Legge - 27/07/1978 - n. 392 art. 80 - Uso diverso da quello pattuito.Uso diverso da quello pattuito. Se il conduttore adibisce l'immobile ad un uso diverso da quello pattuito, il locatore può chiedere la risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto conoscenza e comunque entro un anno dal mutamento di destinazione (1). Decorso tale termine senza che la risoluzione sia stata chiesta, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all'uso effettivo dell'immobile. Qualora la destinazione ad uso diverso da quello pattuito sia parziale, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all'uso prevalente. (1) La Corte costituzionale, con sentenza 18 febbraio 1988, n. 185, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente comma, limitatamente alle parole "e comunque entro un anno dal mutamento di destinazione". InquadramentoLa norma in commento, che regola l'ipotesi della unilaterale modificazione della destinazione d'uso dell'immobile locato ad opera del conduttore, era – nella originaria stesura oggi incisa dall'intervento Corte costituzionale – così formulata: – se il conduttore adibisce l'immobile ad un uso diverso da quello pattuito, il locatore può chiedere la risoluzione del contratto entro tre mesi dal momento in cui ne ha avuto conoscenza e comunque entro un anno dal mutamento di destinazione; – decorso tale termine senza che la risoluzione sia stata chiesta, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all'uso effettivo dell'immobile; – qualora la destinazione ad uso diverso da quello pattuito sia parziale, al contratto si applica il regime giuridico corrispondente all'uso prevalente. La norma, dunque, reca una importante deroga della disciplina generale altrimenti applicabile secondo la previsione codicistica. Rimane fermo, infatti, che il conduttore deve servirsi della cosa locata per l'uso determinato nel contratto o per l'uso che può altrimenti presumersi dalle circostanze, secondo quanto prescrive l'art. 1587, n. 1) c.c., sicché il mutamento della destinazione d'uso costituisce inadempimento contrattuale, ma, mentre il locatore può di regola intraprendere l'azione di risoluzione per inadempimento entro il termine di prescrizione ordinario, egli, ai sensi dell'art. 80 della l. n. 392/1978, resta assoggettato al termine di decadenza trimestrale decorrente dal momento in cui ha avuto conoscenza del mutamento, spirato il quale non può più chiedere la risoluzione del contratto, determinando, così, la definitiva «stabilizzazione» dell'uso diverso, con la conseguente applicazione della relativa disciplina giuridica. La disposizione, insomma, pur lasciando inalterato il giudizio di illiceità della modificazione della destinazione d'uso, tende a fornire ad esso una forte protezione, imponendo una rapida reazione al locatore. Ancor più radicale, nella norma in esame, era la previsione – che subito si vedrà venuta meno – della «stabilizzazione» dell'uso diverso dopo il decorso di un anno dal mutamento, indipendentemente dalla conoscenza che il locatore ne abbia avuto: previsione che ha indotto a riconoscere un principio di necessaria corrispondenza tra uso effettivo e regime giuridico applicabile sol che il locatore, pur inconsapevole, non reagisca entro l'anno. L'intervento della ConsultaVa subito chiarito, però, che l'inciso «e, comunque, entro un anno dal mutamento di destinazione» è stato espunto ad opera del giudice delle leggi con la pronuncia che segue, la quale ha posto l'accento sull'osservazione che il locatore non è tenuto ad una continua sorveglianza dell'immobile concesso in locazione. «Il termine trimestrale per chiedere la risoluzione del contratto può essere considerato assai breve ma per l'inizio della sua decorrenza ha un dies certus che è quello della conoscenza da parte del locatore dell'avvenuto mutamento di destinazione. Includere il trimestre nell'anno decorrente dall'intervenuto mutamento di destinazione, quando questo sia stato occultato o non denunciato dal conduttore o non sia stato rilevato dal locatore, cui non incombe onere di permanente vigilanza sull'uso della cosa locata, o di giornaliero controllo sulla conservazione della originaria destinazione, significa vanificare il diritto di azione del locatore, in violazione dell'art. 24, comma 1, Cost. Se la congruità del termine attiene alla sfera della discrezionalità legislativa, non altrettanto può affermarsi per il requisito della scientia del termine iniziale di decorrenza, senza del quale l'azione si intende inutiliter data. Come costantemente affermato da questa Corte (v. Corte cost., n. 159/1971; Corte cost., n. 255/1974; Corte cost., n. 14/1977; Corte cost., n. 134/1985), la garanzia di cui all'art. 24 Cost. deve estendersi alla conoscibilità del momento iniziale di decorrenza del termine stesso, al fine di assicurarne all'interessato l'utilizzazione nella sua interezza» (così Corte cost., n. 185/1988). Per l'effetto, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 80, comma 1, della l. n. 392/1978, nella parte in cui prevedeva la «stabilizzazione» del rapporto, a seguito dell'intervenuta modificazione della destinazione d'uso, indipendentemente dalla conoscenza che ne avesse avuto il locatore. Resta fermo, dunque, che il congegno introdotto dalla norma in questione trova applicazione solo a partire dalla conoscenza del mutamento d'uso da parte del locatore: conoscenza che, in ipotesi, il locatore acquisisca, a seguito dell'intimazione dello sfratto per finita locazione o per morosità, attraverso la comparsa di costituzione del conduttore, il quale eccepisca il diverso regime applicabile in conseguenza del mutamento d'uso (Pret. Milano 16 giugno 1988). Ne discende, ad esempio, che, quando è contrattualmente stabilita una destinazione dell'immobile locato ad attività che non comportino il contatto diretto con il pubblico degli utenti e dei consumatori, al conduttore che invochi il diritto all'indennità per la perdita dell'avviamento commerciale non è sufficiente dimostrare che nonostante il tenore delle clausole contrattuali nell'immobile è stata svolta un'attività comportante detto contatto, essendo anche necessario che egli provi che sia decorso il termine di tre mesi dalla data in cui il locatore ha avuto conoscenza dell'uso pattuito, ai sensi dell'art. 80 della l. n. 392/1978 (Cass. III, n. 13705/2017). Ambito di applicazioneL'art. 80 della l. n. 392/1978 è stato inizialmente oggetto di contrapposte interpretazioni, più o meno ampie. In un'ottica restrittiva, si è sostenuto che la norma non troverebbe applicazione nel caso di modificazione dell'uso implicante la soggezione del rapporto al codice civile, convenzionalmente pattuito, in uso implicante l'applicazione della legge speciale (si veda, per il caso che il conduttore adibisca l'immobile locato come garage privato all'esercizio di un'attività di autorimessa riconducibile all'art. 27 della l. n. 392/1978, Trib. Roma 27 gennaio 1984). Ed altresì che non troverebbe applicazione nel caso di mutamento d'uso comunque circoscritto entro una delle grandi categorie, abitativa o non abitativa, cui apparteneva l'uso pattuito (si veda, per il caso di adibizione a seconda casa di un immobile locato come abitazione primaria, Pret. Monza 7 gennaio 1986). Secondo l'opposto indirizzo, accolto infine dalla giurisprudenza di legittimità, l'art. 80 della l. n. 392/1978 va interpretato nel senso che la norma trova applicazione ogni qual volta il mutamento d'uso rimanda all'applicazione di un diverso regime giuridico. L'uso diverso da quello contrattualmente stabilito, al quale si riferisce la disposizione, cioè, non va individuato soltanto nella generale dicotomia tra uso abitativo e non abitativo, bensì nel mutamento d'uso che comporti un corrispondente mutamento di regime giuridico. La giurisprudenza – seguendo l'insegnamento di Cass. III, n. 9689/1994; Cass. III, n. 11952/1992; Cass. III, n. 5689/1990; Cass. III, n. 4600/1986 – ha perciò osservato: «La norma è diretta a far sì che il regime giuridico da applicare agli immobili locati sia quello corrispondente al loro uso effettivo, essendo evidente l'intento legislativo di sottoporre a disciplina speciale, sottraendole a quella del codice civile, pur contro la volontà delle parti, tutte le locazioni aventi destinazione (effettiva) corrispondente ad una di quelle previste dalla l. n. 392/1978. La ratio della norma è, quindi, quella di impedire che le parti possano stipulare contratti simulati al solo scopo di eludere la disciplina legislativamente prevista per ciascun tipo di locazione; ed il mezzo offerto al locatore dall'art. 80 è stato di prevedere, al fine di ottenere la risoluzione del contratto, una specifica ipotesi d'inadempimento atta ad evitare che il locatore venga a subire, per il comportamento successivo del solo conduttore, una disciplina giuridica del rapporto diversa da quella accettata da ambo le parti con lo stipulare un determinato tipo di contratto [...]. Da questa premessa discende il principio che l'uso diverso da quello contrattualmente stabilito (a cui si riferisce l'art. 80) non va individuato soltanto nella generale dicotomia di uso abitativo e non abitativo la quale, seppure costituisce la più macroscopica ipotesi di uso diverso da quello pattuito, non ne esaurisce l'intera gamma; bensì nel mutamento di regime giuridico. Non quindi qualsiasi modifica della destinazione dell'immobile è rilevante ai sensi dell'art. 80, ma solo quella connessa ad una diversa disciplina normativa» (così Cass. III, n. 2962/1996). Di recente si è detto che il mutamento d'uso, che, ai sensi dell'art. 80 legittima il locatore a richiedere la risoluzione del contratto, non esige che la destinazione contrattualmente prevista sia unica, né che il cambiamento riguardi l'intero immobile locato. Pertanto, qualora le parti abbiano previsto un uso congiunto del bene, sussiste il mutamento allorché l'immobile sia destinato ad uno solo degli usi pattuiti (App. Firenze 12 giugno 2020, n. 986). Dunque, la norma trova – tra l'altro – applicazione anche quando il contratto originario preveda un uso non contemplato dalla legge dell'«equo canone» ed il successivo mutamento dia luogo all'adibizione ad un uso da essa contemplato (Cass. III, n. 1684/1989; Cass. III, n. 3310/1989). Mutamento d'uso senza modificazione del regime giuridico applicabileSe il mutamento d'uso implicante mutamento della disciplina giuridica applicabile ricade sotto l'art. 80 della l. n. 392/1978, il mutamento d'uso nell'ambito del medesimo tipo locatizio, senza che venga in questione alcuna modificazione della disciplina giuridica applicabile, non è per converso soggetto a tale disposizione, ma rimane regolato dalle disposizioni ordinarie in tema di inadempimento. Si trova in tal senso affermato – sulla scorta di Cass. III, n. 12352/1992; Cass. III, n. 2226/1987; Cass. III, n. 4600/1986 – che: «La ratio dell'art. 80 della l. n. 392/1978 è quella di applicare agli immobili locati il regime giuridico corrispondente al loro uso effettivo onde evitare che il locatore venga a subire, per iniziativa del conduttore, una disciplina del rapporto diversa da quella convenzionalmente pattuita, con la conseguenza che il concetto di uso diverso da quello contrattuale che legittima il locatore a chiedere la risoluzione del contratto con la specifica azione di cui al citato articolo, nei limiti temporali ivi fissati ed a pena di decadenza, non si identifica con qualsiasi mutamento di destinazione, bensì solo con quello che comporti un corrispondente mutamento di regime giuridico, ferma restando l'esperibilità della comune azione di risoluzione per inadempimento prevista dagli artt. 1453 ss. c.c. (che postula, peraltro, la valutazione dell'inadempimento a termini dell'art. 1455 c.c.) per le diverse ipotesi di cambiamento della destinazione della res locata» (Cass. III, n. 3989/1999). Nell'affermare il principio di diritto che precede, la Suprema Corte ha ritenuto applicabile solo l'azione ordinaria di risoluzione ex art. 1453 c.c. ad una fattispecie relativa al mutamento di un laboratorio di pasticceria in esercizio di bar pasticceria. In seguito, è stato ribadito che: «L'art. 80 della l. n. 392/1978, che, nel caso di unilaterale mutamento d'uso dell'immobile locato da parte del conduttore, prevede l'applicabilità del regime giuridico corrispondente all'uso effettivo se il locatore non si attivi entro il termine previsto per la risoluzione del contratto, si applica soltanto se il passaggio da un uso ad un altro importa una diversa disciplina del contratto di locazione nella l. n. 392/1978. Ad ogni altra ipotesi di uso arbitrario dell'immobile resta, invece, applicabile l'ordinaria disciplina prevista dal codice civile in tema di risoluzione del contratto per inadempimento di una delle obbligazioni principali del conduttore – il servirsi, cioè, della cosa per l'uso convenuto – da valutarsi alla stregua dell'ordinaria disciplina del codice civile, salvo che il locatore non si avvalga, ai sensi dell'art. 1456 c.c., della clausola risolutiva espressa, nel quale ultimo caso il giudice non è tenuto ad effettuare alcuna indagine sulla gravità dell'inadempimento, avendo le parti preventivamente valutato che l'uso diverso dell'immobile locato determina l'alterazione dell'equilibrio giuridico-economico del contratto» (Cass. III, n. 25141/2008). Ed ancora, è stata esclusa l'applicazione dell'art. 80 della l. n. 392/1978 in caso di mutamento di un esercizio artigianale di parrucchiere in esercizio commerciale di boutique, trattandosi di attività regolate dalla stessa disciplina giuridica (v. Cass. III, n. 2226/1987). E così nel caso di adibizione di un immobile già destinato ad autofficina anche ad autorimessa pubblica (Trib. Sala Consilina 2 ottobre 1990). Mutamento d'uso e volontà delle partiSecondo l'opinione prevalente, il mutamento del regime giuridico previsto dall'art. 80 della l. n. 392/1978 è da ricollegare alla volontà delle parti: quella del conduttore manifestata attraverso il mutamento d'uso; quella del locatore manifestata attraverso la consapevole inerzia, cui il legislatore attribuisce un significato legalmente tipizzato. L'inerzia del locatore, cioè, si traduce «in adesione alla mutata destinazione e, quindi, per effetto di legge, in volontà di applicare al rapporto il diverso regime giuridico conseguente, a garanzia dei reciproci diritti ben diversi dall'uno all'altro regime, al fine di tutelare il rapporto ed i contraenti con l'eliminare ogni incertezza» (Bompani, 225). L'art. 80 della l. n. 392/1978, in tal modo, ha utilizzato nella materia un congegno ben conosciuto: si pensi al significato tipizzato attribuito dal codice civile alla condotta del conduttore che «rimane ed è lasciato nella detenzione della cosa locata» (art. 1597, comma 1, c.c.). In tal senso, i giudici di legittimità, nel soffermarsi sull'individuazione del termine a quo al quale va ancorata l'applicazione delle disciplina giuridica individuata attraverso l'art. 80, hanno osservato che il silenzio del locatore consapevole del mutamento d'uso determina implicita adesione alla modifica di una delle obbligazioni principali del conduttore e si traduce in un regolamento negoziale di carattere novativo, con il quale le parti danno vita ad un rapporto nuovo, diverso da quello precedente, decorrente dal momento in cui è scaduto il termine di tre mesi concesso al locatore per proporre l'azione di risoluzione, ed al quale si applica il regime giuridico corrispondente all'uso effettivo dell'immobile. Poiché la disciplina dettata dall'art. 80 si fonda sulla volontà delle parti, il decorso del termine trimestrale da esso previsto non è rilevabile d'ufficio, ma deve essere oggetto di espressa eccezione da parte del conduttore: «In tema di mutamento di destinazione d'uso della cosa locata, il decorso del termine di decadenza di cui all'art. 80 della l. n. 392/1978 per mancato esercizio da parte del locatore dell'azione di risoluzione del contratto entro tre mesi dall'avvenuta conoscenza, non è rilevabile d'ufficio dal giudice, dovendo la parte interessata, nel sollevare l'eccezione, manifestare chiaramente la volontà di avvalersi dell'effetto estintivo dell'altrui pretesa, ricollegato dalla legge al decorso di un certo termine» (Cass. III, n. 14765/2007). Una delle pronunce sul tema così motiva ai fini dell'individuazione della data di inizio del nuovo rapporto: «Nel quadro di una concezione volontaristica, il silenzio del locatore consapevole del mutamento d'uso va interpretata come un'implicita adesione alla modifica di una delle obbligazioni principali del conduttore (art. 1587, n. 1 c.c.) e si traduce in un regolamento negoziale di carattere novativo, nel senso che le parti danno vita ad un rapporto nuovo, diverso da quello precedente, con decorrenza dal momento in cui è scaduto il termine per proporre l'azione di risoluzione (più precisamente, dal primo giorno del quarto mese successivo alla conoscenza che il locatore abbia avuto del mutamento della destinazione contrattuale originaria), ed al quale si applica il regime stabilito ex lege e, cioè, nel caso di specie (da uso non abitativo ad abitazione primaria), il canone equo e la durata quadriennale. L'esattezza di questa conclusione trova conferma nel rilievo che adottando la diversa tesi della c.d. sovrapposizione dei rapporti, dovrebbe, quanto alla durata, opinarsi per la prosecuzione del rapporto solo per l'originario sessennio, con l'assurda conseguenza che se il mutamento avviene al quinto anno del rapporto originario non abitativo, la durata quadriennale, calcolata fin dall'inizio, sarebbe già scaduta e la disposizione di cui all'art. 80 cit. diverrebbe inapplicabile» (Cass. III, n. 2745/1998). Si può in definitiva affermare che, nel quadro di una concezione volontaristica, il silenzio del locatore consapevole del mutamento deve essere interpretato come implicita adesione con effetti novativi del precedente rapporto ed applicazione del diverso regime dalla scadenza del termine per l'esercizio dell'azione di risoluzione. La modificazione della destinazione d'uso può inoltre assumere rilievo nel quadro del fenomeno novativo. Ai fini della configurabilità della novazione del contratto di locazione, la modifica della destinazione d'uso dell'immobile locato rispetto all'originaria destinazione, dalla quale non derivi innovazione della disciplina giuridica del rapporto, integra il necessario presupposto dell'aliquid novi, trattandosi non già di una semplice modificazione delle modalità esecutive dell'originaria obbligazione, ma al contrario di un rilevante mutamento della stessa, atteso che, in assenza della modifica pattizia, lo svolgimento di attività diversa da quella indicata in contratto costituirebbe inadempimento contrattuale legittimante il ricorso all'azione di risoluzione ex art. 1453 c.c. (Cass. III, n. 13542/2023). Decorrenza del termine trimestrale e sospensione dei termini ferialiLa Corte costituzionale ha dichiarato non fondata, in riferimento all'art. 24 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della l. n. 742/1969, nella parte in cui non consentirebbe la sospensione del termine di tre mesi stabilito dall'art. 80, comma 1, della l. n. 392/1978. È stato viceversa ritenuto che il termine in questione sia assoggettato alla sospensione dei termini feriali: «La disciplina generale della sospensione del decorso dei termini nel periodo feriale, destinata ad assicurare l'effettiva possibilità di esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio, è stata già più volte esaminata da questa Corte. In presenza di termini brevi, di duplice e coesistente natura sostanziale e processuale, sono state accolte questioni di legittimità costituzionale, sollevate nel contesto di una giurisprudenza ferma nel ritenere non applicabile la sospensione, prevista dall'art. 1 della l. n. 742/1969, ai termini per la proposizione della domanda giudiziale. Difatti questa Corte ha affermato che lede il diritto di agire in giudizio, per la tutela delle proprie ragioni, escludere la sospensione del decorso dei termini nel periodo feriale, prevista in via generale, nei casi in cui la possibilità di agire in giudizio costituisca, per il titolare del diritto, l'unico rimedio per fare valere il diritto stesso in un ristretto termine fissato dalla legge (Corte cost., n. 380/1992; Corte cost., n. 49/1990; Corte cost., n. 255/1987; Corte cost., n. 40/1985). L'illegittimità costituzionale è stata dunque dichiarata solo quando il termine di decadenza, che presentava le caratteristiche sopra descritte, non era stato considerato soggetto, quanto alla sospensione feriale, alla disciplina dei termini processuali. L'enunciazione di questi principi ha concorso a determinare una complessiva rimeditazione interpretativa da parte della giurisprudenza ordinaria, che ha seguito anche le sollecitazioni di parte della dottrina. Si è così pervenuti ad una ricostruzione della portata normativa dell'art. 1 della l. n. 742/1969, tale da superare l'esigenza di ulteriori pronunce di illegittimità costituzionale, dirette ad inserire via via altre singole fattispecie nel contesto della stessa disposizione. I più recenti orientamenti della giurisprudenza ordinaria muovono in una prospettiva interpretativa, in precedenza seguita dalla sola giurisprudenza amministrativa, secondo la quale la locuzione «termini processuali», ai fini della sospensione nel periodo feriale, comprende anche i brevi termini di decadenza fissati per la proposizione dell'atto introduttivo del giudizio. Si deve pertanto constatare come sia divenuta dominante, anche nella giurisprudenza relativa al processo civile, una lettura della disposizione sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale che offre una più ampia e comprensiva nozione di termine processuale, tale da non limitarne la portata nell'ambito del compimento degli atti successivi all'introduzione del processo, ma idonea invece a comprendere il ristretto termine iniziale entro il quale il processo deve essere introdotto, quando la proposizione della domanda costituisca l'unico rimedio per la tutela del diritto che si assume leso. Questa nuova lettura della disposizione ha portato la Corte di Cassazione ad affermare che è soggetto alla sospensione nel periodo feriale il termine di 30 giorni previsto dall'art. 2527 c.c., a pena di decadenza e senza rimedio alternativo, per l'impugnazione giudiziale della delibera di esclusione del socio dalla cooperativa. Si è, quindi, in presenza di una ricostruzione del sistema normativo che adegua la lettura della disposizione denunciata al principio costituzionale di garanzia del diritto di agire in giudizio. Ne risulta un'interpretazione del tutto appropriata anche al termine di tre mesi previsto dall'art. 80 della l. n. 392/1978 per la domanda giudiziale che il locatore può proporre come unico strumento per chiedere, evitando la decadenza, la risoluzione del contratto, quando il conduttore abbia adibito l'immobile ad un uso diverso da quello pattuito. La corretta interpretazione della disposizione denunciata, nei sensi sopra indicati, consente di ritenere non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione» (così Corte cost., n. 268/1993). Mutamento parzialeL'art. 80 della l. n. 392/1978 rileva ancora con riguardo all'individuazione della disciplina giuridica applicabile in caso di mutamento d'uso parziale. La norma, difatti, trova applicazione anche nell'ipotesi in cui il conduttore adibisca parzialmente il bene locato ad un uso diverso da quello pattuito, purché la nuova destinazione sia quella prevalente (Trib. Napoli 24 febbraio 1984). Non comporta, invece, cambiamento d'uso l'utilizzazione dell'immobile, locato ad uso abitativo, anche per attività con tale uso compatibile: ad esempio, lo svolgimento di lezioni private o la redazione ed elaborazione di relazioni da parte di un consulente (Trib. Milano 27 febbraio 1984). In caso di mutamento parziale, è necessario accertare l'uso prevalente e non è consentito sdoppiare il rapporto ed applicare pro parte diversi regimi, corrispondenti alle differenti utilizzazioni, né può farsi applicazione di una disciplina giuridica mista. In tal senso, la Corte Costituzionale ha osservato che: «Non è irragionevole il criterio dell'assorbimento adottato dal legislatore al fine di configurare un regime giuridico unitario per il contratto di locazione che si sia conservato nonostante l'unilaterale instaurazione, contra pacta, da parte del conduttore, di un uso effettivo promiscuo dell'immobile locato; [...] in particolare, la totale irrilevanza – dopo il decorso del termine di decadenza dall'azione di risoluzione contrattuale di cui all'art. 80, comma 1, della l. n. 392/1978 – dell'inadempimento parziale del conduttore, il quale abbia utilizzato l'immobile in modo diverso da quello pattuito, ma in misura minusvalente, è giustificata dalla specialità del rapporto locativo e dalle connesse peculiari esigenze (anche sociali) di certezza, stabilità ed univocità della disciplina; [...] il regime giuridico alternativo, ipotizzato dal rimettente sulla base della generica combinazione delle (confliggenti) discipline corrispondenti ai diversi usi effettivi dell'immobile locato, costituirebbe semmai uno dei tanti modelli normativi astrattamente possibili, che solo il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità adottare» (Corte cost., n. 463/2000). Il principio dell'uso prevalente – in materia attinente al tema del mutamento parziale – vale anche se le parti abbiano previsto un uso congiunto del bene (nella specie, «studio medico ed abitazione») e l'immobile venga poi destinato ad uno solo degli usi pattuiti: «In tema di locazione di immobili urbani, il mutamento d'uso che, ai sensi dell'art. 80 della l. n. 392/1978 legittima il locatore a richiedere la risoluzione del contratto non esige che la destinazione contrattualmente prevista sia unica, né che il cambiamento riguardi l'intero immobile locato; conseguentemente, qualora le parti abbiano previsto un uso congiunto del bene, sussiste il mutamento allorché l'immobile sia destinato ad uno solo degli usi pattuiti (Cass. III, n. 7554/1983). Parimenti trova applicazione la medesima norma nel caso si verifichi una alterazione del reciproco rapporto tra gli usi convenuti, ferma restando la necessità di accertare quale uso fosse prevalente prima della modificazione e se questa abbia reso prevalente o meno l'altro: «A differenza di quella contenuta nel comma 2, la disposizione dettata nel comma 1 dell'art. 80 non distingue tra uso completamente o parzialmente diverso. Ciò non significa che la parziale destinazione ad uso diverso da quello pattuito non configuri in alcun caso un motivo di risoluzione del contratto; vero è, invece, che, in riferimento alla causa di risoluzione del contratto prevista dall'art. 80, comma 1, non interessa il dato materiale costituito dal fatto che il conduttore abbia adibito l'immobile ad uso totalmente o solo parzialmente diverso da quello pattuito ed è per questo che la norma non distingue. Interessa, bensì, che il mutamento, totale o parziale, comporti o no il passaggio del rapporto ad un diverso regime giuridico. Quando il mutamento sia parziale, per stabilire se esso dia luogo all'applicazione d'un regime giuridico diverso da quello originario, e perciò ad una risoluzione del contratto, diviene necessario fare ricorso anche all'applicazione della regola dettata nella seconda parte del comma 2, dell'art. 80, a norma del quale il regime giuridico del rapporto è quello che corrisponde all'uso prevalente. La particolarità del caso in esame è in ciò: la modificazione parziale non ha significato l'aggiungersi di un nuovo uso a quello precedente: ha bensì inciso su uno dei due usi precedentemente in atto, dando luogo ad un cambiamento nell'ambito del rapporto in precedenza esistente tra i due usi. Orbene, la Corte ha già avuto modo di affermare che, quando un immobile sia adibito a più usi, ove ciascuno degli usi convenuti comporti una regolamentazione giuridica diversa, la disciplina da applicare va individuata in base al criterio dell'uso prevalente (Cass. III, n. 7554/1983; Cass. III, n. 3985/1982). Da ciò discende che quando è addotta, come causa di mutamento di regime giuridico e perciò di risoluzione del contratto, la modificazione d'uno tra i due usi convenuti e l'alterazione del loro reciproco rapporto, diventa necessario accertare quale uso fosse prevalente prima della modificazione e se questo abbia o non reso prevalente l'altro (Cass. III, n. 5689/1990). BibliografiaBarrasso, Di Marzio, Falabella, La locazione. Percorsi giurisprudenziali, Milano, 2008; Benedetti, La locazione tra codice civile e leggi speciali, in AA.VV., Contratti non soggetti all'equo canone, Milano, 1981; Bernardi, Coen, Del Grosso, Art. 4. 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