del settore delle locazioni ad uso di abitazione; tale conclusione non precludeva, comunque, al giudice del merito, chiamato a valutare ai sensi dell'art. 1455 c.c. l'importanza dell'inadempimento in caso di locazione per uso non abitativo, di richiamarsi anche al principio posto dall'art. 5 della l. n. 392/1978, quale criterio latamente ispiratore del proprio giudizio, sempreché le peculiarità della res iudicanda giustificassero tale discrezionale considerazione se di essa fosse fornita una motivazione logicamente corretta. Anche altra parte della dottrina (Paparo, Proto Pisani, 573) si era, da sùbito, orientata nel senso di escludere l'applicabilità dell'art. 55 alle locazioni non abitative, partendo dalla premessa che la gravità dell'inadempimento – ai fini della risoluzione del contratto – è predeterminata dal solo art. 5, con riferimento esclusivamente ai contratti di locazione ad uso abitativo, e che l'art. 55 richiama la morosità di cui all'art. 5, circoscrivendo così l'àmbito della norma a questo tipo di contratti. Ratio della normaDunque, l'art. 5 della l. n. 392/1978 qualifica in termini di causa di risoluzione del contratto – e, quindi, in modo assai severo, ancorché mitigato dal successivo art. 55 che consente la sanatoria della morosità – il mancato pagamento del canone, decorsi venti giorni dalla scadenza prevista, oppure il mancato pagamento, nel termine previsto, degli oneri accessori quando l'importo non pagato superi quello di due mensilità del canone. In tal modo, il legislatore ha sottratto alla discrezionalità del giudice ogni valutazione relativa alla gravità dell'inadempimento del conduttore, con una scelta che, relativamente all'individuazione della relativa ratio, ha fatto registrare opinioni discordanti in dottrina. Alcuni hanno intravisto nella previsione in commento, che contempla la “sterilizzazione dell'inadempimento” (così Lazzaro, Di Marzio, 436), una sorta di “bilanciamento”, in favore del locatore, a fronte dell'imposizione allo stesso di un canone c.d. equo; in altri termini, il legislatore del 1978 ha inteso porre un punto fermo sulla dibattuta questione, da un lato, stabilendo un tetto massimo per il “prezzo” del godimento dell'alloggio, e, dall'altro, richiamando il conduttore ad una puntuale osservanza dei propri obblighi riguardanti il pagamento del corrispettivo (canone ed oneri condominiali, anticipati in genere del locatore) e, pur concedendo un certo termine di “comporto”, ha posto una presunzione assoluta di “gravità” dell'inadempimento. Altri, invece, vi hanno scorto una misura di “politica giudiziaria”, tesa a depotenziare nel contenzioso locatizio il ruolo dell'autorità giudiziaria (Gabrielli, Padovini, 616). In quest'ottica, la Relazione ministeriale di accompagnamento alla l. n. 392/1978 chiarisce che, con l'art. 5, si sono volute individuare le ipotesi tipiche e ricorrenti di inadempimento del conduttore, accompagnandole con un criterio di valutazione rigido e predeterminato, onde evitare l'insorgere, in sede giudiziaria e tenuto conto della tipologia di contenzioso, di questioni che, normalmente, accompagnano il giudizio di “non scarsa importanza” di cui all'art. 1455 c.c. L'interpretazione giurisprudenziale che ne è seguita è stata abbastanza univoca. In proposito, si è affermato che, con l'art. 5 in commento, il legislatore ha effettuato una valutazione dell'importanza dell'inadempimento del conduttore nel pagamento del canone locatizio (o degli oneri accessori) ai fini della risoluzione del contratto, escludendo il potere discrezionale del giudice di cui all'art. 1455 c.c., sicché, ove il ritardo nel pagamento si protragga per un periodo inferiore a venti giorni dalla scadenza prevista – o la somma dovuta per oneri accessori non superi l'importo di due mensilità del canone – l'inadempimento, pur sussistente, è di scarsa importanza per una valutazione operata dal legislatore e non comporta, ai sensi dell'art. 1455 c.c. richiamato dallo stesso art. 5, la risoluzione del contratto (Cass. III, n. 3791/1987; Cass. III, n. 4598/1986; dal canto suo, Cass. III, n. 23257/2010 ha, però, precisato che, nel caso in cui il conduttore, senza effettuare alcuna contestazione sul quantum, abbia omesso di pagare una o più mensilità del canone locativo, la valutazione della gravità e dell'importanza dell'inadempimento, non è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice, ma è predeterminata legalmente ai sensi degli artt. 5 e 55 della l. n. 392/1978, mentre qualora, invece, il conduttore chieda la verifica della rispondenza del canone contrattuale ai parametri legali, con riferimento ad un arco temporale consistente – nella specie, trattavasi di cinque annualità – deve applicarsi la disciplina di cui agli artt. 1453 e 1455 c.c., che rimettono al giudice il compito di effettuare una valutazione discrezionale in ordine alla gravità dell'inadempimento). Peraltro – specificando ulteriormente quanto precede – la stessa giurisprudenza di legittimità ha sottolineato che la valutazione del giudice, non più rimessa all'apprezzamento discrezionale di quest'ultimo quanto al pagamento del canone, dell'importanza o gravità dell'inadempimento, in relazione all'interesse del locatore insoddisfatto, è predeterminata legalmente, mediante la previsione di un parametro ancorato a due elementi: l'uno di ordine quantitativo, afferente al mancato pagamento di una sola rata del canone o al mancato pagamento di onere accessorio di importo superiore a due mensilità del canone, e l'altro di ordine temporale, relativo al ritardo consentito e tollerato (Cass. III, n. 8418/2006; Cass. III, n. 6131/1995; Cass. III, n. 3558/1988; Cass. III, n. 7213/1987; Cass. III, n. 5956/1987; Cass. III, n. 5776/1985; tra le pronunce di merito, si segnalano: Trib. Genova 3 febbraio 2017; Pret. Salerno-Eboli 26 gennaio 1998). Non è mancato, però, chi (Carrato, Scarpa, 144) ha acutamente sottolineato che il legislatore del 1978 aveva costruito un sistema normativo di circuito chiuso in regime permanente, che doveva servire a vincere le eventuali perdite di carico mediante un marchingegno di contrappesi, nel senso che, per un verso, aveva regolato autoritativamente la misura del canone delle locazioni abitative (ossia l'ammontare massimo della prestazione cui potesse essere tenuto il conduttore), e, per altro verso, aveva parametrato su tale equa quantità di canone la gravità dell'inadempimento, sottraendo al giudice ogni valutazione circa la sua portata ai fini della risoluzione (laddove la sanatoria della morosità costituiva un peso aggiunto nella direzione opposta a quella dove tendeva altrimenti a cadere la locazione abitativa, con il suo canone ed il suo simmetrico inadempimento rigorosamente predeterminati); tuttavia, una volta rimessa dall'ordinamento alla libera volizione dell'autonomia privata la determinazione del canone nelle locazioni abitative a seguito della l. n. 431/1998, l'art. 55 della legge sull'equo canone “appare oggi come una massa utilizzata per bilanciare un carico non più esistente”. In senso conforme, anche un'altra parte della dottrina ha mostrato perplessità circa la ragionevolezza della permanente vigenza dell'art. 5 della l. n. 392/1978, a seguito dell'entrata in vigore della novella del 1998 per le locazioni abitative, stante che tale norma trovava la sua ragion d'essere nel fatto che il locatore era costretto a subire una determinazione legale del canone (Mazzeo, 25). Altri (Cuffaro, 977), invece, considerano pienamente legittima la limitazione, in capo al solo conduttore di immobile adibito ad uso di abitazione, della possibilità di sanare la propria morosità, poiché tale vantaggio risponde alla “ovvia finalità di tutelare la sua condizione di parte normalmente più debole del rapporto e di garantire il suo primario, e costituzionalmente garantito, diritto all'abitazione”; di contro, una simile finalità è del tutto assente nelle locazioni di immobili ad uso diverso, ove l'interesse del conduttore al godimento dell'immobile è considerato in relazione ad esigenze distinte, come quelle dell'economia e del lavoro autonomo (art. 27) e quelle della rilevanza di particolari attività tassativamente elencate (art. 42, comma 1), e ove all'interesse del conduttore è approntata una tutela differenziata (si pensi, ad esempio, al diritto di rinnovazione alla prima scadenza, alla prelazione e al riscatto, alla possibilità di cedere il contratto, al diritto all'indennità di avviamento, ecc.). Elemento quantitativoPassando, dunque, all'analisi degli elementi in cui si compone l'art. 5 della l. n. 392/1978, e prendendo le mosse da quello quantitativo, si osserva che la norma in commento – come sopra anticipato – correla l'inadempimento “qualificato” al mancato pagamento di una sola rata del canone (o di oneri accessori di importo superiore a due mensilità del canone). Sotto tale aspetto, si è un po' indugiato sull'inadempimento parziale, ossia se una morosità parziale possa consentire l'operatività della disposizione in commento. Parte della dottrina (Cosentino, Vitucci, 386) ha sostenuto la soluzione favorevole a tale conclusione; in senso contrario, si registra un'altra opinione (Lazzaro, Di Marzio, 442), in base alla quale la soluzione va ricercata nell'atteggiamento del locatore, nel senso che sussiste l'inadempimento – ex lege di non scarsa importanza – se il pagamento parziale sia stato rifiutato dal locatore (ex art. 1181 c.c.), giacché, essendo legittimo tale rifiuto, la vicenda si risolve, data la mancata accettazione di un adempimento parziale, nel totale inadempimento dell'obbligazione attinente alla corresponsione del canone; in altri termini, il locatore può legittimamente rifiutare un adempimento parziale del conduttore, facendone derivare un inadempimento totale a carico del debitore e, dunque, l'operatività della previsione contenuta all'art. 5 in commento, laddove questa sarebbe, invece, preclusa, in ipotesi di accettazione del pagamento parziale, da cui derivi la riduzione della morosità al di sotto della soglia legale. Deve trattarsi, ovviamente, di una “riduzione” arbitraria, in quanto il conduttore è obbligato soltanto per il dovuto: in quest'ottica, è fondamentale il disposto dell'art. 55 della l. n. 392/1978 che, nell'ammettere il pagamento dopo la domanda di risoluzione del contratto, lo limita al dovuto (e non al preteso); l'accettazione del pagamento parziale, invece, riducendo comunque il dovuto a misura inferiore ad una mensilità, comporta ex lege il venir meno della “gravità”, la quale non può essere ravvisata dal giudice, il cui potere valutativo è ormai superato dai meccanismi di valutazione legale; sarebbe contro la ratio legis – improntata al favor conductoris ed al salvataggio del contratto – opinare che, se la morosità coinvolge un canone, scatta automaticamente la risoluzione del contratto, mentre se, invece, non raggiunge quella soglia resta la possibilità di risoluzione secondo criteri ormai desueti che il legislatore dell'equo canone ha voluto superare (con l'ulteriore pericolo che siffatto sillogismo potrebbe essere esteso anche al termine di “comporto”). Anche la giurisprudenza si è mostrata divisa in ordine alla questione se la valutazione legale della “non scarsa” importanza dell'inadempimento trovi applicazione in caso di morosità parziale. Alla risposta in senso affermativo (Cass. III, n. 4477/1985), si oppone l'indirizzo per il quale la presunzione di “gravità” è applicabile soltanto in cui il mancato pagamento abbia riguardato l'intero canone e non già una parte di esso (Cass. III, n. 4520/1989; Cass. III, n. 3592/1981; Cass. III, n. 959/1980; Pret. Salerno 30 giugno 1998 è stato dell'avviso che l'art. 5 della l. n. 392/1978, per il quale il mancato pagamento del canone decorsi venti giorni dalla prevista scadenza costituisce motivo di risoluzione del contratto ai sensi dell'art. 1455 c.c., non consente al giudice alcuna valutazione dell'importanza dell'inadempimento, che è predeterminata in via autonoma dalla stessa norma, anche nel caso di inadempimento parziale e senza che rilevi l'eventuale fondatezza dell'eccezione relativa alla misura del canone, quando il conduttore abbia omesso il versamento dell'importo contestato; nel senso che, in caso di morosità parziale, la “gravità” dell'inadempimento resta affidata al giudice, v., nella giurisprudenza di merito, Pret. San Benedetto del Tronto 21 ottobre 1981). Per completezza, si ricorda che, ai fini dell'imposizione diretta, per le locazioni di immobili non abitativi, il legislatore tributario ha previsto la regola generale secondo cui i redditi fondiari sono imputati al possessore indipendentemente dalla loro percezione, sicché anche per il reddito da locazione non è richiesta, ai fini dell'imponibilità del canone, la materiale percezione del provento; pertanto, il relativo canone va dichiarato, ancorché non percepito, nella misura in cui risulta dal contratto di locazione fino a quando non intervenga una causa di risoluzione del contratto medesimo; solo con la risoluzione del contratto e/o la convalida di sfratto, la locazione cessa ed i canoni non possono più concorrere alla formazione del reddito d'impresa; resta fermo che i canoni maturati per competenza e non riscossi possono essere dedotti come perdite su crediti, se sia altrimenti dimostrata la certezza dell'insolvenza del conduttore debitore e, quindi, la deducibilità della perdita, non bastando a tal fine il semplice sfratto o l'accertamento giudiziale della morosità (Cass. V, n. 21621/2015). Ritardo tolleratoLa legge sull'equo canone si riferisce al pagamento del canone alla “scadenza prevista”, ossia contrattualmente convenuta, confermando così che il tempo del pagamento è lasciato alla disponibilità delle parti, anche se – a ben vedere – tale legge non riguarda le regole che disciplinano l'adempimento di questa obbligazione del conduttore, bensì la valutazione legale, in funzione del tempo, dell'inadempimento della stessa obbligazione (Cosentino, Vitucci, 139). Di solito, il canone convenuto viene frazionato in cadenze mensili, mentre appare di dubbia legittimità il patto in cui si convenga il pagamento in via anticipata dei canoni dovuti per tutta la durata del rapporto; d'altronde, gli artt. 23 e 25 della l. n. 392/1978 (ora abrogati), a proposito dell'integrazione e dell'adeguamento del canone, facevano riferimento a cadenze mensili; l'art. 11 fissa (tuttora) in misura non superiore a tre mensilità l'importo del deposito cauzionale; e lo stesso art. 5 correla la risoluzione del contratto al mancato pagamento del canone “decorsi venti giorni dalla scadenza” (inducendo a ritenere incompatibile un versamento totale anticipato), o il mancato pagamento degli oneri accessori che “superi due mensilità del canone”; anche l'art. 55 presuppone l'eventualità di canoni scaduti e l'art. 658 c.p.c. fa chiaro riferimento alle “scadenze” (in precedenza, l'art. 2-ter della l. n. 351/1974 stabiliva la nullità di clausole contrattuali che prevedevano la corresponsione anticipata del canone per periodi superiori a tre mesi). In argomento, si è avuto modo di puntualizzare che, riguardo alla decadenza del creditore dall'obbligazione fideiussoria per effetto della mancata tempestiva proposizione delle azioni contro il debitore principale, qualora il debito sia ripartito in “scadenze periodiche”, ciascuna delle quali dotata di un grado di autonomia tale da potersi considerare esigibili anche prima ed indipendentemente dalla prestazione complessiva, il dies a quo, agli effetti dell'art. 1957 c.c., va individuato in quello di scadenza delle singole prestazioni e non già dell'intero rapporto, in quanto scopo del termine di decadenza è quello di evitare che il fideiussore si trovi esposto all'aumento indiscriminato degli oneri inerenti alla sua garanzia, per non essersi il creditore tempestivamente attivato al primo manifestarsi dell'inadempimento, magari proprio contando sulla responsabilità solidale del fideiussore (Cass. III, n. 15902/2014: nella specie, si era ravvisata l'autonomia delle prestazioni aventi ad oggetto le singole rate del canone annuo pattuito per la locazione, anche considerando che la legge autorizza il locatore ad agire per la risoluzione del contratto decorsi venti giorni dalla scadenza del canone ineseguito). In termini generali, riguardo alla tolleranza del locatore, si è affermato che, trattandosi di contratto a prestazioni corrispettive, che abbisogna di forma scritta (ad substantiam per le locazioni abitative), la clausola che prevede la scadenza per il pagamento del canone non può essere derogata sulla base di un semplice comportamento passivo, che integra la tolleranza del locatore in caso di ritardi; pertanto, l'eventuale tolleranza di quest'ultimo, a fronte di una reiterata morosità del conduttore, e la sua inerzia nell'assumere iniziative di carattere giudiziario, non costituiscono acquiescenza al comportamento inadempiente del conduttore, essendo invece necessaria la sussistenza di elementi concreti e di atti inequivoci tali che, nel comportamento delle parti, possa individuarsi la volontà di derogare all'obbligo previsto in contratto (Cass. III, n. 11055/2002). Di contro (ad avviso di Cass. III, n. 16743/2021), integra abuso del diritto la condotta del locatore, il quale, dopo aver manifestato assoluta inerzia, per un periodo di tempo assai considerevole in relazione alla durata del contratto, rispetto alla facoltà di escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del canone dovutogli, così ingenerando nella controparte il ragionevole ed apprezzabile affidamento nella remissione del debito per facta concludentia, formuli un'improvvisa richiesta di integrale pagamento del corrispettivo maturato; ciò in quanto, anche nell'esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive e ad esecuzione continuata, trova applicazione il principio di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., quale canone generale di solidarietà integrativo della prestazione contrattualmente dovuta, che opera a prescindere da specifici vincoli contrattuali nonchè dal dovere negativo di neminem laedere e che impegna ciascuna delle parti a preservare l'interesse dell'altra nei limiti del proprio apprezzabile sacrificio. Con specifico riguardo al ritardo consentito dall'art. 5 della l. n. 392/1978, la tolleranza del locatore in ordine all'eventuale pagamento del canone a mezzo bonifico o accredito in conto corrente bancario, anziché presso il proprio domicilio in moneta avente corso legale, non implica – salvo prova contraria a carico del conduttore – la tolleranza ad ottenere la disponibilità della somma dovuta oltre il termine pattuito per il versamento del canone stesso, sicché, in difetto di quella prova, restano a carico del conduttore i rischi di eventuali ritardi o disguidi derivanti dall'utilizzazione del servizio bancario, pure se questo mezzo di pagamento sia permesso dal locatore (Cass. S.U., n. 12210/1990; cui adde Cass. III, n. 369/2000 e Cass. III, n. 9889/1995). Sempre sotto il profilo dell'elemento temporale, è stato reputato che la scadenza del termine di comporto in giorni di fine settimana in cui le banche sono chiuse, non può avere la conseguenza, ai fini della risoluzione del contratto, di prolungare detto termine di tolleranza, posto che la previsione di cui al citato art. 5 costituisce un'eccezione alla regola dettata dall'art. 1455 c.c. secondo cui l'inadempimento può dare causa alla risoluzione del contratto solo quando esso sia di non scarsa importanza (Trib. Milano 9 luglio 1998). Parimenti, restano a carico del conduttore l'eventuale malfunzionamento del servizio postale (Cass. III, n. 23695/2004). Sulle diverse modalità di pagamento del canone di locazione da parte del conduttore, e sui correlati riflessi concernenti segnatamente la tempestività del rispetto della sottesa obbligazione, la dottrina ha avuto modo di confrontarsi, discutendosi ancora della possibilità di versare il corrispettivo della locazione – salva l'eventuale accettazione o acquiescenza del locatore, da valutarsi caso per caso – a mezzo di vaglia postale, o di assegno di conto corrente, oppure di bonifico o accredito in conto corrente bancario, anziché presso il domicilio del locatore in moneta avente corso legale (Carbone, 35; Carrato 1996, 161; Chirico, 507; Colucci, 861; De Tilla 1999, I, 46; D'Ettore, 526; Giove 2000, 705). In proposito, si ricorda che l'art. 1, comma 50, della l. n. 147/2013, aveva aggiunto all'art. 12 del d.l. n. 201/2011 il comma 1, in base al quale i pagamenti riguardanti i canoni di locazione di unità abitative dovessero obbligatoriamente essere corrisposti, quale ne fosse l'importo, in “forme e modalità che escludano l'uso del contante e ne asseverino la tracciabilità”; la ratio legis doveva individuarsi nell'esigenza di arginare fenomeni di impiego occulto o di immissione nel sistema economico di risorse di provenienza illecita, così abbattendo il rischio insito nella velocità di circolazione del contante e nella difficoltà di ricondurre il contante utilizzato ad un soggetto determinato (Rezzonico, Rezzonico, 302); tale previsione è, però, stata abrogata dall'art. 1, comma 902, della l. n. 208/2015, c.d. legge di stabilità 2016, sicché, a decorrere dal 1° gennaio 2016, è possibile pagare il canone anche in contanti, fermo il limite di euro tremila (art. 1, comma 898). All'inverso, ove il ritardo nel pagamento si protragga per un periodo inferiore a venti giorni dalla scadenza prevista, oppure la somma dovuta per oneri accessori non superi l'importo di due mensilità del canone, l'inadempimento, pur sussistente, è automaticamente di scarsa importanza e non può comportare la risoluzione del contratto (Cass. III, n. 4598/1986). Nell'ottica codicistica, si è sottolineato che il pagamento dei canoni successivo alla scadenza prevista dal contratto, avvenuto nel corso del giudizio di risoluzione, se impedisce la convalida dello sfratto perché viene meno la morosità, non impedisce all'intimante di chiedere la risoluzione per inadempimento (Trib. Lecce 7 marzo 2017); al contempo, la tolleranza abituale del locatore nei confronti dell'omesso pagamento, da parte del conduttore, dei canoni di locazione alle scadenze pattuite, esclude la colpa di quest'ultimo e, conseguentemente, la risoluzione del contratto, solo allorquando il locatore non abbia chiesto giudizialmente la risoluzione medesima, giacché, una volta avanzata tale richiesta, il termine ultimo entro il quale il conduttore-convenuto ha facoltà di purgare la mora è quello della notifica della citazione, sicché il pagamento eseguito dopo tale data non esplica alcuna efficacia impeditiva della declaratoria di risoluzione (Trib. Genova 6 marzo 1987, aggiungendo che tale principio trova, però, un contemperamento nell'art. 55 della l. n. 392/1978, secondo il quale la morosità può essere sanata anche in sede giudiziaria, ma ciò è condizionato al fatto non solo del versamento, alla prima udienza, dell'importo per il canone o i canoni scaduti, ma, altresì degli interessi legali e delle spese processuali liquidate in tale sede dal giudice). Secondo altro giudice del merito (Trib. Firenze 4 febbraio 2016), tuttavia, ai fini della pronuncia costitutiva di risoluzione del contratto per morosità del conduttore, il giudice deve valutare la gravità dell'inadempimento di quest'ultimo anche alla stregua del suo comportamento successivo alla proposizione della domanda, perché, in tal caso – come accade per tutti i contratti di durata, in cui la parte che abbia domandato la risoluzione non è posta in condizione di sospendere a sua volta l'adempimento della propria obbligazione – non è neppure ipotizzabile il venir meno dell'interesse del locatore all'adempimento da parte del conduttore inadempiente, il quale, senza che il locatore possa impedirlo, continua nel godimento della cosa locata consegnatagli dal locatore ed è tenuto, ai sensi dell'art. 1591 c.c., a dare al locatore il corrispettivo convenuto, salvo l'obbligo di risarcire il maggiore danno fino alla riconsegna. Non sempre il pagamento in corso di causa dei canoni di locazione scaduti esclude la valutazione, da parte del giudice del merito, circa la gravità dell'inadempimento del conduttore, specie quando l'inadempimento sia stato preceduto da altri prolungati, reiterati e ravvicinati ritardi nel pagamento del canone medesimo (Cass. III, n. 18500/2012; Cass. III, n. 8550/1999); nemmeno è sufficiente, ad evitare la declaratoria di risoluzione per inadempimento, l'offerta formale di pagamento del canone mediante deposito in libretto bancario rimasto nella disponibilità del conduttore (Cass. III, n. 15352/2006). Al contrario, se l'inadempimento del conduttore non era grave al momento della domanda di risoluzione proposta dal locatore, ma si aggravi in corso di causa, ciò è rilevante ai fini dell'accoglimento della domanda di risoluzione (Cass. III, n. 18500/2012); il comportamento tenuto dal conduttore, successivamente alla proposizione della domanda di risoluzione del contratto, va comunque valutato positivamente in presenza di situazioni di per sé non eccessivamente gravi (Cass. III, n. 6518/2004: nella specie, la morosità del conduttore riguardava solo una mensilità di canone, e questi ne aveva offerto il pagamento in udienza, oltre alle spese del giudizio, per cui si è ritenuto non grave l'inadempimento). Ad ogni buon conto, la valutazione sull'esistenza, o meno, di una prassi di tolleranza del ritardo nel pagamento dei canoni locativi costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità ed il mancato esercizio, da parte del locatore, del potere potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l'inadempimento del locatario, in virtù della previsione di una clausola risolutiva espressa, è l'effetto conformante della buona fede nella fase esecutiva del detto contratto; pertanto, il rispetto di tale principio impone che lo stesso locatore, contestualmente o anche successivamente all'atto di tolleranza, manifesti la sua volontà di avvalersi della menzionata clausola risolutiva espressa in caso di ulteriore protrazione dell'inadempimento e comunque per il futuro (Cass. III, n. 14240/2020). Anche se in materia di locazioni non abitative, ma con principi esportabili in questa sede, si è precisato che la condotta del locatore che, dopo essere stato inerte nell'escutere il conduttore - anche se per un fatto a lui imputabile e per un tempo tale da far ragionevolmente ritenere al debitore che il diritto non sarà più esercitato - richiede l'integrale pagamento dei canoni maturati non è sufficiente ad integrare un contegno concludente da cui desumere univocamente la tacita volontà di rinunciare al diritto, né rappresenta un caso di abuso del diritto, perché il semplice ritardo di una parte nell'esercizio delle proprie prerogative può dar luogo ad una violazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto soltanto se, non rispondendo ad alcun interesse del suo titolare, si traduce in un danno per la controparte (Cass. III, n. 11219/2024). Profilo soggettivoAccanto ai summenzionati elementi quantitativi e temporali, contenuti ex professo nell'art. 5 della l. n. 392/1978, la giurisprudenza ha aggiunto un requisito soggettivo. Sul punto, un importante arresto dei giudici di legittimità (Cass. III, n. 5191/1998) ha svolto puntuali ed utili osservazioni sul persistente rilievo, pur nel quadro di applicazione dell'art. 5 citato, della colpevolezza della mora debendi (nella specie, si era confermata la decisione di merito la quale aveva escluso la sussistenza del dolo e della colpa, ravvisando nel comportamento del conduttore un'offerta non formale della prestazione ex art. 1220 c.c., osservando che l'invio del canone a mezzo di assegni circolari fosse indicativo della seria volontà del conduttore di adempiere la sua obbligazione, tanto più che, in precedenza, i locatori non avevano rifiutato la suddetta forma di pagamento; v., in senso conforme, Cass. III, n. 8418/2006, la quale, in una fattispecie in cui il conduttore aveva corrisposto il canone mediante vaglia postale, pervenuto in ritardo al locatore per un disguido attribuibile all'ufficio postale, ha escluso la sussistenza del dolo o della colpa, rilevando la correttezza della motivazione con cui il giudice di merito, con un congruo accertamento di fatto, aveva valutato le dichiarazioni dell'ufficiale postale prodotte agli atti, conseguendone che la presunzione di colpa risultava superata dalla prova contraria). Invero, la risoluzione per morosità (nel pagamento dei canoni o degli oneri accessori) del contratto di locazione, alla stregua della disciplina codicistica, soggiace al principio generale in virtù del quale, per l'esistenza della mora debendi, occorre che l'inadempimento sia imputabile a titolo di dolo o di colpa e, inoltre, al principio, posto dall'art. 1455 c.c., secondo cui i contratti a prestazioni corrispettive non possono essere risolti se l'inadempimento abbia scarsa importanza nell'economia del contratto; in altri termini, sussiste la necessaria concorrenza di un elemento soggettivo (imputabilità della condotta a colpa o dolo) e di un elemento oggettivo (importanza dell'inadempimento). Si deve prendere atto che, in subiecta materia, ha significativamente inciso la l. n. 392/1978, recante la nuova disciplina organica delle locazioni di immobili urbani, che, all'art. 5, ha dettato una specifica disposizione in tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore all'obbligo di pagare il canone (e gli oneri accessori), statuendo che il mancato pagamento del canone, decorsi venti giorni dalla scadenza prevista, oppure il mancato pagamento, nel termine previsto, degli oneri accessori, quando l'importo non pagato superi quello di due mensilità del canone, “costituisce motivo di risoluzione, ai sensi dell'art. 1455 c.c.”. Con la menzionata disposizione, il legislatore ha, pertanto, predeterminato legalmente, con riferimento all'obbligazione di pagare il canone (e gli oneri accessori), la valutazione circa l'importanza dell'inadempimento, in relazione all'interesse del locatore insoddisfatto, mediante la previsione – v. anche supra – di un parametro ancorato a due elementi, uno di ordine quantitativo, afferente al mancato pagamento di una sola rata del canone (o al mancato pagamento di oneri accessori di importo superiore a due mensilità del canone), e l'altro di ordine temporale, relativo al ritardo consentito o tollerato, fissato in venti giorni dalle previste scadenze. Al riguardo, la magistratura di vertice è, infatti, uniforme nel ritenere che, alla stregua della suindicata disposizione, la valutazione circa la gravità dell'inadempimento, ai fini della risoluzione del contratto per morosità del conduttore, è ormai effettuata in via automatica dalla legge (v., tra le altre, Cass. III, n. 3791/1987; Cass. III, n. 4474/1985). Tuttavia, la disciplina della risoluzione del contratto di locazione per morosità del conduttore risulta innovata, rispetto alle previsioni del codice civile, esclusivamente sotto il profilo della valutazione di uno degli elementi costitutivi della fattispecie, e precisamente in relazione all'elemento “oggettivo” dell'importanza dell'inadempimento, mentre non riguarda in alcun modo l'ulteriore elemento “soggettivo”, che concorre ad integrare la fattispecie, e cioè l'imputabilità dell'inadempimento a dolo o colpa, nel senso che non opera più, in materia, l'art. 1455 c.c., che affidava al prudente apprezzamento del giudice lo stabilire se l'inadempimento avesse o meno “scarsa importanza”, poiché il legislatore ha predefinito, con l'art. 5 della l. n. 392/1978, gli estremi obbiettivi della morosità “grave”, suscettibile di dare luogo alla risoluzione. In ragione della menzionata disciplina, la pronuncia di risoluzione per morosità del conduttore non può, però, essere ritenuta “automaticamente” consequenziale al mero accertamento della realizzazione della suindicata fattispecie legale, poiché la norma, come emerge dal suo tenore letterale e dal richiamo espresso all'art. 1455 c.c., attiene esclusivamente alla valutazione legale concernente l'aspetto oggettivo dell'inadempimento rilevante ai fini della risoluzione, e cioè l'importanza del medesimo. Pertanto, la discrezionalità del giudice, investito della domanda di risoluzione per morosità di un contratto di locazione, non ha modo di esplicarsi, per effetto del menzionato art. 5 della l. n. 392/1978, esclusivamente in relazione alla valutazione dell'importanza dell'inadempimento, poiché nessuna preclusione sussiste circa la valutazione relativa alla colpevolezza della mora debendi. In buona sostanza, l'importanza dell'inadempimento è operata ex lege, anche se – in un estremo tentativo di salvataggio del rapporto – è consentito al conduttore, in deroga al disposto dell'ultimo comma dell'art. 1453 c.c., di evitare la risoluzione del contratto utilizzando la sanatoria prevista dall'art. 55 della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 8418/2006; Cass. III, n. 5191/1998; Cass. III, n. 6131/1995; Cass. III, n. 9805/1994; Cass. III, n. 3791/1987; Cass. III, n. 524/1986). Per altro verso – si sottolinea (Carrato, Scarpa, 142) – che l'obbligazione del debitore presuppone sempre la collaborazione del creditore nel ricevere la prestazione dovuta; quindi, se l'obbligazione principale del conduttore è quella di dare il corrispettivo nei termini convenuti, ha di certo rilevanza il comportamento tenuto dalla parte con riferimento alle modalità di esecuzione dell'obbligazione stessa, dovendo il contratto essere eseguito secondo buona fede, segnatamente in occasione di vicende comportanti modifiche soggettive del rapporto locatizio (in quest'ordine di concetti, è condivisibile Cass. III, n. 12328/1997, secondo cui, se nel corso di un rapporto di locazione decede uno dei locatori, gli eredi di esso, per pretendere il pagamento del canone, hanno l'onere di dimostrare la loro legittimazione, perché la modifica soggettiva del contratto, innovando sulle modalità di adempimento ex art. 1362, comma 2, c.c., determina uno stato di incertezza per il conduttore che il creditore ha l'onere di rimuovere, onde rendere possibile la prestazione, in attuazione del principio di buona fede nell'esecuzione del contratto, mentre, in mancanza dell'assolvimento di tale onere di collaborazione è giustificato il rifiuto del conduttore di pagare il corrispettivo ai nuovi contitolari del diritto, ed è invece idonea a costituire la mora accipiendi l'offerta del canone all'originario contitolare del relativo diritto). Resta, comunque, fermo il principio secondo cui, nei contratti con prestazioni corrispettive, qualora una delle parti adduca, a giustificazione della propria inadempienza, l'inadempimento o la mancata offerta di adempimento dell'altra, il giudice deve procedere alla valutazione comparativa dei comportamenti, tenendo conto non solo dell'elemento cronologico, ma anche e soprattutto dei rapporti di causalità e proporzionalità esistenti tra le prestazioni inadempiute e dell'incidenza di queste sulla funzione economico-sociale del contratto (Cass. III, n. 5682/2001: nella specie, alla stregua del suindicato principio, si era confermata la decisione di merito che aveva ritenuto legittima la sospensione del pagamento del canone da parte del conduttore di immobile adibito ad esposizione commerciale, a fronte dell'inadempimento del locatore all'obbligo di provvedere alla manutenzione dell'immobile stesso, danneggiato da infiltrazioni di acqua causate dalla rottura del vaso di espansione dell'impianto di riscaldamento, le quali avevano determinato la completa inutilizzabilità dell'immobile locato). Per completezza sul versante soggettivo, va ricordato che l'art. 6, comma 5, del d.l. n. 102/2013, convertito con modificazioni nella l. n. 124/2013, ha introdotto la fattispecie della morosità “incolpevole”, contemplando, presso il Ministero delle Infrastrutture, un fondo ad hoc al quale possono accedere, mediante la concessione di contributi da parte dei Comuni, i conduttori che versano nelle situazioni tassativamente definite dal successivo art. 2 del decreto dello stesso Ministero. In pratica, una volta accertata giudizialmente la morosità, è previsto che il contributo concesso possa sanarla, qualora sussista la situazione di sopravvenuta impossibilità di provvedere al pagamento del canone, in ragione della perdita o della consistente riduzione della capacità reddituale del nucleo familiare (ad esempio, a seguito della cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento); trattasi di una novità rilevante rispetto ai tradizionali principi civilistici, la cui portata va essenzialmente rinvenuta nell'attenuazione e derubricazione (così Scripelliti 2015, 358) dell'impossibilità di cui all'art. 1218 c.c. a difficoltà di pagamento a causa di ragioni altrimenti irrilevanti (si pensi alla mancanza di denaro dovuta ad eventi involontari). Va segnalato che, riguardo alla situazione emergenziale dovuta al coronavirus, l’art. 91 del d.l. n. 18/2020 (c.d. cura Italia), convertito in l. n. 27/2020, ha previsto che il rispetto delle misure di contenimento deve essere sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1218 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti (con evidenti riflessi anche per quanto concerne la morosità del conduttore). Da ricordare, altresì, sia pure con riferimento alle sole locazioni commerciali, sempre riguardo alla situazione epidemiologica da covid-19, che il Governo ha introdotto un bonus sugli affitti di tutto coloro che sono stati costretti a ridurre l’attività, se non addirittura a chiudere i battenti, prevedendo, in particolare, un’agevolazione concessa sotto forma di un credito d’imposta nella misura del 60% dell’ammontare del canone di locazione. Oneri accessoriIl rilievo assunto dalla “voce” oneri accessori nell'economia del rapporto aveva già portato al conformarsi di una giurisprudenza, secondo la quale, a giustificare la risoluzione della locazione, non era necessario che l'inadempimento del conduttore si fosse concretato nella mancata corresponsione del canone, essendo sufficiente anche la reiterata e colpevole inadempienza nel pagamento delle spese relative a servizi accessori, sempreché assumesse carattere di gravità (Cass. III, n. 1463/1983; Cass. III, n. 4900/1979). Con l'art. 5 in esame – come la dottrina ha immediatamente evidenziato (Benedetti, Vettori, 80; Razza 1987, 878; Ribaldone, 33) – anche l'obbligazione del conduttore concernente il pagamento (rectius, il rimborso) di tali spese è divenuta parte integrante della struttura sinallagmatica del contratto, con la conseguenza che il suo inadempimento è idoneo a sorreggere la risoluzione del contratto stesso. Secondo l'indirizzo maggioritario, gli artt. 5 e 55 della l. n. 392/1978 hanno introdotto, in ordine alla gravità dell'inadempimento predeterminata ex lege, alla possibilità della sanatoria ed alla concessione del termine di grazia, “un'equiparazione fra canone di locazione ed oneri accessori”, con la conseguenza che anche la morosità per soli oneri accessori può essere dedotta in giudizio con lo speciale procedimento di convalida ex art. 658 c.p.c. (Cass. III, n. 9805/1994; Cass. III, n. 10776/1993; Cass. III, n. 1835/1989; Cass. III, n. 4942/1988; Cass. III, n. 6535/1987; Cass. III, n. 1066/1987; Cass. III, n. 4490/1982, salvo sempre per il conduttore il potere di paralizzare tale domanda con l'eccezione di inadempimento per non avere ottenuto dal locatore l'indicazione specifica delle spese condominiali e non aver potuto esercitare la facoltà di prendere visione dei relativi documenti giustificativi; anche secondo App. Napoli 14 giugno 1988, è ammissibile la domanda proposta con il procedimento della convalida di sfratto per morosità nel caso di mancato assolvimento degli oneri accessori gravanti sul conduttore). Anche l'orientamento prevalente della giurisprudenza più recente è nel senso che il pagamento degli oneri accessori è parte del sinallagma contrattuale, in quanto, nella nozione di “corrispettivo convenuto” di cui all'art. 1591 c.c., deve essere ricompresa ogni obbligazione pecuniaria pattuita e, quindi, anche gli oneri accessori condominiali posti convenzionalmente a carico del solo conduttore (Cass. III, n. 17201/2002); comunque, l'equiparazione tra i canoni e gli oneri accessori, ai fini della risoluzione per inadempimento, comporta che il solo pagamento dei primi e non anche degli oneri accessori, non vale a sanare la morosità ai sensi dell'art. 55 della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 11367/1996). In tal modo, il legislatore dell'equo canone ha determinato una soluzione di continuità rispetto alla legislazione previgente, nel senso che l'obbligazione concernente il pagamento degli oneri accessori – considerata nella previgente disciplina autonoma rispetto a quella attinente al pagamento del canone – è divenuta “parte integrante della struttura sinallagmatica del contratto”, sicché il suo inadempimento, ove superiore a due mensilità del canone (alle scadenze ivi previste, e non dopo venti giorni dalla scadenza), dà al locatore il diritto di ottenere la risoluzione del contratto di locazione, potendo altresì accedere alla procedura monitoria ex art. 658 c.p.c. Sotto quest'ultimo profilo, anche i giudici della Consulta, nel disattendere un'eccezione di incostituzionalità formulata sul presupposto dell'impossibilità di far valere la morosità per oneri nel procedimento per convalida, ha preso atto del prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, da considerarsi diritto vivente (Corte cost., n. 377/1988). Invero, la magistratura di vertice, superando il proprio iniziale diverso indirizzo, si è, poi, ripetutamente pronunciata nel senso di ammettere il ricorso alla procedura di sfratto per morosità, aldilà della stessa dizione letterale dell'art. 658 c.p.c. anche nel caso di mancato pagamento degli oneri accessori della locazione, considerando appunto che questi, ormai, sono divenuti “parte essenziale nel quadro sinallagmatico del contratto e, come tali, parificati, anche nel trattamento processuale, al canone di locazione”. Riguardo all'utilizzabilità del procedimento per convalida di sfratto per morosità anche nel caso di mancato pagamento degli oneri accessori, la dottrina è divisa (Cavallo, 1168, sottolinea il carattere eccezionale dell'art. 658 c.p.c.; sostanzialmente favorevole si mostra, invece, Barbieri, 208). Sul punto, si contrappone un indirizzo dottrinale più restrittivo, osservando che l'obbligazione accessoria di rimborsare le spese sostenute dal locatore per la fornitura dei servizi non rientra nel concetto di canone, ma si pone come obbligo accessorio ed ulteriore, estraneo al sinallagma contrattuale, sicché deve escludersi l'ammissibilità del procedimento per convalida, nel caso in cui sia lamentato esclusivamente l'omesso pagamento di spese e servizi; d'altronde – si è soggiunto – la procedura per convalida è consentita solo per l'inadempimento del debito per il “canone”, e non è possibile applicarla estensivamente in relazione ad altre inadempienze; inoltre, è logico e comprensibile che il legislatore si sia riferito esclusivamente al suddetto canone, trattandosi di somma il cui ammontare è esattamente indicato dal contratto, di guisa che, in difetto di opposizione, il giudice può sanzionare l'affermazione dell'intimante, senza necessità di particolari indagini, mentre, al contrario, le spese per i servizi sono, di norma, illiquide ed il loro importo deve, quindi, essere dimostrato dal locatore con documenti o prove testimoniali, il che appare incompatibile con la sommarietà del procedimento (Lazzaro, Preden, Varrone 1978, 57). Una parte della giurisprudenza di legittimità – aderendo a tale tesi – si è parimenti espressa nel senso dell'inammissibilità del procedimento per convalida di sfratto per morosità nel pagamento degli oneri accessori (Cass. III, n. 7745/1986). Si è sottolineato, in proposito, che il procedimento de quo è predisposto per i casi di “mancato pagamento del canone di affitto” (art. 658 c.p.c.), sicché esso attiene ai rimedi dell'inadempimento dell'obbligazione principale del conduttore, quella diretta a compensare il locatore del far godere all'altro la res indicata nel contratto; il procedimento medesimo non riguarda, quindi, i casi di mancato assolvimento degli ‘”oneri accessori” gravanti sul conduttore, i quali non si traducono in compensi per il locatore; inoltre, il procedimento per convalida integra un rito speciale, che si pone come eccezione all'ordinario processo di cognizione, sicché la relativa normativa non è applicabile per analogia (art. 14 disp. prel. c.c.); in molti casi, poi, quell'estensione comporterebbe persino un adattamento del rito alla particolarità della fattispecie inglobata per analogia – operazione di “plastica legislativa” non consentita alla giurisprudenza – rendendosi necessaria, da parte del giudice, una verifica che eccede dal ristretto àmbito documentale del contratto di locazione per estendersi ad altre fonti probatorie, quali le deliberazioni sulle spese e sui criteri di ripartizione, la comunicazione fattane al conduttore e la richiesta di pagamento. Ci si è interrogati, altresì, se la previsione dell'art. 5 della l. n. 392/1978 potesse considerarsi incostituzionale, per contrasto con l'art. 3 Cost., alla luce di una pretesa disparità di trattamento sancita dal legislatore con riferimento all'ipotesi di mancato pagamento degli oneri accessori: ipotesi equiparata, agli effetti della risoluzione, al mancato pagamento del canone, ma differentemente disciplinata quanto all'importo, che – come si è visto – deve risultare superiore a quello di due canoni. Il profilo di incostituzionalità è stato, però, ritenuto dai magistrati del Palazzaccio “manifestamente infondato”, sul rilievo che il canone di locazione, ponendosi in rapporto di corrispettività con la prestazione del locatore, integra, con quest'ultima, la causa onerosa del contratto, mentre gli oneri accessori – che costituiscono un mero rimborso spese anticipate dal locatore – si collocano fuori dal sinallagma contrattuale, cui appaiono, a ben vedere, solo indirettamente riferibili, così che il mancato pagamento degli stessi determina un vizio funzionale della causa negotii soltanto quando l'importo non pagato sia talmente elevato da alterare apprezzabilmente l'equilibrio delle reciproche prestazioni, sopprimendo l'interesse oggettivo del locatore alla prosecuzione del rapporto (Cass. III, n. 12769/1998). Riguardo alla corretta individuazione della “mora” del conduttore in ordine al pagamento degli oneri accessori in favore del locatore “nel termine previsto”, si rinvia al commento dell'art. 9 della l. n. 392/1978; vale la pena riportare, in proposito, un'interessante pronuncia di merito (Trib. Monza-Desio 15 gennaio 2003), secondo la cui la disposizione del comma 3 del citato art. 9 della l. n. 392/1978 – la quale fa obbligo al conduttore di pagare gli oneri condominiali entro due mesi dalla loro richiesta – delimita entro il medesimo periodo il termine massimo entro il quale il conduttore può esercitare il suo diritto di chiedere l'indicazione specifica delle spese e dei criteri di ripartizione, nonché di prendere visione dei documenti giustificativi, conseguendone che non essendovi, in mancanza di una siffatta istanza del conduttore, alcun onere di comunicazione del locatore, il conduttore stesso, decorsi i due mesi dalla richiesta di pagamento degli oneri condominiali, deve ritenersi automaticamente in mora alla stregua del principio dies interpellat pro homine e non può, quindi, sospendere, ridurre o ritardare il pagamento degli oneri accessori, adducendo che la richiesta del locatore non era accompagnata dall'indicazione delle spese e dei criteri di ripartizione (v., altresì, Pret. Sorrento 9 febbraio 1990, ad avviso del quale la morosità del conduttore legittimante la risoluzione del contratto si concretizza decorsi due mesi dal momento in cui il locatore abbia presentato al conduttore domanda di pagamento degli oneri condominiali e, ove questi ne abbia fatta richiesta, gli abbia rimesso la distinta con l'indicazione specifica delle spese; in senso analogo, v. Pret. Firenze 12 dicembre 1987, il quale ha puntualizzato che, a fronte della richiesta del locatore relativa al pagamento degli oneri accessori, il conduttore è legittimato, ai sensi dell'art. 9, a chiedere spiegazioni e chiarimenti nonché a visionare i documenti giustificativi di spesa presso l'amministratore dello stabile, ma tale diritto del conduttore deve essere esercitato entro il termine di due mesi dalla richiesta effettuata dal locatore e ciò per la correlazione esistente fra il precitato art. 9 e l'art. 5 della legge sull'equo canone); al contempo, non può essere dichiarata la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento a causa della mancata corresponsione da parte del conduttore degli oneri accessori qualora il locatore non abbia trasmesso al conduttore le specifiche delle spese con la menzione dei criteri di ripartizione di cui al summenzionato art. 9 (Pret. Morbegno 10 marzo 1987). Autoriduzione del canoneA questo punto, appare opportuno prendere in rassegna alcune situazioni che la prassi ha registrato, segnatamente riguardo alle particolari modalità/tempistiche concernenti il pagamento del canone nonché alle “voci di spesa” ad esso correlate (richiamando anche quanto sopra delineato). Nella tematica relativa al rilievo dell'inadempimento parziale, rapportato all'art. 5 della l. n. 392/1978, si innesta il tema dell'ammissibilità dell'autoriduzione del canone, in base alla quale il conduttore, convinto di corrispondere un canone superiore a quello dovuto, lo versi con decisione unilaterale nella misura che reputa debita (o, per converso, allorché il conduttore versi al locatore un importo inferiore rispetto a quello pattuito, nella convinzione della non debenza dell'eccedenza). Nell'àmbito del regime vincolistico, il supremo organo di nomofilachia (Cass. S.U., n. 5384/1984) – componendo il contrasto creatosi sul punto – aveva statuito che tale comportamento, ove non fosse ancora intervenuto l'accertamento giudiziale del canone legale e, quindi, la sostituzione della clausola legale (di determinazione del canone) a quella convenzionale, costituiva un “fatto arbitrario ed illegittimo”, in quanto provocava il venir meno dell'equilibrio sinallagmatico convenzionale, restando, poi, affidata al giudice la valutazione dell'importanza di tale squilibrio, avuto riguardo all'interesse del locatore. Tale principio è stato sostanzialmente recepito da talune pronunce di legittimità anche con riguardo alla l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 17161/2002; Cass. III, n. 10271/2002; Cass. III, n. 12253/1998, aggiungendo che, peraltro, il deposito dei canoni locativi su un libretto bancario o postale, non consegnato né messo a disposizione del locatore, non integra offerta non formale idonea ad escludere l'inadempimento del conduttore.; Cass. III, n. 9873/1990; Cass. III, n. 6403/1990; Cass. III, n. 4520/1989; Cass. III, n. 4382/1987; Cass. III, n. 2221/1987): pertanto, relativamente alla rilevanza dell'inadempimento parziale, allorché venga accertato giudizialmente che il canone legale era superiore a quello unilateralmente determinato dal conduttore, ancorché accettato dal locatore, si deve ritenere che al giudice resti preclusa ogni valutazione (ex art. 1455 c.c.) e che occorra fare applicazione dei criteri di cui all'art. 5 della l. n. 392/1978, nel senso che si avrà inadempienza “grave” ex lege se, al momento della citazione, il debito sia pari ad un rateo di canone, mentre, ove non raggiunga tale entità, l'inadempienza non potrà, invece, sorreggere la risoluzione del contratto, per valutazione legislativa. In pratica, il conduttore ha il potere di autoridurre il canone – siccome pattuito in maniera superiore a quella legale – solo previa introduzione del giudizio di determinazione dell'importo effettivamente dovuto, in mancanza del quale l'autoriduzione è illegittima, provocando il venir meno dell'equilibrio sinallagmatico convenzionale, che costituisce comportamento inadempiente valutabile ai fini della risoluzione del contratto (Esposito, 459). Tale rigidità legale, tuttavia, appare mitigata dall'ultimo comma dell'art. 45 della l. n. 392/1978 – disposizione da ritenersi tuttora in vigore, essendo sopravvissuta alla successive amputazioni che la norma ha subìto – ponendo opinarsi che siffatta disposizione (“fino al termine del giudizio il conduttore è obbligato a corrispondere, salvo conguaglio, l'importo non contestato”) ponga un'eccezione alla predeterminazione ex lege della “gravità” dell'inadempimento nel senso considerato, attribuendo al conduttore “espressamente la facoltà di limitare il versamento del corrispettivo, per tutta la durata del giudizio, alla misura che reputa dovuta, purché, al fine di evitare la sanzione risolutiva per inadempienza da morosità, la stessa sia ragionevole, non temeraria e, comunque, congrua” (così Cass. III, n. 132/1984; cui adde Cass. III, n. 9548/2010; Cass. III, n. 9873/1990). Invero, l'art. 45, ultimo comma, della l. n. 392/1978 consente al conduttore, nella pendenza del giudizio sulla determinazione dell'equo canone, di corrispondere, salvo conguaglio, l'importo non contestato, sì da assicurare, con l'autoriduzione del canone, una forma di autotutela che, se realizzata in misura ragionevole, non temeraria e, comunque, congrua, non concreta morosità, mentre, al di fuori di questo àmbito, integra un inadempimento che, in relazione alla sua qualificazione in termini di importanza, è idoneo a produrre effetti risolutori (Lazzaro, Di Marzio, 443). Resta inteso, dunque, che il menzionato congegno trova applicazione esclusivamente in pendenza del giudizio, concretandosi, altrimenti, in un inadempimento dell'obbligazione di pagamento del canone (Cass. III, n. 12915/2015; Cass. III, n. 7269/2000; Cass. III, n. 1870/1997). Al riguardo, si osserva che l'autoriduzione del canone di locazione costituisce una forma di autotutela riconosciuta al conduttore nell'àmbito del giudizio di determinazione dell'equo canone, ma al di fuori di questo concreta un inadempimento che, in relazione alla sua qualificazione in termini di importanza, è idoneo a produrre effetti risolutori; in buona sostanza, qualora, in esito al giudizio, risulti una morosità inferiore al limite quantitativo dell'art. 5 della l. n. 392/1978, non si potrà mai dar luogo alla risoluzione del contratto, mentre, ove tale livello sia superato, il conduttore sarà tenuto al solo conguaglio se la sua autotutela appaia giustificata, scattando altrimenti la sanzione della risoluzione, per cui la valutazione del giudice resta limitata alla colpevolezza del comportamento del conduttore. Dunque, di regola, il pagamento del canone in misura inferiore a quella convenzionalmente stabilita integra inadempimento grave secondo la valutazione fattane dal legislatore, anche se il conduttore abbia ritenuto di giustificare il suo comportamento con il fatto di essere titolare di un credito per restituzione di somme pagate in più del dovuto (Cass. III, n. 12527/2000; v., nella giurisprudenza di merito, Pret. Salerno-Eboli 6 giugno 1991, secondo cui il conduttore convenuto per la risoluzione del contratto per morosità non può opporre l'insussistenza dell'inadempimento, adducendo di aver versato il canone legalmente dovuto, autoriducendo il canone convenzionale in corso di corresponsione, né può affermare di aver sospeso totalmente il pagamento dei canoni a pretesi fini compensativi di un suo credito verso il locatore per canoni asseritamente ceduti in eccesso rispetto all'importo dovuto, né, in merito, può il giudice accertare d'ufficio in via incidentale l'effettiva misura del canone legale, essendo il relativo accertamento riservato alla cognizione del magistrato a seguito di ordinaria azione di accertamento, per cui, nel caso dell'indicato comportamento da parte del locatario, sussiste la morosità al fine della risoluzione del contratto e, quindi, della convalida dell'intimato sfratto; e ancora, Trib. Catanzaro 12 marzo 1987, ad avviso del quale, in tema di risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, il pagamento parziale del canone rispetto a quello effettivamente dovuto si profila come inadempimento oggettivamente grave, tale da giustificare una dichiarazione di risoluzione contrattuale in relazione all'entità ed al suo protrarsi nel tempo: nella specie, il conduttore continuava a versare il canone in misura ridotta, e benché sollecitato con due lettere raccomandate a regolarizzare la posizione, non aveva inteso aderire all'invito). L'inadempimento del conduttore potrebbe, però, trovare valida giustificazione in un altrettanto grave inadempimento del locatore, come, ad esempio, la presenza nell'immobile di gravi vizi, in modo da escludere la risoluzione del contratto per morosità (Cass. III, n. 5682/2000). Pertanto, la c.d. autoriduzione del canone costituisce fatto arbitrario ed illegittimo del conduttore, che provoca il venir meno dell'equilibrio sinallagmatico del negozio, anche nell'ipotesi in cui detta autoriduzione sia stata effettuata dal conduttore per ripristinare l'equilibrio del contratto, turbato dall'inadempimento del locatore e consistente nei vizi della cosa locata; tale norma, infatti, non dà facoltà al conduttore di operare detta autoriduzione, ma solo a domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, essendo devoluto al potere del giudice di valutare l'importanza dello squilibrio tra le prestazioni dei contraenti (Cass. III, n. 10639/2012). In relazione all'oggettiva proporzione dei rispettivi inadempimenti, con riferimento all'intero equilibrio del contratto e all'obbligo di comportarsi secondo buona fede – essendo diverso, ovviamente, il caso in cui venga completamente a mancare la prestazione del locatore, come ad esempio qualora sia omessa la consegna della cosa locata – se il conduttore ha continuato a godere dell'immobile sebbene non pienamente a causa dei vizi della cosa imputabili al locatore, non è giustificabile a norma dell'art. 1460, comma 2, c.c., il rifiuto di prestare l'intero canone, potendo al più giustificarsi una riduzione dello stesso che sia proporzionata all'entità del mancato godimento, in analogia a quanto previsto dall'art. 1584 c.c. (Cass. III, n. 13887/2011; Cass. III, n. 261/2008; Cass. III, n. 13133/2006; Cass. III, n. 14739/2005; Cass. III, n. 2855/2005: Cass. III, n. 3341/2001). Aggiornamento I.S.T.A.T.È stato rilevato che, dovendo il conduttore versare l'intero “prezzo”, il mancato pagamento del “maggior” canone che, nel corso del tempo, si renda dovuto in applicazione dell'aggiornamento I.S.T.A.T. – non più ex art. 24 della l. n. 392/1978 perché abrogato dall'art. 14 della l. n. 431/1998, ma ancora legittimo se contrattualmente pattuito – ove assuma, sotto il profilo sia temporale che quantitativo, le proporzioni di cui all'art. 5 di detta legge, configura un'inadempienza tale da giustificare la risoluzione del contratto (Lo Cascio, 52). Invero, in difetto dell'accertamento giudiziale dell'illegittimità della clausola contrattuale che prevede l'aggiornamento I.S.T.A.T., la mancata corresponsione di esso, ove protratta per lungo tempo con conseguente alterazione dell'equilibrio sinallagmatico, configura un grave inadempimento idoneo a giustificare la risoluzione del contratto, a nulla rilevando il mero convincimento del conduttore di non dovere detta maggiorazione (Cass. III, n. 7934/1991; Cass. III, n. 4212/1988). In argomento, si è ritenuto che, nel caso in cui la morosità si riferisca al mancato pagamento dei soli aggiornamenti I.S.T.A.T. (regolarmente richiesti e non contestati), ai fini della risoluzione del contratto sia necessario che il loro ammontare raggiunga l'importo di almeno un rateo di canone (Lazzaro, Di Marzio, 445). Spese di registrazione del contrattoSi è opinato che le spese di registrazione non rientrino nel concetto di canone, ma si risolvano in oneri tributari gravanti sul rapporto, come tali “assolutamente estranei ad ogni idea di corrispettività contrattuale” (Lazzaro, Preden, Varrone 1978, 58). Nondimeno, le spese di registrazione possono assumere rilievo, quale credito del locatore nei confronti del conduttore, per via di regresso nel caso che l'intera imposizione sia stata sopportata dal primo; anche in quest'ultimo caso, però, è di evidenza manifesta che le spese di registrazione rimangono radicalmente distinte dal canone, non concorrendo in nessuna misura alla formazione del corrispettivo del godimento locativo. Ciò spiega con facilità come la dottrina unanime sia nel senso dell'inammissibilità dell'intimazione di sfratto per morosità motivata dal mancato pagamento delle spese di registrazione (per tutti, Masoni 2004, 278). Interessi sui canoni corrisposti in ritardoSi tende ad escludere che possa essere dedotta, ai sensi dell'art. 658 c.p.c., una morosità consistente nel cumulo degli interessi non pagati su canoni precedentemente corrisposti in ritardo, premettendo, sul punto, che la mora nel pagamento dei canoni sembra verificarsi ex re. Invero, quando il corrispettivo a carico del conduttore consista in denaro, trova applicazione la regola stabilita dall'art. 1224, comma 1, c.c., secondo il quale, nelle obbligazioni pecuniarie, sono dovuti interessi legali dal giorno della mora, anche se non erano dovuti precedentemente ed anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno; se, poi, prima della mora, erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura; è fatto salvo, inoltre, il risarcimento del maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c., a meno che non sia stata convenuta la misura degli interessi moratori. Ciò detto, dopo aver rammentato che il debitore è costituito in mora ex re quando è scaduto il termine, se la prestazione deve essere eseguita al domicilio del creditore, ai sensi dell'art. 1219, comma 2, c.c., si deve, da un lato, osservare che l'obbligazione di pagamento del canone, quale obbligazione pecuniaria, va normalmente adempiuta, appunto, al domicilio del creditore entro un certo termine e, dall'altro lato, considerare che, secondo l'art. 1282, comma 2, c.c., i crediti per fitti e pigioni, salvo patto contrario, non producono interessi se non dalla costituzione in mora (Lazzaro, Di Marzio, 446). Dinanzi a tale apparente antinomia, sorge perciò il problema se la decorrenza degli interessi sui canoni vada calcolata dalla scadenza del termine, quale mora ex re, oppure se sia in questo caso richiesto l'atto di costituzione in mora, pur trattandosi di obbligazione da adempiersi entro un certo termine al domicilio del creditore; in proposito, i magistrati di Piazza Cavour (Cass. III, n. 7628/1986) hanno ritenuto che anche per i crediti per fitti e pigioni, ai fini della decorrenza degli interessi, non è necessaria la costituzione in mora quando il termine per pagare è scaduto e la prestazione deve essere effettuata presso il domicilio che il creditore ha alla scadenza (obbligazione portable). In altri termini, riguardo agli interessi sui canoni scaduti non corrisposti dal conduttore, trattandosi di interessi moratori, gli stessi possono essere attribuiti solo a seguito di espressa domanda giudiziale del locatore (e non riconosciuti d'ufficio dal magistrato), mentre, ai fini della relativa decorrenza, non è necessaria la costituzione in mora, purché il termine per pagare sia scaduto e la prestazione debba effettuarsi nel domicilio del locatore, atteso che l'art. 1282, comma 2, c.c. non costituisce deroga alla norma generale contenuta nell'art. 1219, comma 2, n. 3) c.c. (Cass. III, n. 5836/2007; Cass. III, 7628/1986; resta inteso che l'obbligazione di pagamento dei canoni di locazione costituisce un debito di valuta, sicché, ai sensi dell'art. 1224 c.c., la rivalutazione è dovuta solo per la parte eccedente il danno da ritardo coperto dagli interessi, v. Cass. III, n. 19222/2015; nel senso che, sulla premessa che tale debito, essendo di valuta, non è suscettibile di automatica rivalutazione per effetto del processo inflattivo della moneta, Cass. III, n. 14158/2020, ha affermato che spetta al creditore di allegare e dimostrare il maggior danno derivato dalla mancata disponibilità della somma durante il periodo di mora e non compensato dalla corresponsione degli interessi legaliex art. 1224, comma 2, c.c.; in argomento, ad avviso di Trib. Trapani 20 gennaio 2003, la clausola contrattuale con la quale le parti abbiano convenuto un tasso di interesse superiore a quello legale sull'importo dei canoni corrisposti in ritardo, trova applicazione agli effetti della risarcibilità del maggior danno di cui all'art. 1224, comma 2, c.c., ma non ai fini della sanatoria della morosità, per cui gli interessi sui canoni scaduti devono essere calcolati al tasso legale, come prescrive l'art. 55 della l. n. 392/1978). Sembra, dunque, che, nel conflitto tra le due disposizioni, si debba attribuire rilievo decisivo a quella in tema di mora ex re, nel senso che essa fa sì che, ai sensi dell'art. 1282 c.c., il credito per la pigione produca interessi dalla costituzione in mora, la quale deriva ex re dalla scadenza del termine ogni qual volta la prestazione debba essere eseguita al domicilio del creditore. Chiarito che l'obbligazione di interessi moratori sorge a carico del conduttore per il fatto stesso del ritardato pagamento, si deve aggiungere che il debito di interessi ha natura accessoria rispetto a quello per canone, nel senso che la corresponsione di interessi non si pone in rapporto di corrispettività con il godimento locativo, ma va a ristorare il danno che la mora nel pagamento ha prodotto, conseguendone che non possa intimarsi lo sfratto per una morosità relativa ai soli interessi e non anche al canone. In proposito, la giurisprudenza, in un remoto arresto (Cass. III, n. 2083/1961) ha statuito che, qualora nell'intimazione sia stato dedotto soltanto il mancato pagamento dei canoni, e all'udienza, essendo intervenuta sanatoria della morosità, la dichiarazione di persistenza sia stata resa con esclusivo riferimento agli interessi, è inibito al giudice di emettere la convalida, anche in difetto di opposizione, in quanto in tal modo egli verrebbe a pronunciare su domanda nuova non proposta con l'atto di intimazione. Su tale pronuncia, la dottrina ha svolto la condivisibile chiosa, in base alla quale occorre aggiungere che eguale preclusione vige ove persiste il debito per gli interessi indicato nell'intimazione congiuntamente a quello per i canoni, sotto il diverso profilo della non deducibilità, in sede di convalida, di inadempienze non concernenti il canone in senso stretto (Lazzaro, Preden, Varrone 1978, 58). In termini analoghi, nella giurisprudenza di merito, si trova affermato che la procedura di convalida di sfratto per morosità di cui agli artt. 658 ss. c.p.c. è ammissibile soltanto in presenza del mancato pagamento dei canoni e non per gli inadempimenti delle altre obbligazioni, pur pecuniarie, del conduttore, quali gli oneri accessori di cui agli artt. 5 e 9 della l. n. 392/1978, gli interessi per il ritardo nel pagamento dei canoni e le spese legali per il recupero del credito, sicché non sussiste il requisito della morosità atto a legittimare la pronuncia dell'ordinanza di convalida indicato nell'art. 663, comma 3, c.p.c. quando il conduttore in mora nel pagamento dei canoni, dopo la notificazione della citazione introduttiva ma prima dell'udienza fissata in questa, abbia corrisposto i medesimi canoni, ma non anche gli interessi e le spese (Trib. Cagliari 8 marzo 1985). Pagamento dell'I.V.A.La corresponsione dell'I.V.A., non ponendosi sul piano della corrispettività contrattuale, esula dalla nozione di canone in senso stretto (v., con riguardo all'I.G.E., Cass. III, n. 2267/1963). Tuttavia, il pagamento di tale imposta costituisce un'obbligazione accessoria a carico del conduttore nei confronti del quale il locatore, su cui grava l'obbligo del versamento all'erario, può esigere il rimborso (Cass. III, n. 1173/1983). Pertanto, per un verso, il pagamento dell'I.V.A. non si pone sul piano della corrispettività con il godimento locativo, ma discende da un rapporto tributario che è soltanto “occasionato” dalla stipulazione del contratto di locazione, ma, per altro verso, poiché il locatore deve corrispondere al fisco l'I.V.A. dovuta in dipendenza della pattuizione ed ha diritto ad essere rimborsato dal conduttore, quest'ultima obbligazione di rimborso, gravante sul conduttore, va a collocarsi in posizione accessoria rispetto alla primaria obbligazione contrattuale di dare il corrispettivo, sicché anche il suo inadempimento può determinare risoluzione contrattuale, quando lo squilibrio del rapporto contrattuale sia di non scarsa importanza ai sensi dell'art. 1455 c.c. Perciò, il locatore, dinanzi all'inadempimento della menzionata obbligazione accessoria, potrebbe ottenere la pronuncia di risoluzione contrattuale intraprendendo l'azione ordinaria, ma ciò non sembra voler dire – come sempre – che egli possa servirsi dell'azione per convalida, che è data ove ricorra uno specifico inadempimento, come quello di pagamento del canone; anche in questo caso, non potendosi ritenere che il pagamento dell'I.V.A. costituisca canone, deve escludersi che la relativa morosità possa essere fatta valere con il procedimento per convalida. Sul punto, la dottrina ha offerto una contraria opinione, sostenuta sul rilievo che il mancato pagamento dell'I.V.A. sarebbe “idoneo a perturbare il sinallagma contrattuale” (Masoni 2004, 279), oppure sull'assunto secondo cui non potrebbe negarsi che l'I.V.A. “costituisca una componente del dovuto a titolo di canone” (Frasca, 96). Quanto a quest'ultimo accenno, esso trova smentita nelle considerazioni prima svolte, concordemente all'opinione giurisprudenziale, dalle quali emerge che l'I.V.A. non è canone; quanto all'altra obiezione, essa si infrange contro l'osservazione che, all'introduzione dell'azione per convalida di sfratto per morosità, non è sufficiente il perturbamento del sinallagma contrattuale, ma occorre immancabilmente la violazione della sola obbligazione di pagamento del canone (Lazzaro, Di Marzio, 448). La soluzione che ammette lo sfratto per morosità nel pagamento dell'I.V.A., d'altronde, appare contraddittoria rispetto all'altra che viene accolta dalla concorde dottrina riguardo al diverso onere tributario costituito dalle spese di registrazione; il mancato pagamento da parte del conduttore dell'I.V.A. o delle spese di registrazione, cioè, sembra integrare identica violazione di un'obbligazione, meramente accessoria, di fonte tributaria, sicché, se si esclude che possa farsi valere con l'azione per convalida la morosità nel rimborso delle spese di registrazione, sembra parimenti doversi escludere che possa denunciarsi attraverso quell'azione la morosità per I.V.A. Clausola risolutiva espressaL'art. 5 della l. n. 392/1978, in combinato disposto con il successivo art. 79, ha, altresì, posto il problema dell'ammissibilità dell'apposizione, al contratto, di una clausola risolutiva espressa, con precipuo riferimento al mancato tempestivo pagamento del canone di locazione. Non si sono mostrate perplessità in ordine alla legittimità di una previsione di una clausola che preveda la risoluzione del contratto per il mancato o ritardato pagamento (non già di una, bensì) di due mensilità del canone, atteso che tale previsione derogherebbe, in senso più favorevole al conduttore, al citato art. 5 (Cass. III, n. 8003/2001). In proposito, si è osservato la clausola risolutiva espressa di cui all'art. 1456 c.c. e la previsione di cui all'art. 5 della l. n. 392/1978 rispondono, infatti, alla medesima funzione di rendere irrilevante l'indagine da parte del giudice circa l'importanza dell'inadempimento e di stabilire quale inadempimento dà luogo alla risoluzione del contratto: nel primo caso, sono i contraenti a definire l'importanza dell'inadempimento dell'obbligazione di pagamento del canone di locazione, mentre, nel caso dell'art. 5, è il legislatore che ha effettuato a priori la valutazione dell'importanza dell'inadempimento in questione; ciò che conta è che le parti abbiano predeterminato l'inadempimento rilevante ai fini della risoluzione del contratto, cosicché tale predeterminazione, ove più favorevole al conduttore, si sovrappone, derogandola, a quella compiuta dal legislatore. Diversa è stata, invece, la soluzione offerta riguardo ad una clausola risolutiva espressa che peggiori le condizioni per il conduttore, la quale potrebbe essere destinata ad incappare nella sanzione di nullità ai sensi del citato art. 79 (tra le pronunce di merito, si segnala Pret. Milano 9 ottobre 1997, ad avviso del quale sono da considerarsi nulle le clausole risolutive espresse che attribuiscano al locatore un vantaggio illecito, sanzionato da tale articolo: nella fattispecie, è stata ritenuta nulla una clausola contrattuale che prevedeva la risoluzione del contratto di locazione in caso di mancato pagamento anche parziale del canone o delle quote per gli oneri accessori dopo venti giorni dalla scadenza, con esclusione per il conduttore della possibilità di avvalersi della facoltà della sanatoria giudiziaria). Per altro verso, è stato, altresì, chiarito, nell'ipotesi di locazione soggetta alla disciplina della l. n. 392/1978, che l'efficacia di una clausola risolutiva espressa pattuita in relazione al mancato pagamento del canone, dipende dalla scelta processuale del locatore, giacché, nel procedimento specialeex art. 658 c.p.c., l'efficacia rimane sospesa, ancorché il locatore abbia dichiarato di volersene avvalere, fino alla prima udienza – o fino alla scadenza del termine di grazia eventualmente concesso dal giudice – con la conseguenza della sua definitiva inefficacia ove il convenuto sani la morosità, oppure della sua definitiva efficacia nell'ipotesi opposta; diversamente, nel procedimento ordinario, la clausola esplica pienamente la sua efficacia, producendo tutti i suoi effetti naturali, dal momento della notifica della citazione (Cass. III, n. 1316/1998; Cass. III, n. 11284/1993; Cass. III, n. 5031/1991); con riferimento ad una fattispecie particolare, si è puntualizzato che, in un caso di domanda di risoluzione del contratto proposta dal conduttore per inadempimento all'obbligo di manutenzione della cosa locata facente carico al locatore, questi, per ottenere la contrapposta domanda di risoluzione per morosità in forza di una clausola risolutiva espressa, avrebbe dovuto dichiarare di volersene avvalere prima della data in data in cui la parte conduttrice aveva proposto la domanda di risoluzione (Cass. III, n. 8677/2017; Cass. III, n. 8003/2001). Dunque, nella vigenza della l. n. 392/1978, veniva dai più riservata al conduttore, pure in presenza di una clausola risolutiva espressa per l'ipotesi di mancato pagamento del canone alla scadenza, la possibilità di sanare in giudizio la morosità ai sensi dell'art. 55; e comunque, al fine di evitare contrasti con l'art. 79, si tendeva a considerare valide le sole clausole risolutive espresse che prevedessero la risoluzione del contratto per il mancato/ritardato pagamento del canone entro margini quantitativi o cronologici più favorevoli al conduttore di quelli delineati dall'art. 5. Riguardo ai contratti conclusi sotto la vigenza della l. n. 431/1998 – relativamente ai quali, come detto, l'art. 5 continua a trovare applicazione – si è affermata in dottrina (Paladini, 23) la validità di una clausola risolutiva espressa connessa al (mancato) pagamento del canone di locazione, indipendentemente dal suo contenuto migliorativo o deteriore rispetto alla previsione normativa in esame giacché, a fronte dell'abrogazione dell'art. 79 della l. n. 392/1978, l'art. 13 della l. n. 431/1998 sanziona con la nullità i soli patti tesi a far conseguire al locatore un canone maggiore di quello legislativamente consentito; d'altronde, nell'ottica più “accondiscendente” del suddetto art. 13, può opinarsi la validità delle clausole risolutorie che escludano la facoltà del conduttore di invocare la sanatoria giudiziale della morosità (Mazzeo, 296, il quale evidenzia, peraltro, che una deroga peggiorativa per il conduttore alle condizioni indicate dall'art. 5 è già concepita nei contratti-tipo del modello alternativo, sembrando possibile pure per le locazioni del modello ordinario). Dissente, tuttavia, da tale impostazione un diverso orientamento (Lazzaro, Di Marzio, 459), che ha sottolineato lo stretto legame tra gli artt. 5 e 55 della l. n. 392/1978, norma, quest'ultima, che verrebbe così ad essere indirettamente derogata, nonostante contenga “previsioni di ordine pubblico, che non possono essere derogate dalle private pattuizioni”; secondo altri (Martone, 37), una deroga pattizia all'art. 5, volta a fornire rilievo risolutorio ad un inadempimento non così grave per la l. n. 392/1978, inciderebbe negativamente sulla durata minima del rapporto indicata dall'art. 2 della l. n. 431/1998. Ovviamente, non hanno carattere vessatorio, e non sono, quindi, nulle, quelle clausole che si limitano a riprodurre il contenuto di norme di legge, come, ad esempio, la clausola risolutiva espressa riferita all'ipotesi di inosservanza del termine di pagamento dei canoni conforme al disposto dell'art. 5 (Cass. III, n. 369/2000, sia pure con riferimento alle locazioni ad uso non abitativo; conforme, nella giurisprudenza di merito, Trib. Napoli 24 aprile 1997, ad avviso del quale non può considerarsi vessatoria la clausola risolutiva espressa, inserita in un contratto di locazione, la quale richiami nella sua formulazione quanto previsto dall'art. 5 della l. n. 392/1978, laddove il legislatore ha previsto, valutandone la liceità in astratto, proprio la figura della clausola risolutiva espressa). Resta fermo che, se in un contratto di locazione sottratto alla normativa speciale, è stata pattuita la clausola risolutiva espressa, viene meno il rilievo sull'importanza dell'inadempimento, e la risoluzione si verifica di diritto qualora il locatore dichiari di volersene avvalere. Si è, altresì, chiarito che, nei contratti di durata (come la locazione), in cui sono stabilite prestazioni di pagamento secondo scadenze mensili e non in un'unica soluzione, l'essenzialità del termine di ciascuna prestazione di pagamento deve essere espressamente prevista, in ossequio ai criteri di ermenuetica contrattuale sanciti dagli artt. 1362 e 1366 c.c. (Cass. III, n. 8038/2024:nella specie, la Suprema Corte decidendo nel merito, ha affermato - esaminando il tenore letterale della clausola di un contratto di locazione secondo cui il ritardo o il mancato pagamento di una sola mensilità era da individuare come causa immediata di risoluzione del contratto - che si trattava di clausola risolutiva espressa e non di termine essenziale). 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