Codice di Procedura Civile art. 426InquadramentoL'art. 426, comma 1, c.p.c. dispone che il giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme ordinarie riguarda uno dei rapporti previsti dall'art. 409 c.p.c., fissa con ordinanza l'udienza di cui all'art. 420 c.p.c. ed il termine perentorio entro il quale le parti dovranno provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria. A seguito della soppressione della figura del ”Pretore” per effetto dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 51/1998, e la concentrazione delle funzioni in capo al Tribunale quale giudice professionale di prime cure, i provvedimenti di conversione del rito assumono una importanza pratica assai meno rilevante rispetto al passato (Tarzia, Dittrich, 227). La norma in commento disciplina quindi il passaggio dal rito ordinario allo speciale rito del lavoro quando si è in presenza di una controversia di lavoro, prevista dall'art. 409 c.p.c., ed è, sotto l'aspetto squisitamente processuale, una norma che si potrebbe anche definire “gemella” rispetto all'art. 667 c.p.c. che nelle controversie locatizie disciplina il mutamento del rito dinanzi al giudice delle locazioni, il cui procedimento è modellato sul rito del lavoro. È vero che l'art. 426, comma 1, c.p.c. concerne il “passaggio” dal rito ordinario a quello speciale del lavoro laddove l'art. 667 c.p.c. riguarda invece il “mutamento” del rito che segna il passaggio dalla fase sommaria del procedimento a quella di merito secondo il rito locatizio, ma proprio in ciò si ravvisa la similitudine tra le due norme, in quanto entrambe, volte a consentire l'incanalamento della controversia con lo stesso rito speciale rispetto a quello di provenienza – sia esso civile a cognizione piena o sommaria nel procedimento di convalida – atteso che anche nella fattispecie disciplinata dall'art. 667 c.p.c. quest'ultima norma, nell'affermare la prosecuzione del giudizio previo mutamento del rito con ordinanza, a tale fine, “rimanda” all'art. 426 c.p.c. Infatti l'art. 667, comma 1, c.p.c. nel prevedere la chiusura della fase sommaria dinanzi al giudice delle locazioni, con la pronuncia dei provvedimenti previsti dagli artt. 665 e 666 c.p.c., afferma che il giudizio prosegue nelle forme del rito speciale, previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell'art. 426 c.p.c. richiamato altresì dall'art. 447-bis, comma 1, c.p.c. In dottrina, il mutamento del rito cui si riferisce l'art. 667 c.p.c. è definito sui generis (Masoni, 105), ovvero per lo più come funzionale a consentire l'adempimento nel rito locatizio a cognizione piena, del deposito di memorie integrative degli atti introduttivi del giudizio sommario (Luiso 1996, 562), attesa la differente ratio rispetto a quella enunciata nell'art. 426, comma 1, c.p.c., in quanto, mentre in quest'ultimo caso il mutamento del rito consegue ad un errore della parte attrice, nell'ipotesi contemplata dall'art. 667 c.p.c., la necessità del mutamento dipende dal comportamento processuale difensivo della parte convenuta (Frasca, 313). In ogni caso, resta acquisito il dato di fondo che la necessità del mutamento di rito dipende pur sempre dall'atteggiamento processuale – errato o no – di una delle parti, al cui verificarsi, l'art. 667 c.p.c., determina con il mutamento di rito le stesse conseguenze previste nell'art. 426, comma 1, c.p.c. stante l'identità del relativo procedimento. Il dato di fondo che sembra accomunare l'art. 426 c.p.c. all'art. 667 c.p.c. è ravvisabile prima di tutto nella identica ratio legis, teleologicamente orientata al mutamento del rito nello stesso verso, e, quindi, determinando il passaggio dal rito ordinario o sommario civile al rito speciale del lavoro o locatizio, a seconda del genere di controversia – lavoristica o locatizia – interessata dal mutamento disposto dal giudice. Un'ulteriore affinità è altresì ravvisabile nello stesso rito di approdo a seguito del provvedimento di mutamento disposto dal giudice ex art. 426 c.p.c. o ex art. 667 c.p.c. in quanto, in entrambe le ipotesi considerate dalle norme innanzi citate, si tratta in buona sostanza, dello stesso rito speciale del lavoro, sul quale è stato costruito quello locatizio sia pure con gli adattamenti del caso, come si evince dalla formulazione contenuta nell'art. 447-bis c.p.c. laddove afferma che le controversie in materia di locazione e di comodato di immobili urbani e quelle di affitto di aziende sono disciplinate dagli artt. 414, 415, 416, 417, 418, 419, 420, 421, comma 1 422, 423, comma 1 e 3, 424, 425, 426, 427, 428, 429, comma 1 e 2, 430, 433, 434, 435, 436, 436-bis, 437, 438, 439, 440, 441, “in quanto applicabili”. L'art. 427 c.p.c. sembra infatti rappresentare maggiormente una sorta di “percorso inverso” dell'art. 426 c.p.c., per quanto concerne l'aspetto riguardante il mutamento del rito rispetto a quest'ultima norma, perché finalizzata appunto a realizzare il passaggio opposto rispetto a quello delineato nell'art. 426 c.p.c., vale a dire non dal rito ordinario a quello speciale, bensì dal rito speciale al rito ordinario, quando il giudice rileva che la causa riguarda un rapporto diverso da quello disciplinato nell'art. 409 c.p.c. Il dato comune ad entrambe le norme – artt. 426 e 427 c.p.c. – è invece sicuramente ravvisabile nella stessa ratio legis laddove volta a disciplinare con il rito “giusto” le rispettive controversie in ragione delle quali è disposto il mutamento del rito, ponendo rimedio all'errata introduzione della causa con un rito differente rispetto a quello funzionalmente previsto ope legis, a seconda del genere di appartenenza della singola controversia. Il decreto integrativo e correttivo della Riforma Cartabia approvato nella bozza del Consiglio dei Ministri in data 15 febbraio 2024 ha espunto dalla norma i riferimenti a depositi da effettuare in cancelleria, dovendo essi essere eseguiti telematicamente. Con il mutamento del rito si ha l'instaurazione di un nuovo e autonomo procedimento a cognizione piena e le preclusioni del rito lavoristico nascono soltanto a seguito del deposito delle memorie integrative ex art. 426 c.p.c. Ciò comporta che, nel procedimento per convalida di licenza o sfratto, l'opposizione dell'intimato dà luogo alla trasformazione in un processo di cognizione, destinato a svolgersi nelle forme di cui all'art. 447 bis c.p.c., con la conseguenza che, non essendo previsti specifici contenuti degli atti introduttivi del giudizio, il thema decidendum risulta cristallizzato solo in virtù della combinazione degli atti della fase sommaria e delle memorie integrative di cui all'art. 426 c.p.c., potendo, pertanto, l'originario intimante, in occasione di tale incombente, non solo emendare le sue domande, ma anche modificarle (Cass. III, n. 10400/2024). La distinzione tra giudice ordinario e giudice del lavoro e questioni connesse nel passaggio dal rito ordinario al rito specialeNel vigente ordinamento processuale, la distinzione fra giudice ordinario e giudice del lavoro, non involge una questione di costituzione del giudice nè una questione di competenza per materia, ma di semplice diversità di rito, e, salvo il caso che la trattazione della causa con il rito ordinario anziché con quello del lavoro, o viceversa, abbia inciso sulla determinazione della competenza in senso proprio, o sul contraddittorio o sui diritti della difesa, non spiega per sè effetti invalidanti, atteso che la distinzione di rito non è essenziale nè per la costituzione del giudice nè per la validità del giudizio in genere e quindi non può concretare alcuna ragione di nullità. La competenza per l'opposizione a decreto ingiuntivo spettante all'ufficio giudiziario cui appartiene il giudice che ha emesso il provvedimento monitorio, ha carattere funzionale ed inderogabile, anche nell'ipotesi in cui la controversia appartenga alla cognizione del giudice del lavoro, ragione per cui, l'opposizione va proposta con l'atto di citazione, spettando al giudice adito disporre l'eventuale mutamento del rito ex art. 426 c.p.c. laddove ricorrano i relativi presupposti (App. Reggio Calabria 20 settembre 2021; Cass. VI, n. 14023/2020). In senso conforme, la posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità sulla distinzione tra giudice del lavoro e giudice ordinario, che non involge una questione di competenza ma di semplice diversità di rito, salvo il caso in cui questa abbia inciso sulla determinazione della competenza in senso proprio (Cass. lav, n.4508/1999; Cass., sez. lav.,n. 4233/1995; Cass. S.U., n. 1238/1994; Cass., sez. lav., n. 11418/1993). Alla stessa conclusione si perviene con riferimento all'analoga ipotesi riguardante il rito locatizio. L'art. 447-bis c.p.c., nell'unificare tutte le controversie in materia di locazione, comodato, immobili urbani ed affitto di aziende, quanto al rito applicabile ed alla competenza territoriale, non ha modificato la portata delle relative norme, nè gli effetti della loro eventuale inosservanza. Questioni varie sul mutamento del rito: omissione, forma, tempo di adozione ed effetti del provvedimento giudizialeL'omesso mutamento del rito da ordinario a speciale, ai sensi dell'art. 426 c.p.c., previsto per i giudizi nelle materie indicate dallo stesso art. 447-bis, c.p.c., non spiega effetti invalidanti, come già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento all'art. 426 c.p.c., tranne che abbia inciso sulla competenza, sul contraddittorio, sui diritti della difesa o sul regime delle prove (Cass. III, n. 8611/2006; Cass. III, n. 4159/1999). La dottrina ha osservato che l'errore del rito costituendo una irritualità nella proposizione della domanda con atto di citazione anziché con ricorso, di per sé non ha conseguenze pregiudizievoli (frasca, 308), ed in ogni caso è rilevabile anche d'ufficio (Luiso 1992, 92; Tarzia, Dittrich, 228). Il provvedimento con il quale il giudice dispone il mutamento del rito ex art. 426 c.p.c.può essere emesso anche ad istruttoria già conclusa, con la conservazione degli effetti della litispendenza, delle prove già raccolte e delle preclusioni o decadenze già verificatesi (Montesano, Vaccarella,166; mentre Luiso, 1992, 86, sembra distinguere gli atti che possono essere conservati e quelli che invece vanno rinnovati), ed assume la forma dell'ordinanza, sottoposta al regime degli artt. 177 e 178 c.p.c. Tuttavia, sulla revocabilità dell'ordinanza emessa ex art. 426, comma 1, c.p.c. secondo i principi generali (Carrato, 424; Luiso 1992, 96; Masoni, 104). L'ordinanza emessa ex art. 426, comma 1, c.p.c.non è impugnabile, neppure con regolamento di competenza (Picardi, 2239), in quanto ritenuta atto interno al processo (Masoni, 104), ma è modificabile e revocabile dal giudice. Il provvedimento col quale, ai sensi dell'art. 426 c.p.c., il giudice abbia disposto il mutamento dal rito ordinario in quello speciale, disciplinato dall'art. 409 c.p.c., ha natura meramente ordinatoria, e, quindi, non è suscettibile di impugnazione nè di regolamento di competenza (Cass. II, n. 5174/2001; Cass. III, n. 4597/1990). Il mutamento del rito può avvenire in ogni stato del giudizio ma non può essere disposto prima che sia instaurato il contraddittorio. L'errore sul rito adottato in primo grado che non investa anche profili di competenza, può essere rilevato anche in appello, ma, in considerazione del fatto che la scelta del rito “sbagliato” in sé esso non costituisce un'ipotesi di nullità della sentenza, la relativa doglianza, sollevata in sede di impugnazione, è inammissibile per difetto di interesse qualora non venga indicato anche uno specifico pregiudizio processuale che dalla mancata adozione del diverso rito sia concretamente derivato (Cass., sez. lav., n. 8245/2010). In linea generale, l'omesso mutamento del rito può assumere rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio, e, in generale, delle prerogative processuali della parte, come nell'ipotesi in cui l'errore sul rito abbia inciso sulla competenza, sulle decadenze processuali o sull'ammissibilità dei mezzi di prova (Cass. l, n. 1332/2017; Cass. lII, n. 1448/2015; Cass. II, n. 24561/2013). E' stato recentemente affermato che la violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell'ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa ed apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio, e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte, atteo che essa assume rilevanza invalidante se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso (Cass., sez. lav., 10 marzo 2020, n.6754). Pertanto, nelle controversie locatizie, nelle quali, in primo grado sia stato disposto il mutamento del rito da ordinario a speciale, qualora il gravame venga erroneamente proposto con atto di citazione anziché con ricorso, non troverà applicazione l'art. 436 c.p.c., che impone la notificazione della memoria di costituzione contenente l'appello incidentale, dovendo l'appellato adeguarsi alle forme del rito ordinario prescelto dall'appellante (Cass. III, 9 marzo 2020, n.6658). Il giudizio di opposizione a verbale di accertamento di violazione di norme del codice della strada, instaurato successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, è soggetto al rito del lavoro, sicché l'appello avverso la sentenza di primo grado, da proporsi con ricorso, è inammissibile ove l'atto sia stato depositato in cancelleria oltre il termine di decadenza di trenta giorni dalla notifica della sentenza o, in caso di mancata notifica, oltre il termine “lungo” previsto dall'art. 327 c.p.c., senza che incida a tale fine la circostanza che l'appello sia stato irritualmente proposto con atto di citazione, assumendo comunque rilievo solo la data di deposito di quest'ultima (Cass. VI, n. 21153/2021; Cass. VI, n. 25061/2015). Il termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti introduttiviIl giudice a mente dell'art. 426, comma 1, c.p.c. assegna alle parti un termine perentorio per integrare gli atti introduttivi del giudizio exartt. 414,416 e 420 c.p.c. L'art. 426, comma 1, c.p.c., secondo cui il giudice, nell'ipotesi di passaggio dal rito ordinario al rito speciale, deve assegnare un termine alle parti perché queste provvedano all'eventuale integrazione degli atti, comporta che la determinazione di detto termine è rimessa alla discrezionalità del giudice, restando però escluso che il termine stesso debba essere di almeno trenta giorni ai sensi dell'art. 415, comma 5, c.p.c. La causa, iniziata con il rito ordinario e poi trasformata nelle forme del rito speciale delle locazioni, con la concessione alle parti del termine per integrare i rispettivi atti di cui all'art. 426 c.p.c. comporta che una volta disposta la trasformazione del rito, non possono più essere concessi i termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c. previsti per il rito ordinario, poiché il giudizio è ormai stato avviato alla trattazione nelle forme previste dal rito speciale, non rilevando a contrario, la circostanza che, dopo il mutamento del rito, il giudice di merito abbia ravvisato la nullità dell'atto introduttivo, assegnando alla parte attrice termine per integrarlo ai sensi e per gli effetti di quanto previsto dall'art. 164, comma 4 e 5, c.p.c., in quanto l'applicazione di detta norma non implica che il giudizio debba essere trattato nelle forme del rito ordinario, né presuppone il passaggio inverso, da rito speciale ad ordinario. La disposizione in esame, infatti, si applica anche al rito speciale, sia pure con il necessario correttivo – imposto dalla struttura del rito speciale – che la sanatoria non vale a rimettere in termini il ricorrente rispetto ai mezzi di prova non indicati in ricorso (Cass. II, 4 maggio 2022, n. 14146). Il termine previsto dall'art. 426, comma 1, c.p.c. è unico per entrambe le parti (masoni, 103, il quale osserva altresì che le parti possono anche scegliere di non depositare alcunchè ove ritengano sufficientemente documentata la rispettiva posizione assunta nel processo), sebbene in dottrina, si è evidenziata l'opportunità che il termine perentorio concesso exart. 426 c.p.c. dal giudice per integrare gli atti introduttivi debba essere “a scalare”, ovvero “differenziato” per l'attore ed il convenuto, al fine di consentire a quest'ultimo di svolgere adeguatamente le proprie difese (Luiso 1992, 93; Masoni, 103). La giurisprudenza ha precisato che nelle ipotesi di passaggio dal rito ordinario al rito speciale exart. 426 c.p.c. la circostanza che nell'ordinanza di fissazione della udienza di discussione manchi l'assegnazione alle parti di un termine perentorio per l'eventuale integrazione degli atti mediante memorie o documenti non determina alcun vizio del procedimento ove non risulti che tale omissione abbia in concreto comportato pregiudizio e limitazioni al diritto di difesa (Cass., sez. lav., n.14186/2017). Inoltre, poiché i termini perentori proposti per la deduzione delle prove, previsti dagli artt. 416 e 426 c.p.c., nel rito delle cause di lavoro, applicabile anche alle cause di locazione, sono stabiliti esclusivamente a tutela delle parti, ne consegue che la nullità non può essere rilevata dal giudice, né eccepita dalla parte che non si sia opposta all'assunzione medesima, così implicitamente rinunciando a farla valere (Cass. III, n.9021/1987; Cass., sez. lav., n. 4472/1978). Nel procedimento per convalida di licenza o sfratto, l'opposizione dell'intimato dà luogo alla trasformazione dello stesso in un processo di cognizione, destinato a svolgersi nelle forme di cui all'art.447 bis c.p.c., con la conseguenza che, essendo previsti specifici contenuti degli atti introduttivi del giudizio, il thema decidendum risulta cristallizzato solo in virtù della combinazione degli atti della fase sommaria e delle memorie integrative di cui all'art.426 c.c., potendo, pertanto, l'originario intimante, in occasione di tale incombente, non solo emendare le sue domande, ma anche modificarle, soprattutto se in dipendenza dalle difese svolte da controparte. Da tale principio di diritto affermato in relazione a rapporti di locazione, ma estensibile in generale a tutte le fattispecie regolate dal rito del lavoro, si trae la conclusione che con la memoria di cui all'art. 426 c.p.c. è consentita la precisazione e modificazione delle domande. Il problema si sposta allora sul fronte della differenza tra emendatio libelli e mutatio libelli. In proposito, le sezioni unite, con la sentenza n. 12310/2015 hanno affermato che la modificazione della domanda, ammessa a norma dell'art. 183 c.p.c., può riguardare anche uno od entrambi gli elementi oggettivi della stessa, riferiti a petitum e causa petendi, sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Il citato principio di diritto, esplicitato in relazione alle domande proposte all'udienza ex art.183 c.p.c., va esteso anche ai riti speciali, e, nel caso di specie, al rito del lavoro (Cass. II., n. 5385/2024). Le preclusioni e decadenze già verifica-tesi al momento del mutamento del ritoIl passaggio dal rito ordinario al rito speciale non elimina le preclusioni già verificatesi nell'anteriore corso della causa nei modi ordinari, sicché l'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante il deposito di memorie e documenti in cancelleria cui fà riferimento l'art. 426, comma 1, c.p.c. non consente alle parti la proposizione di domande nuove già irrimediabilmente precluse. La regola secondo cui gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, restando ferme le decadenze e le preclusioni maturate secondo le norme del rito seguito prima del mutamento recepisce l’insegnamento generale già affermato dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo a tutte le ipotesi di mutamento di rito, essendosi da tempo affermato, in ordine al rito del lavoro, che il mutamento del rito da ordinario a speciale non comporta una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, dovendosi correlare l'integrazione degli atti introduttivi prevista dall’art. 426 c.p.c. alle decadenze di cui alle conseguenti norme valevoli per il rito speciale. Pertanto, al fine di valutare la tempestività o meno di eccezioni di merito o processuali non rilevabili d’ufficio, come l'eccezione di prescrizione, occorre fare riferimento al rispetto delle decadenze stabilite alla stregua delle norme del rito anteriore al mutamento (Cass. I, n. 7696/2021; Cass. lav., n.10569/2017; Cass. III, n. 27519/2014; Cass. III, n. 9550/2010; Cass. III, n. 10335/2005). In dottrina, si è evidenziata la circostanza che l'irritualità nella forma dell'atto adottata per l'instaurazione del giudizio può rivelarsi preclusiva della tutela del diritto che si intende fare valere, come nell'ipotesi in cui è previsto un termine di decadenza per la stessa proponibilità della domanda, la cui tempestività, nel rito del lavoro, è valutata soltanto con riferimento alla data del deposito del ricorso – ovvero, dell'atto di citazione già notificato con l'iscrizione a ruolo – nella cancelleria del giudice (Frasca, 308). Così la posizione assunta dalla giurisprudenza (Cass. III, n. 4236/1996, laddove si è affermato con riferimento alla proposizione dell'appello che il relativo termine di decadenza fissato dalla legge per la sua proposizione va calcolato con riferimento alla data del deposito del ricorso in cancelleria). Nel passaggio dal rito ordinario al rito speciale, la concessione del termine di cui all'art. 426, comma 1, c.p.c. non è diretta a sanare decadenze già intervenute secondo il vecchio rito, ma a consentire alle parti di mettersi in regola con le prescrizioni introdotte dal nuovo processo del lavoro (Cass., sez. lav., n. 1978/1981). Ll mutamento del rito da ordinario a speciale ex art. 246 c.p.c. non comporta una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario (Cass., sez. lav., n. 10569/2017), neppure a seguito di fissazione del termine perentorio di cui allo stesso art. 426 c.p.c. per l'integrazione degli atti introduttivi, giacché l'integrazione di tali atti va correlata alle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. (Cass. III, n. 9550/2010). Il mutamento del rito da ordinario a speciale non comporta dunque una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate, alla stregua della normativa del rito ordinario, neppure a seguito della fissazione del termine perentorio ex art. 426 c.p.c. per la correlazione dell'integrazione degli atti introduttivi, mediante il deposito di memorie e documenti, prevista dall'art. 426, comma 1, c.p.c., alle decadenze maturate ai sensi degli artt. 414 e 416 c.p.c. Infatti nel termine perentorio concesso dal giudice incombe sulle parti soltanto l'onere di ottemperare alle prescrizioni dagli artt. 414 e 416 c.p.c., poste rispettivamente a carico del ricorrente e del convenuto in una controversia individuale di lavoro, sicché le decadenze, di cui ai citati artt. 414 e 416 c.p.c., non possono avere corso se non per effetto dell'omessa tempestiva integrazione degli atti, trattandosi di adempimenti di cui sono onerate le parti in causa. La ratio sottostante alla concessione del termine perentorio di cui all'art. 426, comma 1, c.p.c. non è diretta a sanare decadenze già intervenute secondo il rito sbagliato con il quale era stata introdotta la causa, ma soltanto a consentire alle parti di mettersi in regola con le prescrizioni introdotte dal processo del lavoro, in virtù dei principi propri di quest'ultimo, consistenti nell'immediatezza, oralità e concentrazione che lo caratterizzano, per effetto del disposto mutamento del rito, a cui soggiace la controversia destinata ad essere disciplinata dall'art. 409 c.p.c. La posizione della giurisprudenza è molto chiara al riguardo, laddove ha costantemente affermato il principio che il mutamento del rito da ordinario a speciale non può produrre l'effetto di una sorta di rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa propria del rito ordinario, giacchè l'integrazione degli atti va correlata alle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c., che non possono avere corso se non per effetto dell'omessa tempestiva integrazione, la quale, non vale a ricondurre il processo ad una fase anteriore a quella già svoltasi (Cass., sez. lav., n. 10569/2017; Cass. III, n. 27519/2014, in cui si evidenzia che gli atti compiuti prima del cambiamento del rito vanno valutati, dal punto di vista formale, in base alle regole del rito ordinario; Cass. III, n. 9550/2010; Cass. III, n.4573/1993, in cui si è rilevato che è da escludere che la memoria integrativa di cui ex art. 426 c.p.c. possa contenere conclusioni di merito diverse e più ampie di quelle esposte con l'atto introduttivo del giudizio. In senso conforme si è espressa anche Cass. III, n. 4239/1990; Cass., sez. lav., n. 8256/1987, in cui si è evidenziato il principio che il passaggio dal rito ordinario al rito speciale non elimina le preclusioni già verificatesi nell'anteriore corso della causa nei modi ordinari). Le stesse osservazioni valgono con riferimento alle eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, giacché, anche in questo caso è da escludere che il convenuto possa formulare le eccezioni non tempestivamente proposte con la comparsa di costituzione e risposta, nel rispetto dei termini del rito ordinario laddove i relativi termini risultino già scaduti prima del mutamento del rito da ordinario a speciale. L'art. 426 c.p.c. non richiede che l'attore in una controversia individuale di lavoro, introducendo il giudizio con atto di citazione ex art. 163 c.p.c. anziché con ricorso ex art. 414 c.p.c., sia non colpevolmente ignaro dell'effettivo carattere della controversia, atteso che per disporre il passaggio dal rito ordinario al rito speciale, e, dunque, per dare ingresso all'integrazione degli atti carenti – ferme rimanendo in tale caso, le sole preclusioni eventualmente già maturate alla stregua della normativa propria del rito ordinario – è sufficiente che la controversia individuale di lavoro sia stata comunque promossa nelle forme ordinarie, vale a dire con l'atto di citazione (Cass., sez. lav., n. 5971/1995). Se al mutamento del rito non può conseguire l'effetto di rimettere in termini le parti rispetto a poteri e facoltà già preclusi secondo le scansioni del rito di introduzione del giudizio – per cui se il mutamento avviene successivamente al decorso dei termini perentori per la formulazione di istanze istruttorie, non è possibile alcuna ulteriore istanza probatoria – non può viceversa considerarsi la parte retroattivamente decaduta dal potere di avanzare le medesime, nonostante il tempestivo esercizio secondo le regole del rito originario (Trib. Bari 2 luglio 2004). Qualora il giudice, investito di una controversia soggetta al rito di lavoro, abbia erroneamente continuato ad applicare le norme del codice di procedura civile per le cause con il rito ordinario disponendo, a norma dell'art. 426 c.p.c., il passaggio al rito speciale soltanto dopo l'assunzione dei mezzi istruttori, non ne deriva la nullità di tali atti e della susseguente sentenza ove non ne sia derivata la violazione del principio del contraddittorio e del diritto di difesa (Cass. III, n. 2030/1985), atteso che la trasformazione dal rito ordinario a quello speciale disposta dal giudice postula la conservazione dell'attività procedimentale anteriormente svolta, dovendo la sua regolarità essere valutata con riferimento al rito seguito nel momento in cui essa è stata svolta (Cass. III, n. 3280/1986). Inoltre, il potere del giudice di disporre d'ufficio mezzi di prova non solleva la parte dal relativo onere, sicché la parte che, avendo ottenuta l'ammissione di un mezzo di prova, ne sia decaduta, non può lamentare che sugli stessi fatti non sia stata disposta la prova di ufficio (Cass., sez. lav., n. 1978/1981). In ordine alla possibilità di una ridefinizione del passaggio dal rito ordinario al rito speciale, tenuto conto della riforma attuata dal legislatore del 2011 con la semplificazione dei riti, in un'ottica di superamento della sanatoria dimidiata, e non piena, dell'atto non ritualmente introdotto, è stata recentemente chiamata ad esprimersi la Consulta (Corte cost., n. 45/2018) la quale, ha dichiarato inammissibile la questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 426 c.p.c. sollevata nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo relativo a crediti in materia di locazione, irritualmente introdotto con atto di citazione poi tardivamente depositato in cancelleria, nella parte in cui non prevede che, in caso di introduzione con rito ordinario di una causa soggetta allo speciale rito del lavoro e di conseguente mutamento del rito, gli effetti sostanziali e processuali si producono secondo le norme del rito ordinario, seguito fino al mutamento disposto dal giudice ai sensi dello stesso art. 426 c.p.c. Il giudice delle leggi, premesso che la diversa disciplina dell'opposizione a decreto ingiuntivo nel rito ordinario ed in quello del lavoro applicabile anche alle controversie in materia di locazione, è giustificata, essendo finalizzata alla concentrazione della trattazione ed alla immediatezza della pronuncia, rileva che l'auspicata riformulazione del meccanismo di conversione del rito sub art. 426 c.p.c. riflette una valutazione di opportunità e di maggiore coerenza di sistema, di una sanatoria piena dell'atto irrituale per raggiungimento dello scopo, che tuttavia, non per questo risponde ad un'esigenza di reductio ad legitimitatem della disciplina attuale, posto che quest'ultima non raggiunge quella soglia di manifesta irragionevolezza che consente il sindacato di legittimità costituzionale sulla norma processuale qui considerata. La notifica dell'ordinanza di mutamento del rito alla parte contumaceL'art. 426, comma 1, c.p.c. impone alle parti di provvedere, entro il termine perentorio fissato nell'ordinanza, all'eventuale integrazione degli atti introduttivi, mediante deposito di memoria e documenti in cancelleria. In difetto di tale integrazione, le parti incorreranno nelle preclusioni discendenti dagli artt. 414 e 416 c.p.c. Ciò premesso, nel quadro del diritto di difesa costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost., e con riferimento ad ipotesi in cui un termine sia stabilito per il compimento di atti la cui omissione importi un pregiudizio per la situazione soggettiva giuridicamente tutelata, la garanzia dell'art. 24 della Costituzione deve estendersi alla conoscibilità del momento iniziale di decorrenza del termine stesso, al fine di assicurarne all'interessato l'utilizzazione nella sua interezza. Conseguentemente, se la parte contumace non riceve alcuna comunicazione dell'ordinanza che ex art. 426, comma 1, c.p.c. fissa il termine perentorio per l'integrazione degli atti, non è posta in grado di conoscere il dies a quo di decorrenza del termine stesso, non potendosi opporre semplicemente che il contumace, essendo stato messo al corrente della proposizione dell'azione con la notificazione dell'atto introduttivo della lite, potrebbe seguire le vicende ulteriori del processo per assicurarsi la tempestiva conoscenza del provvedimento ex art. 426, comma 1, c.p.c. Infatti, da un lato deve escludersi che possa reputarsi legittimo un criterio per il quale il decorso di un termine sia ricollegato ad un evento la cui conoscibilità, può ottenersi soltanto con l'impiego di una diligenza più che normale – vale a dire superiore alla media – esigibile dal soggetto interessato, e, dall'altro, che la volontarietà della scelta iniziale della stessa parte di non costituirsi in giudizio, non esclude che, sempre nel quadro del diritto di difesa, e, con riferimento ad ipotesi in cui il termine sia stabilito per il compimento di atti, la cui omissione importi un pregiudizio per la situazione soggettiva giuridicamente tutelata, la protezione dell'art. 24 Cost., debba estendersi alla conoscibilità del momento iniziale di decorrenza del termine stesso, al fine di assicurarne all'interessato l'utilizzazione nella sua interezza. In ciò si coglie l'essenza della dichiarata illegittimità costituzionale dell'art. 426 c.p.c. e dell'art. 20 l. n. 533/1973 laddove con riferimento alle cause pendenti al momento dell'entrata in vigore della norma, non è prevista la comunicazione anche alla parte contumace dell'ordinanza che fissa l'udienza di discussione ed il termine perentorio per l'integrazione degli atti (Corte cost., n. 14/1977). Pertanto, nelle controversie di lavoro, se la causa è stata introdotta nelle forme ordinarie e si debba conseguentemente disporre il passaggio al rito speciale, la relativa ordinanza deve essere comunicata alla parte contumace, in applicazione di una regola che, sebbene non espressamente sancita per tale ipotesi, costituisce tuttavia un principio generale del nostro ordinamento, e, dunque, anche un criterio legittimo di ermeneutica, che trova applicazione anche nel rito locatizio, qualora il giudice disponga la trasformazione del rito ai sensi dell'art. 426 c.p.c., ragione per cui, anche ricorrendo tale eventualità, l'ordinanza di fissazione dell'udienza di discussione e di concessione del termine perentorio per l'integrazione degli atti deve essere comunicata alla parte contumace. La giurisprudenza di legittimità, anche a seguito dell'intervento della Consulta, ha costantemente affermato nel corso degli anni il principio che ove la causa sia stata introdotta nelle forme ordinarie e si debba conseguentemente disporre il passaggio al rito speciale, la relativa ordinanza deve essere comunicata alla parte contumace, in applicazione di una regola che, sebbene non espressamente sancita per tale caso, costituisce tuttavia un principio generale del nostro ordinamento e perciò anche un criterio legittimo di ermeneutica conformemente al disposto dell'art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale (Cass. III, n. 77/2010; Cass. III, n. 1209/1985; Cass., sez. lav., n. 220/1982). L'obbligo di comunicazione dell'ordinanza ex art. 426, comma 1, c.p.c. per la fissazione dell'udienza di discussione e di concessione del termine perentorio per l'integrazione degli atti sussiste nei confronti della parte contumace, non anche della parte in precedenza costituitasi (Cass. III, n. 428/1987). L'ordinanza di trasformazione del rito pronunciata in udienza si ha per conosciuta dalle parti presenti, mentre va comunicata alle parti costituite in giudizio, se pronunciata fuori udienza. Ordinanza che dispone il mutamento del rito e domanda riconvenzionaleNel rito del lavoro, ed anche in quello locatizio, la decadenza prevista dall'art. 418, comma 1, c.p.c. non opera se la domanda riconvenzionale è stata proposta prima della trasformazione del rito da ordinario a speciale, ex art. 426, comma 1, c.p.c. perché con il provvedimento che dispone il mutamento del rito è fissata l'udienza di discussione che consente di realizzare le esigenze difensive sottese a detta istanza, volta ad assicurare la regolarità del contraddittorio ed a consentire all'attore di svolgere le proprie difese avverso la domanda riconvenzionale proposta dal convenuto. Il suddetto principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. III, n. 10335/2005; Cass. III, n. 2777/2003; Cass., sez. lav., n. 8062/1987; Cass., sez. lav., n. 5122/1985) concerne esclusivamente l'ipotesi in cui la domanda riconvenzionale risulti già essere stata proposta in base alle disposizioni di cui agli artt. 166 e 167 c.p.c., e, quindi, prima del cambiamento del rito, cioè nella fase processuale svoltasi con il rito ordinario. In tal caso, infatti, le posizioni ed i diritti processuali di entrambe le parti non possono essere in alcun modo pregiudicati, atteso che, all'udienza di discussione fissata per la prosecuzione del processo secondo il rito del lavoro, esse possono adeguare le rispettive attività alle regole di detto rito, in relazione a tutte le domande – compresa quella riconvenzionale – eccezioni e deduzioni che già appartengono al tema della controversia. A diversa conclusione deve invece pervenirsi nell'ipotesi in cui la domanda riconvenzionale venga introdotta dopo il mutamento del rito, non essendo stata proposta nella fase processuale pregressa secondo il rito ordinario, e, nemmeno nell'ipotesi in cui venga introdotta nella fase di riassunzione, a seguito di declinatoria della competenza da parte del giudice adito con le forme ordinarie. La ratio del primo orientamento sopra evidenziato – domanda riconvenzionale proposta secondo il rito ordinario prima del suo mutamento ex art. 426, comma 1, c.p.c. – infatti, è del tutto inestensibile a quest'ultime ipotesi, giacché in esse appare pienamente configurabile l'esigenza per la quale nel rito del lavoro, ed in quelli su di esso modellati, come quello locatizio, il legislatore ha ritenuto che la proposizione della domanda riconvenzionale, per potere dare luogo alla sua trattazione, debba avvenire con la sua notifica alla parte ricorrente unitamente al decreto che dispone la fissazione di una nuova udienza di discussione, in relazione alla quale, in ragione dell'essere scandito il processo da rigide preclusioni, e tenuto conto che la domanda riconvenzionale allarga l'oggetto del giudizio, possa utilmente svolgersi su di essa il contraddittorio, al fine di garantire al giudice un quadro completo di quell'oggetto, in funzione di una utile preparazione e trattazione dell'udienza ex art. 420 c.p.c. Tale esigenza ricorre nei casi sopra considerati, non diversamente da quello normale, in quanto l'allargamento dell'oggetto del giudizio scaturente dalla proposizione di una domanda riconvenzionale manifestatosi soltanto dopo il cambiamento del rito od a seguito della riassunzione del processo, se non fosse notificato alla controparte e non determinasse uno spostamento dell'udienza di discussione, non garantirebbe il perseguimento delle indicate finalità, nel caso di introduzione del processo con il rito speciale in via normale. 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