Codice di Procedura Civile art. 437 - Udienza di discussione 1 .Udienza di discussione1. [I]. Nell'udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa. Quando non provvede ai sensi dell'articolo 436-bis, il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza [429 1]2. [II]. Non sono ammesse nuove domande ed eccezioni. Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio [241; 2736 n. 2 c.c.], salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. È salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio [233; 2736 n. 1 c.c.] in qualsiasi momento della causa. [III]. Qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l'udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza. In tal caso il collegio con la stessa ordinanza può adottare i provvedimenti di cui all'articolo 423. [IV]. Sono applicabili le disposizioni di cui ai commi secondo e terzo dell'articolo 429. [1] Articolo sostituito dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533. [2] Comma così modificato dall'art. 3, comma 31, lett. c), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149 che ha sostituito le parole: «Quando non provvede ai sensi dell'articolo 436-bis, il collegio» alle parole: «Il collegio» (ai sensi dell'art. 52 d.lgs. n. 149 /2022 , il presente decreto legislativo entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale). Per la disciplina transitoria v. art. 35 d.lgs. n. 149/2022, come sostituito dall'art. 1, comma 380, lettera a), l. 29 dicembre 2022, n. 197, che prevede che : "1. Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.- 4. Le norme dei capi I e II del titolo III del libro secondo e quelle degli articoli 283, 434, 436-bis, 437 e 438 del codice di procedura civile, come modificati dal presente decreto, si applicano alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023". InquadramentoL'art. 437, comma 1, c.p.c. dispone che il giudice incaricato fa la relazione orale della causa ed il collegio, successivamente, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza. Nel rito del lavoro la disciplina della fase introduttiva del giudizio d'appello, risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano sin dal primo grado di giudizio, per cui, non sono ammesse domande nuove, nè modificazioni della domanda già proposta, sia con riguardo al petitum che alla causa petendi, non essendo consentito addurre in grado di appello, a sostegno della propria pretesa, fatti diversi da quelli allegati in primo grado, ancorché essi non involgano una trasformazione obiettiva del contenuto intrinseco della domanda stessa, essendo in detta fase precluse anche modifiche che comportino non una mutatio ma anche la semplice emendatio libelli. L'art. 437, comma 2, c.p.c. non prevede una deroga al divieto di domande nuove in appello con riferimento a quelle riguardanti i frutti gli accessori od il risarcimento dei danni maturati dopo la sentenza di primo grado. La violazione del divieto di proporre domande nuove, imposto dall'art. 437, comma 2, c.p.c. è rilevabile anche d'ufficio, non essendo superabile neppure in caso di acquiescenza della controparte o di accettazione del contraddittorio da parte di quest'ultima. Il divieto di nuove eccezioni in appello, secondo la prevalente opinione emersa in dottrina e giurisprudenza, riguarderebbe le eccezioni in senso stretto, rilevabili soltanto su istanza di parte, non anche quelle in senso lato, rilevabili d'ufficio, ed in ogni caso, non riguarderebbe le mere difese, sebbene, è controversa in giurisprudenza la contestazione di fatti originariamente non contestati dinanzi al giudice di prime cure. In appello, ai sensi dell'art. 437, comma 2, c.p.c. non sono ammessi nuovi mezzi di prova tranne il giuramento estimatorio – salvo che il collegio, anche d'ufficio li ritenga indispensabili ai fini della decisione. Le parti hanno facoltà di deferire in qualsiasi momento il giuramento decisorio. Le eccezioni processuali ammissibili in appello sono quelle rilevabili d'ufficio, oltre a quelle relative allo stesso giudizio di gravame. La relazione orale della causa in appelloL'art. 437, comma 1, c.p.c. dispone che nell'udienza il giudice incaricato fa la relazione orale della causa, la cui eventuale omissione, in violazione dell'art. 437, comma 1 c.p.c., si è affermato che non determina alcuna nullità, essendo tale norma, al pari dell'art. 275 c.p.c., concernente il rito ordinario, priva di sanzione ed avendo detta relazione una funzione informativa che può essere rinviata alla camera di consiglio (Cass., sez. lav., n. 23495/2010; Cass., sez. lav., n. 7759/2005, in cui si è affermato che la carenza della relazione non rende l'udienza di discussione inidonea al raggiungimento del suo scopo, che è solo quello di consentire alle parti l'illustrazione, dinnanzi al collegio, delle rispettive difese, né può pregiudicare il diritto di difesa delle parti, dato che queste, nella discussione, hanno ampia possibilità di illustrare le rispettive ragioni anche colmando, se ritenuto necessario, i vuoti dovuti al silenzio del relatore; Cass. III, n. 614/2003). L'istanza ed il pedissequo decreto di anticipazione dell'udienza di discussione ex art. 437 c.p.c. devono essere notificati alla parte non costituita personalmente, poiché la procura conferita per il primo grado non può spiegare effetti ulteriori a quelli previsti dall'art. 330 c.p.c. per la notifica dell'impugnazione, essendo questa l'unica ipotesi di ultrattività prevista dalla citata norma di rito, con la conseguenza che l'omessa od irrituale notifica alla parte non costituita configura una violazione del principio del contraddittorio, da cui deriva la nullità della successiva udienza di discussione e della sentenza resa, che ne comporta l'annullamento con rinvio al giudice d'appello. Difatti, qualora venga disposta l'anticipazione d'ufficio dell'udienza, senza che ne sia effettuata la notifica o la comunicazione ai difensori delle parti od alle parti personalmente quando non ancora costituite, viene leso irreparabilmente il diritto del convenuto a costituirsi entro la data consentitagli, derivandone una nullità insanabile, idonea a travolgere tutti gli atti del processo, compresa la sentenza. Con la precisazione che l'omessa notifica dell'anticipazione, verificatasi dopo la vocatio in ius, incide sulla valida instaurazione del contraddittorio e determina la nullità dell'attività espletata in assenza della parte, ivi compresa la pronuncia della sentenza, ma non produce effetti quanto agli atti già compiuti nel momento in cui si è verificata la nullità e, quindi, non è idonea a determinare la perdita di efficacia dell'editio actionis, stabilizzatasi in conseguenza della notificazione dell'originario decreto e, quindi, non rende improcedibile l'appello. Alla luce dei principi richiamati, l'omessa notifica dell'anticipazione, verificatasi dopo la vocatio in ius, incide sulla valida instaurazione del contraddittorio e determina la nullità dell'attività espletata in assenza della parte (Cass., sez. lav., n. 18253/2024). Il giudizio d'appello è collegiale, e, quindi, anche l'eventuale rinnovazione delle prove assunte in primo grado è di competenza del collegio (Luiso, 309). La relazione della causa che, nei giudizi innanzi ad organi collegiali, deve precedere la discussione delle parti, sia nel rito ordinario ex art. 275 c.p.c. che in quello del lavoro ex art. 437 c.p.c., non è prescritta a pena di nullità e la sua omissione non inficia, quindi, la validità della successiva sentenza, non essendo tale sanzione contemplata da alcuna specifica norma nè derivando la stessa dai principi fondamentali che regolano il processo civile (Cass., sez. lav., n. 23495/2010; Cass. III, n. 614/2003, da cui si evince che l'omessa relazione orale non inficiando nè la validità del contraddittorio nè l'attività decisionale del giudice non può, in mancanza di una specifica sanzione, determinare in alcun caso la nullità del procedimento; Cass., sez. lav., n.1615/1998, in cui si evidenzia altresì che l'omessa relazione orale della causa non incide sul raggiungimento dello scopo cui tendono le attività in cui si articola la relativa fase processuale). La lettura del dispositivo nel giudizio d'appelloIl collegio, effettuata la relazione orale della causa, sentiti nella discussione orale i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza, in quanto il d.l. n. 112/2008, convertito con modificazioni nella l. n. 133/2008, ha modificato l'art. 429 c.p.c. ma non l'art. 437, comma 1, c.p.c. il quale prevede sempre la lettura in udienza del solo dispositivo della decisione. In dottrina, si è quindi evidenziata la circostanza che la decisione della causa si realizza dando lettura del solo dispositivo in udienza e, successivamente, il deposito della sentenza completa della sua motivazione ex art. 438 c.p.c. La funzione della lettura del dispositivo è solo quella di portare a conoscenza immediata delle parti della controversia il suo epilogo, rendendo pubblica ed immodificabile la relativa decisione, che resta sempre e comunque attribuibile ai giudici che l'hanno deliberata in camera di consiglio, atteso il tenore letterale dell'art. 437 c.p.c. nella parte in cui stabilisce che “il collegio, sentiti i difensori, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo nella stessa udienza” rendendo con ciò evidente l'autonomia dei due momenti, costituiti dalla delibera della decisione e dalla sua esternazione, la quale, porta ad escludere che necessariamente alla lettura del dispositivo vada ricollegata la paternità della decisione (Cass. I, n. 12733/1999). Nel rito del lavoro deve attribuirsi la fede privilegiata dell'atto pubblico sia al verbale di udienza che al dispositivo della sentenza letto in udienza, compresa la relativa intestazione, il quale prevale sull'eventuale difforme contenuto della sentenza successivamente depositata, derivandone che, in caso di contrasto tra il verbale della discussione ed il dispositivo letto in udienza della sentenza di appello circa la composizione del collegio giudicante, tutta la sentenza deve ritenersi affetta da nullità insanabile per la non coincidenza tra il collegio della fase di discussione della causa e quello deliberante, né tale contrasto e la conseguente nullità possono essere eliminati mediante il procedimento di correzione degli errori materiali (Cass. lav., n. 35057/2021; Cass. lav., n. 14416/2004; Cass. lav., n. 3889/1999). L'art. 437 c.p.c., non richiama l'art. 429, comma 2, c.p.c., limitandosi a disporre che il collegio, sentiti i difensori delle parti, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo, dovendo quindi convenirsi che la disposizione di cui al novellato art. 429, comma 1, c.p.c., non è applicabile nel giudizio d'appello (Cass., sez. lav., n. 18267/2013). Al riguardo, in una pronuncia successiva (Cass. VI, n. 25305/2014), è stato altresì affermato che nelle controversie soggette al rito del lavoro l'omessa lettura del dispositivo all'udienza di discussione determina, ai sensi dell'art. 156, comma 2, c.p.c., la nullità insanabile della sentenza per mancanza del requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell'atto, correlato alle esigenze di concentrazione del giudizio e di immutabilità della decisione. Non determina, invece, nullità della sentenza l'omessa lettura del dispositivo nei casi in cui si risolve in una formalità vuota, e, quindi, inidonea al perseguimento dello scopo, come nell'ipotesi di generale mancanza, nell'aula di udienza, di coloro ai quali la lettura dovrebbe rivolgersi (Cass., sez. lav., n. 12061/1995). L'ascolto delle parti prima della lettura del dispositivoA norma dell'art. 437, comma 1, c.p.c., nell'udienza di discussione il giudice di appello non può pronunciare la sentenza se non “sentiti i difensori delle parti”, ragione per cui il suddetto giudice, dopo la relazione, deve ammettere le parti alla discussione orale del merito della causa, rivolgendo ai difensori, ogni volta che si renda necessario, quell'apposito invito che, prescritto espressamente solo nel giudizio di prime cure dall'art. 420, comma 4, c.p.c., è sottinteso nel giudizio di appello, unico ed intangibile essendo il diritto di difesa, da assicurare nell'identica pienezza tanto nell'uno quanto nell'altro grado (Cass. III, n. 6979/2000, in una fattispecie nella quale, non essendo ciò avvenuto, è stato ritenuto che la decisione era stata assunta senza che l'appellante fosse stato posto in grado di illustrare oralmente anche il merito del gravame, con palese violazione del diritto di difesa e conseguente nullità della sentenza). L'immodificabilità del collegio giudicanteIl giudice dovendo procedere alla trattazione della causa in composizione collegiale anche nella fase istruttoria, è soggetto al principio della sua immutabilità, il quale, però, in quanto inteso unicamente ad assicurare che i giudici che pronunciano la sentenza siano gli stessi che hanno assistito alla discussione della causa, trova applicazione dall'apertura della discussione fino alla deliberazione della decisione, con la conseguenza che non è configurabile alcuna nullità nei caso di mutamento della composizione del collegio nel corso dell'istruttoria. Il principio dell'immutabilità del giudice deve dunque intendersi nel senso che è necessaria, ai fini della validità della sentenza, l'identità tra il giudice avanti al quale si è svolta la discussione e quello che ha pronunciato la sentenza, rimanendo ininfluente la modifica del collegio giudicante rispetto a quello delle udienze precedentemente svoltesi senza che in esse si fosse dato corso alla trattazione della causa. Nel rito del lavoro, il principio di immodificabilità del collegio della Corte d'Appello giudicante comporta che non può essere diverso il collegio che abbia assistito alla discussione finale e quello che emette il dispositivo della sentenza all'esito della consequenziale camera di consiglio (Cass. lav., n. 6086/2021; conf. Cass. lav., n. 18126/2016). Ai sensi degli artt. 276,420 e 437 c.p.c., il principio dell'immodificabilità del collegio giudicante trova applicazione anche nel rito del lavoro, ma solo dal momento in cui inizia la discussione vera e propria, sicchè solo la decisione della causa da parte di un collegio diverso da quello che ha assistito alla discussione può dare luogo a nullità della sentenza, non rilevando, invece, una diversa composizione del collegio che abbia assistito a precedenti udienze di trattazione (Cass., sez. lav., n. 18156/2006; Cass., sez. lav., n. 18126/2016; Cass., sez. lav., n. 9968/2005, in cui si è precisato che la legittimazione del giudice a presiedere il collegio che ha emesso la sentenza non è contestabile per il solo fatto che non risulti un formale decreto di nomina specifico per quell'udienza, da parte del presidente del Tribunale, in quanto l'eventuale omissione delle condizioni stabilite dall'art. 174, comma 2, c.p.c., costituirebbe una semplice irregolarità formale, relativa ad un atto interno dell'ufficio giudiziario adito – Cass., sez. lav., n.5443/2001 – che di per sé non inciderebbe sulla legittimazione dello stesso giudice alle funzioni esercitate e non determinerebbe alcun vizio della sentenza; Cass., sez. lav., n. 12514/2004; Cass., sez. lav., n. 8588/2000; Cass., sez. lav., n. 6797/1999), siano esse di mero rinvio o di decisione sull'istanza di sospensione della provvisoria esecutorietà della sentenza impugnata (Cass., sez. lav., n.14781/2010; Cass., sez. lav., n. 10947/1998). Il principio di immodificabilità del collegio giudicante trova attuazione, nel rito del lavoro, solo dal momento dell'inizio della discussione, e va valutato solo in rapporto alla decisione che segue la discussione stessa (Cass., sez. lav., n. 3258/2003), atteso che laddove risulti che non sia stato rispettato, determina la nullità insanabile della sentenza, ai sensi dell'art. 158 c.p.c. (Cass., sez. lav., n. 18126/2016; Cass., sez. lav., n. 18156/2006; Cass., sez. lav., n. 6797/1999, in cui si afferma la nullità ex art. 158 c.p.c. della sentenza per effetto del contrasto relativamente alla composizione del collegio che ha deciso la causa, tra le risultanze del verbale di udienza e le attestazioni del dispositivo letto in udienza, entrambe riferibili al momento della deliberazione della sentenza, il quale, in relazione all'efficacia probatoria propria di tali atti, determina un'assoluta incertezza sul permanere dell'identità di tale composizione dal momento della discussione della causa a quello della lettura del dispositivo). In particolare, si è affermato che quando risulti accertata, attraverso il verbale redatto all'udienza di discussione, la reale composizione del collegio dinanzi al quale la causa fu discussa, e tanto più nel rito del lavoro, quando vi sia coincidenza, per quanto riguarda la composizione del collegio, tra l'intestazione del verbale di udienza e del dispositivo letto nella medesima, tanto basta per ritenere – fino a querela di falso – che la sentenza sia stata deliberata da quegli stessi giudici che hanno partecipato alla discussione con la conseguenza che, in detta situazione, è del tutto irrilevante che il giudice indicato nell'intestazione della sentenza come relatore – che comunque dai suddetti atti risulti che abbia indubitabilmente composto il collegio – sia diverso da quello che abbia materialmente redatto la relativa motivazione, in base ad un provvedimento di carattere organizzativo interno del presidente della sezione resosi necessario a causa del collocamento in pensione dell'originario relatore, intervenuto dopo la lettura del dispositivo della sentenza, il quale assume autonoma rilevanza documentale limitatamente al contenuto volitivo della decisione e non più modificabile dai suoi autori. Il vizio di costituzione è ravvisabile solo quando gli atti giudiziali siano posti in essere da persona estranea all'ufficio e non investita della funzione esercitata, e, quindi, non è riscontrabile quando si verifichi una sostituzione tra giudici di pari funzioni e di pari competenza, appartenenti al medesimo ufficio giudiziario; ne consegue che la sostituzione del giudice senza l'osservanza delle condizioni stabilite dagli artt. 174 c.p.c. e 79 disp. att. c.p.c. costituisce in difetto di espressa sanzione di nullità, una mera irregolarità di carattere interno che non incide sulla validità dell'atto e non è causa di nullità del giudizio o della sentenza (Cass., sez. lav., n. 20463/2014). Il divieto di ammissione di nuove domande in appelloIl fatto storico, inteso come avvenimento umano o fattuale intervenuto nella vicenda oggetto di causa, non va confuso con il fatto giuridico costitutivo, che è invece il fondamento della pretesa creditoria, occorrendo avere unicamente riguardo a quest'ultimo al fine di riscontrare se vi sia stato o meno mutamento della domanda in appello. Infatti, si ha domanda nuova per modificazione della causa petendi anche quando sia diverso il titolo giuridico della pretesa, essendo impostato su presupposti di fatto e su situazioni giuridiche diverse da quelle prospettate in primo grado. Al riguardo va precisato che nel rito del lavoro la preclusione in appello di un'eccezione nuova sussiste nel solo caso in cui la stessa abbia introdotto in sede di gravame un nuovo tema d'indagine, così alterando i termini sostanziali della controversia e determinando la violazione del principio del doppio grado di giurisdizione (Cass. VI, 26 agosto 2022 n. 25379; Conf. Cass. VI, 25 agosto 2022 n.25334). La giurisprudenza di legittimità ha dunque chiarito che costituisce domanda nuova, non proponibile per la prima volta in appello, quella che, alterando anche uno soltanto dei presupposti della domanda iniziale, introduca una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate in primo grado, inserendo nel processo un nuovo tema di indagine, sul quale non si sia formato in precedenza il contraddittorio (Cass. VI, n. 23415/2018). Tuttavia nel rito del lavoro, il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti, non osta all'ammissione d'ufficio delle prove, trattandosi di un potere diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, ritualmente acquisite agli atti del giudizio di primo grado (Cass. Lav., 17 agosto 2022 n. 24860). Pertanto, il divieto dello jus novorum non concerne soltanto le allegazioni in fatto e l'indicazione degli elementi di prova, ma anche (e soprattutto) la specificazione delle causae petendi fatte valere in giudizio a sostegno delle azioni e delle eccezioni, pur se la nuova prospettazione sia fondata sulle stesse circostanze di fatto, ma non si risolva in una semplice precisazione di una tematica già acquisita al giudizio (Cass. VI, n. 535/2018; Cass., sez. lav., n.15506/2015; Cass., sez. lav., n. 16298/2010; Cass., sez. lav., n. 8342/2010, che appunto precisa che si configura domanda nuova – come tale, inammissibile in appello – quando gli elementi dedotti in secondo grado comportano il mutamento dei fatti costitutivi del diritto azionato, integrando una pretesa diversa, per la sua intrinseca essenza, da quella fatta valere in primo grado, e ciò anche se tali fatti erano già stati esposti nell'atto introduttivo del giudizio al mero scopo di descrivere ed inquadrare altre circostanze, e soltanto nel giudizio di appello, per la prima volta, siano stati dedotti con una differente portata, a sostegno di una nuova pretesa, determinando in tal modo l'introduzione di un nuovo tema di indagine e di decisione; Cass., sez. lav., n. 6431/2006). Il divieto di ammissione di nuove eccezioni in appelloAi sensi dell'art. 437, comma 2, c.p.c. non sono ammesse nuove domande ed eccezioni vigendo in appello il divieto di ius novorum. Al riguardo va però precisato che nel rito del lavoro, il divieto di nuove eccezioni in appello, stabilito dall'art. 437, comma 2, c.p.c., in tema di rito del lavoro, richiamato per le controversie in materia di locazione dall'art. 447-bis c.p.c., concerne soltanto le eccezioni in senso proprio relative a fatti impeditivi, modificativi o estintivi del diritto fatto valere in giudizio, non rilevabili d'ufficio, e non anche le c.d. eccezioni improprie o mere difese volte solo a negare l'esistenza dei fatti posti a fondamento della domanda od a contestare il valore probatorio dei mezzi di istruzione esperiti in primo grado (Cass., sez. lav., n. 7621/2015; Cass. III, n. 1990/2014; Cass., sez. lav., n. 20157/2012; Cass., sez. lav., n. 28703/2011; Cass., sez. lav., n. 4545/2009; Cass., sez. lav., n. 20176/2008; Cass. III, n. 23815/2007; Cass., sez. lav., n. 8855/2002; Cass., sez. lav., n. 9238/2001), le quali ben possono essere dedotte anche per la prima volta in appello, purchè i fatti su cui si fondino risultino essere stati già acquisiti agli atti nel corso del giudizio di primo grado previo rituale e tempestivo esercizio del potere di allegazione (Cass., sez. lav., n. 9684/2003), atteso che le nullità conseguenti alla violazione del principio del contraddittorio e alla invalida costituzione del rapporto processuale sono rilevabili anche d'ufficio in ogni stato e grado del giudizio (Cass. I, n. 5067/1998). In particolare, in tema di procedimento di appello è qualificabile come eccezione nuova solo quella che non abbia alcuna connessione logica con quanto dedotto in primo grado, così da costituire una ragione di indagine diversa da quella ivi espletata, senza che questo possa trovare giustificazione nello svolgimento precedente del processo, nè può essere considerata nuova la questione di diritto prospettata a corredo della già avvenuta deduzione di un fatto impeditivo o estintivo della pretesa azionata con la domanda avanzata (Cass. lav., n. 2271/2021). A ciò aggiungasi che il rilievo d'ufficio delle eccezioni in senso lato non è subordinato alla specifica e tempestiva allegazione della parte ed è ammissibile anche in appello, dovendosi ritenere sufficiente che i fatti risultino documentati ex actis, in quanto, il regime delle eccezioni si pone in funzione del valore primario del processo, costituito dalla giustizia della decisione, che altrimenti resterebbe travisato ove anche le questioni rilevabili d'ufficio fossero subordinate ai limiti preclusivi di allegazione e prova previsti per le eccezioni in senso stretto. D'altro canto, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il rigoroso sistema di preclusioni stabilito dal processo del lavoro trova un contemperamento, ispirato alla esigenza della ricerca della cd. verità materiale, cui è doverosamente funzionalizzato lo speciale rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento nei poteri d'ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, anche in appello, ove essi siano indispensabili ai fini decisori (Cass. lav., n. 22371/2021; Cass. lav., n. 20055/2016). In dottrina, si ritengono ammissibili le eccezioni processuali non precluse dal giudizio di primo grado, tali essendo le eccezioni rilevabili d'ufficio e quelle riguardanti la proponibilità dello stesso giudizio d'appello (Consolo, 451; Luiso, 292; Tarzia, Dittrich, 348). Pertanto, il suddetto divieto non può incidere sull'obbligo del giudice d'appello di riesaminare e valutare autonomamente, nei limiti segnati dai motivi d'impugnazione, le risultanze istruttorie ai fini del riesame della controversia alla stregua delle doglianze prospettate dall'appellante (Cass. III, n. 13076/2004). In ordine al concetto di eccezione in senso stretto, premesso che il legislatore presuppone la distinzione con l'eccezione in senso lato, ma non la definisce, affidandola così all'interprete, è stato affermato che in esso rientrano soltanto quelle come tali espressamente definite dalla legge, nonché quelle corrispondenti all'esercizio di un diritto potestativo (Cass., sez. lav., n. 16501/2004; Cass. S.U., n. 15661/2005). Il divieto di ammissione di nuovi mezzi di prova in appelloL'art. 437, comma 2, c.p.c. stabilisce che non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d'ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. Infatti secondo il più recente e consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità ed anche di merito, per quanto sia vero che nel rito del lavoro occorre contemperare il principio dispositivo con quello di verità, con la conseguenza che ai sensi dell'art. 421 c.p.c. ed anche dell'art. 437 comma 2 c.p.c., la richiesta di nuove istanze istruttorie o dell'acquisizione di documenti non prodotti tempestivamente entro le preclusioni e decadenze di legge, non è oggetto di preclusione assoluta, ed il giudice può ammettere d'ufficio dette istanze o documenti ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione. Inoltre è altrettanto vero che l'attivazione di questi poteri officiosi presuppone che le nuove istanze e produzioni siano idonee a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché allegati nell'atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative piste probatorie emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito (App. Brescia 12 gennaio 2021; conf. Cass. lav., n. 26597/2020; Cass. lav., n. 11845/2018). Al riguardo, occorre ribadire il principio enunciato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui nel rito del lavoro, i mezzi istruttori, preclusi alle parti, possono essere ammessi d'ufficio, ma suppongono, tuttavia, la preesistenza di altri mezzi istruttori, ritualmente acquisiti, che siano meritevoli dell'integrazione affidata alle prove ufficiose. Infatti nel rito del lavoro, il principio dispositivo è contemperato con le esigenze della ricerca della verità materiale exartt. 421 e 437 c.p.c., ragione per cui l'acquisizione d'ufficio di eventuali atti interruttivi della prescrizione esercitata da parte del giudice di prime cure, benché la parte interessata fosse decaduta dalla facoltà di produrli, deve ritenersi legittima (Cass. Lav., 9 agosto 2022 n. 24545). A ciò aggiungasi che i poteri officiosi del giudice del lavoro non possono essere esercitati con riferimento a fatti non allegati dalle parti e non emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse, ragione per cui, l'indisponibilità, che consente la produzione tardiva di documenti suppone che, al momento fissato, a pena di preclusione o decadenza, per la loro produzione, fosse oggettivamente impossibile disporne, trattandosi di documenti la cui formazione risulti, necessariamente, successiva a quel momento (Cass., sez. lav., n.8381/2019; Cass., sez. lav., n. 17178/2006). In buona sostanza, in base al combinato disposto degli artt. 416, comma 3, e 437, comma 2, c.p.c., che pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova, fra i quali devono annoverarsi anche i documenti, l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l'omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi delle vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (Cass. S.U., n. 8202/2005). Lo stesso art. 437, comma 2, c.p.c. prevede che è salva la facoltà delle parti di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa. La formula adottata dall'art. 437, comma 2, c.p.c., nel rito del lavoro è applicabile, a norma dell'art. 447-bis c.p.c., anche alle controversie in materia di locazione, secondo cui il giuramento decisorio può essere deferito, in grado d'appello, in qualsiasi momento della causa, e, quindi, anche nel corso della discussione orale e fino al compimento di questa, restando quindi escluso che l'appellante, il quale intenda deferire il giuramento, abbia l'onere di individuare la relativa formula sin dall'atto introduttivo del gravame (Cass. III, n. 7923/2002). Il divieto in appello di nuovi mezzi di prova comprende anche i documentiIl principio sancito dall'art. 437, comma 2, c.p.c. secondo cui in appello non sono ammessi nuovi mezzi di prova, trova un contemperamento nei poteri officiosi del giudice collegiale, ai sensi del citato art. 437, comma 2, c.p.c., quando li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa il cui esercizio, tuttavia, deve intendersi riferito ai fatti allegati dalle parti nel processo in contraddittorio di quest'ultime. In buona sostanza, la previsione dell'art. 437, comma 2, c.p.c. concerne fatti già tempestivamente allegati, in quanto, non possono farsi entrare nel processo circostanze la cui deduzione è ormai preclusa alle parti in causa, così come, il carattere della “novità”, comporta che essi non siano stati già dedotti in primo grado (Di Marzio, 2). L'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, ricorso o comparsa di risposta, dei documenti, anche eventualmente attinenti ad eccezioni rilevabili d'ufficio o l'omesso deposito degli stessi contestualmente al suddetto atto introduttivo, determinano la decadenza dal diritto di produrli, ove non si tratti di documenti formatisi dopo l'inizio del predetto giudizio ovvero di documenti la produzione dei quali sia giustificata dallo sviluppo assunto successivamente dal giudizio. La decadenza in cui è incorsa la parte dal produrre i documenti in primo grado, esclude dunque la possibilità che possano essere prodotti anche in appello, e, poiché i documenti devono ritenersi compresi nei nuovi mezzi di prova indicati dall'art. 437, comma 2, c.p.c., la parte può produrli in appello soltanto ove – attraverso la stessa logica dell'art. 420, commi 5 e 7, c.p.c. – la loro produzione sia giustificata dal tempo della formazione o dallo sviluppo assunto dal processo, e, sia dal Collegio ritenuta indispensabile per la decisione della causa (Cass., sez. lav., n. 775/2003). La produzione di nuovi documenti in appello, deve allora essere esclusa quando non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione in primo grado, ovvero quando non abbia ad oggetto documenti destinati a provare un fatto di cui, con ragionevole attendibilità, non era prevedibile una particolare contestazione. In ordine al divieto di produzione di documenti nuovi in appello, l'art. 437 c.p.c. cui deve aversi riguardo nelle controversie locatizie modulate sul rito del lavoro, stabilisce, a differenza dell'art. 345 c.p.c. novellato, che nel detto rito, in deroga al generale divieto di nuove prove in appello, è possibile l'ammissione di nuovi documenti su richiesta di parte od anche d'ufficio, nel caso in cui essi abbiano una speciale efficacia dimostrativa e siano ritenuti indispensabili ai fini della decisione della causa, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado (App. Palermo 1° aprile 2021; Cass. lav., n. 8441/2020). Ad essere indispensabili quei documenti che sono dotati di un grado di decisività e certezza tale che, da soli considerati, conducano ad un esito necessario della controversia. Inoltre si è affermato che l'art. 437 comma 3 c.p.c. circa la fissazione di una nuova udienza in cui assumere nuove prove documentali si riferisce alle prove testimoniali o periziali, non a quelle documentali (Cass. Lav., 2 agosto 2022 n. 23996). La valutazione dell'indispensabilità dei nuovi mezzi di prova in appelloL'art. 437, comma 2, c.p.c. si riferisce alle prove indispensabili, tali essendo tutti i nuovi mezzi di prova, compresi i documenti. Pertanto, ai fini dell'operatività delle preclusioni e dei termini di decadenza, deve operarsi una completa equiparazione tra prova precostituita e prova costituenda, con la conseguenza che l'omessa indicazione in primo grado dei documenti e l'omesso deposito degli stessi negli atti introduttivi della controversia – ricorso per l'attore e comparsa di costituzione per il convenuto – determina, salva la previsione contenuta nell'art. 437, comma 2, c.p.c., la decadenza delle parti dal diritto di avvalersi dei documenti ai fini probatori, in quanto, l'irreversibilità dell'estinzione del diritto di produrli, dovuta al mancato rispetto dei termini perentori e decadenziali, rende il diritto stesso insuscettibile di riviviscenza in grado di appello (Cass., sez. lav., n. 11922/2006). Le Sezioni Unite (Cass. S.U., n. 10790/2017) sono intervenute sulla questione se le prove indispensabili sono quelle dotate di un'influenza causale più incisiva rispetto a quella che le prove, definite come rilevanti, hanno sulla decisione finale della controversia, per effetto della valutazione compiuta dal giudice, espressa in un suo provvedimento motivato – che per quanto attiene alla “indispensabilità” delle nuove prove, deve comunque essere preventivamente supportato dall'assolvimento dell'onere di allegazione della parte, che tali prove chiede di produrre in grado d'appello, con particolare riferimento alle ragioni che le rendono indispensabili, competendo poi al giudice, il potere-dovere di verificarne o meno d'ufficio la relativa fondatezza (Cass. I, n. 17341/2015; Cass. I, n. 16745/2014) – ovvero le prove in grado di dissipare lo stato d'incertezza sui fatti controversi, od ancora, quelle che siano divenute utili e necessarie per effetto delle valutazioni sulle risultanze istruttorie di primo grado esposte nella sentenza appellata. La quaestio juris è stata risolta dalla Sezioni Unite condividendo il primo e prevalente orientamento, in sostanziale continuità con le precedenti pronunce (Cass. S.U., n. 8203/2005; Cass. S.U., n. 8202/2005) affermando il principio di diritto secondo cui prova nuova indispensabile di cui al testo dell'art. 345, comma 3, c.p.c., previgente rispetto alla novella di cui all'art. 54, comma 1, lett. b), d.l. n. 83/2012, convertito in l. n. 134/2012, è quella di per sè idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio, oppure provando quel che era rimasto non dimostrato o non sufficientemente dimostrato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado. In buona sostanza, in sede di gravame il mezzo istruttorio è indispensabile quando appaia idoneo, per lo spessore contenutistico che lo connota, a sovvertire il verdetto di primo grado, nel senso di mutare il contenuto di uno o più giudizi di fatto sui quali si basa la pronuncia impugnata, fornendo un contributo decisivo all'accertamento della verità materiale, in coerenza con i principi del giusto processo (Cass., sez. lav., n. 8568/2016), o quando si tratta di prove che appaiono idonee a fornire un contributo essenziale all'accertamento della verità materiale, per essere dotate di un grado di decisività e certezza tale che, di per sè sole, quindi anche a prescindere dal loro collegamento con altri elementi di prova e con altre indagini, conducano ad un esito “necessario” della controversia (Cass. III, n. 13432/2013) od ancora, qualora la prova sia idonea a colmare le lacune del materiale istruttorio raccolto in primo grado. La giurisprudenza di legittimità, più recentemente, ha affermato il principio che il giudice d'appello nell'esercizio dei suoi poteri istruttori d'ufficio, in applicazione del precetto di cui all'art. 437, comma 2, c.p.c., deve acquisire e valutare i documenti esibiti nel corso del giudizio dall'appellato, sia pure non in contestualità con il deposto della memoria di costituzione, allorquando detti documenti siano indispensabili in quanto di per sè idonei a decidere in maniera definitiva la questione controversa tra le parti sull'ammissibilità del gravame (Cass., sez. lav., n. 11994/2018). L'art. 421 c.p.c. nel primo grado di giudizio, e l'art. 437 c.p.c. per il giudizio di appello, dispensa la parte dall'onere della formale richiesta della prova e dagli oneri relativi alle modalità di formulazione dell'oggetto della prova, ma richiede che, dall'esposizione dei fatti compiuta dalle parti o dall'assunzione degli altri mezzi di prova, siano dedotti, sia pure implicitamente, quei fatti e quei mezzi di prova idonei a sorreggere le ragioni della parte ed a decidere la controversia, e cioè che sussistano significative piste probatorie emergenti dagli atti di causa, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado (Cass., sez. lav., n. 18924/2012; Cass., sez. lav., n. 2379/2007, in cui si è precisato che all'ammissione d'ufficio delle prove non è di ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti interessate, atteso che il potere d'ufficio è diretto a vincere i dubbi residuati dalle risultanze istruttorie, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado, con la conseguenza che, in tale caso, non si pone propriamente alcuna questione di preclusione o decadenza processuale a carico della parte, essendo la prova “nuova” disposta d'ufficio, solo l'approfondimento, ritenuto indispensabile, di elementi probatori già obiettivamente presenti della realtà del processo; Cass. S.U., n. 11353/2004, in cui si ribadisce che allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d'ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti), perchè solo così il giudice non si sostituisce alla parte, ma si limita a riempire le lacune probatorie di un accertamento che, anche se incompleto, presenta tuttavia notevoli gradi di fondatezza. Conseguentemente, il deposito in appello di documenti non prodotti dinanzi al giudice di prime cure non è oggetto di preclusione assoluta, in quanto il giudice di appello, nell'esercizio dei poteri officiosi di cui all'art. 437 c.p.c., può sempre ammettere i suddetti documenti ove li ritenga indispensabili al fine della decisione e sempre che sussista una pista probatoria, nel senso sopraindicato (Cass., sez. lav., n. 11845/2018). Inoltre, il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello – previsto dall'art. 345, comma 3, c.p.c., con riferimento al rito di cognizione ordinaria e dall'art. 437, comma 2, c.p.c. in relazione al processo del lavoro – non attiene al merito della decisione, ma al rito, in quanto la relativa questione rileva ai fini dell'accertamento della preclusione processuale eventualmente formatasi in ordine all'ammissibilità di una richiesta istruttoria di parte (Cass. I, n. 1277/2016). Qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l'udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza. Nel rito del lavoro, il verbale di udienza attesta la composizione del collegio non solo nel momento della discussione, ma anche in quello della deliberazione, perché vi si dà atto del ritiro in camera di consiglio del collegio presente alla discussione e del ritorno in udienza dello stesso collegio per la lettura del dispositivo da parte del presidente (Cass., sez. lav., n. 4390/1991). Il giuramento decisorio in appelloL'art. 437, comma 2, c.p.c. ammette le parti alla facoltà di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa. In dottrina, si è osservato che l'ammissibilità del giuramento decisorio non richiederebbe il giudizio sulla sua indispensabilità ai fini decisori (Luiso, 296). Il giuramento decisorio è ammissibile anche se abbia per oggetto circostanze accertate od escluse dalle risultanze processuali già acquisite agli atti di causa, ovvero le stesse circostanze che la parte deferente intendeva dimostrare con un diverso mezzo di prova, documentale o testimoniale, dal quale la parte stessa sia decaduta. Tuttavia, è necessario che la domanda o l'eccezione, di cui il giuramento decisorio tende a provare la fondatezza, sia stata tempestivamente proposta per non incorrere nel divieto di nuove domande in grado di appello, perché il giuramento decisorio può essere deferito per la prima volta in grado di appello, ma non può essere ammesso quando verta su fatti la cui deduzione in secondo grado risulti preclusa (Cass., sez. lav., n. 2250/1995). L'art. 437, comma 2, c.p.c. ha cura di precisare, per il grado d'appello, che il giuramento decisorio può essere deferito in qualsiasi momento della causa, il che impone di ammettere – ovviamente, previa valutazione della regolarità formale e dell'attitudine decisoria – che il giuramento possa essere deferito anche in sede di discussione orale, fino al compimento di quest'ultima, per tale ragione, dovendosi escludere che l'appellante, il quale intenda definire il giuramento, abbia l'onere di individuare la relativa formula sin dall'atto introduttivo del gravame (Cass., sez. lav., n. 6441/1995). L'atto di appello con il quale si lamenta la mancata ammissione del giuramento decisorio ritualmente deferito in primo grado, riproposto ex art. 233 c.p.c., deve essere sottoscritto personalmente dalla parte o dal procuratore munito di mandato speciale, in quanto, il mero richiamo all'atto con il quale il suddetto giuramento è stato deferito in primo grado è idoneo solo ad evitare una nuova trascrizione dei capitoli in cui si articola, essendo sufficiente, a tale fine, richiamare l'atto del giudizio di primo grado con il quale il giuramento stesso era stato deferito (Cass., sez. lav., n. 1014/2003). Nelle controversie soggette al rito del lavoro, trova applicazione l'art. 208 c.p.c., concernente la decadenza dall'assunzione della prova, secondo cui il giudice, dichiarata la decadenza, deve comunque fissare un'udienza successiva, per dare modo alla parte non comparsa di instare, se del caso, per la rimessione in termini, da ciò conseguendo che incorre in error in procedendo il giudice d'appello che, ammessa la prova di cui trattasi, e constatata l'assenza della parte istante all'udienza all'uopo fissata, dichiari la decadenza di quest'ultima, e, decida, subito dopo, la causa, senza rinviare ad un'udienza successiva onde consentire, in quella sede, le eventuali difese della stessa parte, atteso che la disciplina dettata dall'art. 437, comma 3, c.p.c., secondo cui qualora ammetta le nuove prove, il collegio fissa, entro venti giorni, l'udienza nella quale esse debbono essere assunte e deve essere pronunciata la sentenza, non comporta un obbligo assoluto di decidere la causa nella stessa udienza dell'assunzione, stante la facoltà di concedere alle parti, dopo l'assunzione, un termine per il deposito di note difensive, rinviando la causa all'udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine, per la discussione e la pronuncia della sentenza, e tenuto conto, peraltro, che la regola della contestualità presuppone comunque che la prova ammessa sia stata anche assunta, laddove, nel caso di mancata assunzione per l'assenza ingiustificata della parte, il rinvio è imposto dal citato art. 208, comma 2, c.p.c. (Cass., sez. lav., n. 20777/2012; Cass. III, n. 5416/2005). La stessa norma in commento ammette anche il deferimento del giuramento estimatorio ma nulla afferma circa l'ammissibilità del giuramento suppletorio. La dottrina sull'ammissibilità del deferimento del giuramento estimatorio e suppletorio è divisa tra coloro che sono favorevoli a tale soluzione (Luiso, 296; Tarzia, Dittrich, 352) e chi invece ritiene di privilegiare il più rigoroso rispetto formale del dettato normativo, escludendo la facoltà di deferire il giuramento suppletorio (Fabbrini, 245; Montesano, Vaccarella, 335). Al riguardo va infatti precisato che il giuramento suppletorio, ai sensi dell'art. 2736, n. 2) c.c., è deferibile d'ufficio, ed è quindi oggetto di un potere esercitabile esclusivamente dal giudice, potendo la parte, la quale non ha neanche il diritto di ricevere risposta, meramente sollecitare l'esercizio discrezionale di tale potere. Stando così le cose, non può invocarsi l'art. 437 c.p.c., che regola soltanto l'attività delle parti in appello senza porre divieti ai poteri che il giudice può esercitare ex officio. Pertanto, anche il giudice d'appello può ammettere il giuramento suppletorio, quando ritenga la domanda o le eccezioni non pienamente provate, ma neppure del tutto sfornite di prova ex art. 2736 c.c., come potrebbe accadere nel caso concreto, in presenza di una differente valutazione dei fatti decisivi della controversia. La possibilità di definire il giuramento suppletorio non è dunque condizionata dall'indispensabilità ai fini della decisione, poiché tale requisito è richiesto dall'art. 437 c.p.c. per i mezzi che la parte può richiedere, atteso che la ragione per cui l'art. 437 c.p.c. ammette espressamente la facoltà delle parti costituite di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa senza menzionare anche il giuramento suppletorio, è agevolmente ravvisabile nella circostanza che il primo è un mezzo istruttorio di parte, e, quindi, soggiacendo alle preclusioni di cui all'art. 437 c.p.c., necessariamente va escluso in modo espresso, mentre il secondo, è un mezzo di prova deferibile solo dal giudice, al quale non si rivolge il dettato dell'art. 437 c.p.c. (Cass., sez. lav., n. 10441/1996). L'ordinanza per il pagamento di somme non contestateL'art. 437, comma 3, c.p.c. dispone che quando ammette le nuove prove, il collegio, fissata l'udienza per la loro assunzione entro venti giorni, e deve essere pronunciata la sentenza, ed in tale caso, il collegio con la stessa ordinanza può adottare i provvedimenti di cui all'art. 423 c.p.c. Il rito del lavoro, come del resto anche l'ordinario processo di cognizione, è, come è noto, fondato sul sistema delle preclusioni, al fine di consentire all'attore-ricorrente di conseguire rapidamente il bene della vita reclamato, ragione per cui, divengono incontestabili tutte le situazioni fattuali in ordine alle quali non sussistano divergenze fra le parti. La suddetta regola è espressamente sancita nel rito del lavoro dell'art. 423 c.p.c. – applicabile anche in appello – laddove prevede che il giudice dispone, con ordinanza, il pagamento delle somme non contestate. In dottrina, non si è mancato di osservare la scarsa applicazione dell'istituto in esame nel giudizio in fase di gravame (Luiso, 311). L'effetto della mancata contestazione, comporta, prima della decisione, una conseguenza analoga a quella prevista dopo la decisione, dall'art. 329 c.p.c., che preclude l'impugnazione per i punti di decisione per i quali vi sia stata acquiescenza. L'art. 437, comma 4, c.p.c. dispone che sono applicabili le disposizioni di cui all'art. 429, comma 2 e 3, c.p.c. Quest'ultima norma, prevede a sua volta che il giudice, ove lo ritenga necessario, su richiesta delle parti, concede alle stesse un termine non superiore a dieci giorni per il deposito di note difensive, rinviando la causa all'udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine suddetto, per la discussione e la pronuncia della sentenza. Inoltre, l'art. 429, comma 3, c.p.c. – disposizione quest'ultima non applicabile alle controversie rette dal rito locatizio, in quanto non espressamente richiamato dall'art. 447-bis c.p.c. – il giudice, quando pronuncia la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, anche il maggiore danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto. L'inattività delle parti in appelloLa disciplina dell'inattività delle parti dettata dal codice di procedura civile, con riguardo sia al giudizio di primo grado che a quello di appello, si applica anche al rito del lavoro, non ostandovi la specialità di tale rito, nè i principi cui esso si ispira. L'art. 348 c.p.c. è posto a esclusiva tutela di un interesse, reputato meritevole di tutela, del solo appellante, come esplicita la stessa disposizione che individua nel solo appellante il soggetto destinatario e fruitore della relativa tutela. Conseguentemente, la parte ricorrente non ha alcun apprezzabile interesse a lamentarsi dell'omesso ulteriore rinvio della causa, ex artt. 181 e 309 c.p.c., giustificandolo in base all'assenza dell'appellato nella successiva udienza di discussione di cui entrambe le parti erano a conoscenza, l'una per comunicazione debitamente fattagli, l'altra avendovi presenziato (Cass., sez. lav., n. 66/2001). Ai sensi dell'art. 348, comma 1, c.p.c., anche in tali controversie, la mancata comparizione dell'appellante all'udienza di cui all'art. 437 c.p.c. non consente la decisione della causa nel merito, ma impone la fissazione di nuova udienza, da comunicare nei modi previsti, nella quale il ripetersi di tale difetto di comparizione comporta la dichiarazione di improcedibilità dell'appello (Cass., sez. lav., n. 5238/2011; Cass., sez. lav., n. 5643/2009; Cass., sez. lav., n. 5125/2007; Cass., sez. lav., n. 6326/2001; Cass. III, n. 848/1996; Cass. S.U., n. 5839/1993). In particolare, la mancata comparizione dell'appellante alla prima udienza, benché si sia anteriormente costituito, comporta che ai sensi dell'art. 348, comma 2, c.p.c. applicabile anche nel rito lavoristico, il collegio, con ordinanza non impugnabile, rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all'appellante, e se anche alla nuova udienza l'appellante non compare, l'appello è dichiarato improcedibile anche d'ufficio. Pertanto, ove tale inattività si verifichi nell'udienza prevista dall'art. 437 c.p.c., si deve fare riferimento rispettivamente agli artt. 181 c.p.c. richiamato nel giudizio di secondo grado dall'art. 359 c.p.c., ed ex art. 348 c.p.c., a seconda che nell'udienza in questione non siano presenti entrambe le parti o sia presente il solo appellato, fermo restando che in entrambe le ipotesi non è consentita l'immediata decisione della causa, dato che questa deve essere rinviata ad una nuova udienza da comunicarsi nei modi previsti. Il ripetersi della mancata comparizione alla successiva udienza comporta conseguenze diverse nelle due ipotesi sopra considerate, giacché nella prima – assenza di entrambe le parti – deve essere ordinata la cancellazione della causa dal ruolo, mentre nella seconda – assenza del solo appellante – deve essere dichiarata l'improcedibilità dell'impugnazione (Cass., sez. lav., n. 6334/2001). Il provvedimento, pronunciato in forma di ordinanza, con cui il giudice d'appello, in una controversia soggetta al rito del lavoro, ha dichiarato improcedibile il ricorso per la mancata comparizione dell'appellante, va qualificato come sentenza perché ha definito il giudizio decidendo una questione pregiudiziale attinente al processo, ed è pertanto impugnabile con ricorso per cassazione (Cass., sez. lav., n. 2851/2004; Cass. III, n. 848/1996). Nell'ipotesi in cui all'appellante non sia stato comunicato il deposito del decreto presidenziale di fissazione dell'udienza di comparizione, e, lo stesso appellante non sia comparso all'udienza fissata in quel decreto, deve emettersi un nuovo provvedimento di fissazione di altra udienza di discussione dando comunicazione, dell'avvenuto deposito dello stesso, all'appellante non comparso (Cass., sez. lav., n. 66/2001). Nel rito del lavoro, la mancata comunicazione all'appellante dell'avvenuto deposito del decreto di fissazione dell'udienza di discussione, esclude l'insorgere dell'onere di quest'ultimo di provvedere alla notificazione dell'atto di gravame e del decreto stesso (Cass., sez. lav., n. 9122/2019). L'omesso deposito del fascicolo di parte e della sentenza in appelloNel rito del lavoro, la costituzione dell'appellante richiede il solo deposito del ricorso nella cancelleria del giudice di secondo grado ex art. 434 c.p.c., non anche il deposito del fascicolo di parte e della sentenza impugnata, sicché il mancato deposito di questi ultimi, ancorché necessario in relazione ai motivi del gravame, comporta non l'improcedibilità ma solo l'eventuale rigetto nel merito della impugnazione, per difetto di prova (Cass., sez. lav., n. 10707/2002). Infatti, nel caso di mancato deposito del fascicolo di parte e della sentenza impugnata, il giudice che non possa supplire con gli atti di causa, deve ordinare all'appellante a norma dell'art. 421 c.p.c., il deposito del proprio fascicolo, e, qualora tale onere probatorio non venga adempiuto, persistendo la mancanza della documentazione, deve rigettare l'appello nel merito (Cass., sez. lav., n. 2379/1989). La mancata produzione della sentenza impugnata, in sede di deposito del ricorso in appello, non determina l'automatica declaratoria dell'improcedibilità del gravame, ai sensi dell'art. 348, comma 2, c.p.c., ma comporta che il giudice, ove non possa supplire con gli atti di causa, deve ordinare all'appellante, a norma dell'art. 421 c.p.c., il suddetto deposito e, in caso d'inosservanza dell'ordine, con la persistente carenza della documentazione necessaria ai fini della decisione, rigettare nel merito l'impugnazione (Cass. S.U., n. 899/1999). Comunicazione rinvio d'ufficio dell'udienza di discussioneCostituisce principio generale, desumibile dagli artt. 307, 181, 348 c.p.c. e 87 disp. att., c.p.c., che, in ogni caso in cui, per inattività delle parti o perché si è verificato un impedimento che non ha consentito che l'udienza avesse luogo, questa viene rinviata ad una data discrezionalmente determinata dal giudice, della nuova udienza deve essere data comunicazione alle parti costituite. Nel giudizio di appello secondo il rito del lavoro, ove venga disposto il rinvio d'ufficio dell'udienza di discussione, di tale rinvio deve essere data comunicazione ad entrambe le parti costituite non comparse – ma non al convenuto contumace (Cass., sez. lav., n. 5338/1999) – a meno che il rinvio sia disposto per l'udienza immediatamente successiva a quella non tenuta a cui la causa avrebbe dovuto essere discussa ex artt. 82 e 115 disp. att. c.p.c., nè la necessità di tale comunicazione viene meno se la mancata comparizione delle parti all'udienza precedentemente fissata è determinata dall'astensione da ogni attività professionale degli avvocati del foro locale (Cass. III, n. 7274/2012). Nel rito del lavoro, la sentenza del giudice di appello che abbia deciso la causa in un'udienza non immediatamente successiva a quella fissata per la discussione, senza che del rinvio d'ufficio sia stata data comunicazione alle parti assenti, è affetta da nullità assoluta per violazione del principio del contraddittorio (Cass., sez. lav., n. 5590/2004). 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