Codice di Procedura Civile art. 433 - Giudice d'appello 1 2 .[I]. L'appello contro le sentenze pronunciate nei processi relativi alle controversie previste nell'articolo 409 deve essere proposto con ricorso davanti alla corte di appello territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro 3. [II]. Ove l'esecuzione sia iniziata [491], prima della notificazione della sentenza [431 2], l'appello può essere proposto con riserva dei motivi che dovranno essere presentati nel termine di cui all'articolo 434.
[1] Articolo sostituito dall'art. 1, comma 1, l. 11 agosto 1973, n. 533. [3] Comma così modificato dall'art. 85 d.lg. 19 febbraio 1998, n. 51, con effetto, ai sensi dell'art. 247 comma 1 dello stesso decreto quale modificato dall'art. 1 l. 16 giugno 1998, n. 188, dal 2 giugno 1999. InquadramentoL'art. 447-bis, comma 1, c.p.c. per quanto concerne il giudizio d'appello riguardante le controversie locatizie richiama l'art. 433 c.p.c. secondo cui l'appello contro le sentenze pronunciate nei processi relativi alle controversie previste nell'art. 409 c.p.c. deve essere proposto con ricorso davanti alla Corte d'Appello territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro, quest'ultima norma, precisando che ove l'esecuzione sia iniziata, prima della notificazione della sentenza, l'appello può essere proposto con riserva dei motivi che dovranno essere presentati nella cancelleria della corte d'appello nel termine di cui all'art. 434, comma 2, c.p.c., dunque, entro trenta giorni dalla notificazione della sentenza, oppure entro quaranta giorni nel caso in cui la notificazione debba effettuarsi all'estero, ovvero, in assenza di notificazione, entro sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, come prescrive l'art. 327, comma 1, c.p.c. La dottrina dominante ritiene che per il deposito dei motivi nell'appello con riserva, non sia necessario il deposito di un nuovo ricorso ma semplicemente di un atto integrativo del precedente ricorso che lo richiami, enunciando i motivi d'impugnazione della sentenza (Luiso, 277; Montesano, Vaccarella, 320; Tarzia, Dittrich, 327). In ogni caso, nella proposizione del gravame dovrà tenersi conto del principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui il rito adottato dal giudice assume una funzione enunciativa della natura della controversia, indipendentemente dall'esattezza della relativa valutazione. Il giudice competente per materia è la corte d'appello nella cui circoscrizione nella cui circoscrizione ha sede il giudice che ha pronunciato la sentenza, ai sensi dell'art. 341 c.p.c. Nella Corte d'Appello articolata in sezioni, qualora il gravame sia assegnato ad una sezione diversa da quella specializzata in materia di lavoro, il trasferimento disposto dal capo dell'ufficio giudiziario avendo carattere ordinatorio, non produce effetti sulla validità del processo (Tarzia, Dittrich, 321). L'appello proposto ad un giudice diverso da quello competente ex legeIn giurisprudenza non vi è uniformità di orientamento sulla questione concernente l'appello proposto davanti ad un giudice incompetente, nel caso in cui l'incompetenza sia meramente territoriale, se idonea a configurare una ipotesi di inammissibilità dell'impugnazione (Cass. III, n. 2709/2005), ovvero se idonea ad instaurare un valido rapporto processuale suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della riassunzione a norma dell'art. 50 c.p.c. (Cass. VI, n. 11969/2015; Cass. lav., n. 12155/2004). Le Sezioni Unite investite della quaestio juris, hanno risolto il contrasto giurisprudenziale privilegiando l'interpretazione favorevole all'applicabilità della regola della translatio iudicii anche in grado di appello. L'appello proposto dinanzi ad un giudice diverso da quello indicato dall'art. 341 c.p.c. non determina l'inammissibilità dell'impugnazione, ma è idoneo ad instaurare un valido rapporto processuale, suscettibile di proseguire dinanzi al giudice competente attraverso il meccanismo della translatio iudicii, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi ad un giudice territorialmente incompetente, sia nell'ipotesi di appello proposto dinanzi a un giudice di grado diverso rispetto a quello dinanzi al quale avrebbe dovuto essere proposto il gravame (Cass. S.U., n. 18121/2016). La nozione di “competenza funzionale” propria del giudice di appello, nella quale si intrecciano criteri di competenza “orizzontale” e “verticale”, induce a ritenere applicabile il principio della translatio iudicii non solo nell'ipotesi di erronea individuazione del giudice territorialmente competente, ma anche in quella di erronea individuazione del giudice competente per grado. In entrambi i casi, infatti, si è in presenza di un errore che cade esclusivamente sull'individuazione del giudice dinanzi al quale deve essere proposto l'appello avverso la decisione di primo grado, e che, quindi, non incide sull'esistenza del potere di impugnazione, ma solo sul modo di esercizio di tale potere. L'ultrattività del rito nella proposizione del giudizio di appelloIl processo erroneamente introdotto con il rito ordinario è regolato dal rito speciale del lavoro non dal momento in cui ne viene statuita la natura, bensì dal momento in cui il giudizio ha inizio o prosegue in applicazione del relativo rito, in quanto in precedenza rileva il rito adottato dal giudice che, a prescindere dalla sua esattezza, costituisce per la parte il criterio di riferimento, anche ai fini del computo dei termini previsti per le attività processuali. Pertanto, fino a tale momento – ed a maggiore ragione nel caso in cui lo stesso manchi ed il procedimento prosegua fino alla conclusione con il rito errato – vige e trova applicazione il cd. principio dell'apparenza o dell'affidamento, per il quale la scelta fra i mezzi, i termini ed il regime di impugnazione astrattamente esperibili contro un provvedimento del giudice va compiuta in base al tipo di procedimento effettivamente svoltosi, e, quindi, a prescindere da ogni valutazione sulla congruenza delle relative forme rispetto alla materia controversa – e cioè del fatto che questa sia stata considerata, ancorché erroneamente, come ordinaria o lavoristica. La parte che nel giudizio di primo grado abbia erroneamente introdotto la controversia con il rito del lavoro anziché con quello ordinario, per la proposizione dell'appello dovrà seguire le medesime forme della cognizione speciale, operando il principio dell'ultrattività del rito (App. Milano 7 ottobre 2021; Conf. Cass. II, n. 21632/2019; Cass. II, n. 18117/2013). Il principio di ultrattività del rito postula che il giudice abbia trattato la causa secondo il rito erroneamente adottato e, non avendo formulato alcun rilievo al riguardo, abbia implicitamente ritenuto che il rito in concreto seguito sia quello prescritto, con la conseguenza che il giudizio deve proseguire nelle stesse forme (Cass. III, n.12290/2011; Cass., sez. lav., n. 9694/2010; Cass. S.U., n. 24665/2009). In particolare, il principio di ultrattività del rito comporta che ove una controversia sia stata erroneamente trattata in primo grado con il rito ordinario, anziché con quello speciale del lavoro, le forme del rito ordinario debbono essere seguite anche per la proposizione dell'appello, che, dunque, va proposto con atto di citazione ad udienza fissa, se, invece, la controversia sia stata trattata con il rito del lavoro anziché con quello ordinario, la proposizione dell'appello segue le forme della cognizione speciale (Luiso, 269). Ciò in quanto il rito adottato dal giudice assume una funzione enunciativa della natura della controversia, indipendentemente dall'esattezza della relativa valutazione, e perciò detto rito costituisce per le parti il criterio di riferimento anche al fine del computo dei termini per la proposizione dell'impugnazione. Il suddetto principio non opera, invece, nella diversa ipotesi in cui il giudice, dichiarandosi incompetente, abbia escluso che la controversia rientri tra quelle per le quali è previsto il rito adottato, il quale, pertanto, non può essere seguito, dovendosi, in applicazione del principio dell'apparenza del diritto, applicare il rito previsto in relazione alla qualificazione data dal giudice alla controversia (Cass. II, n. 12524/2010). Il principio di ultrattività del rito applicato – anche erroneamente – dinanzi al giudice di prime cure, serve dunque ad individuare il rito “applicabile” in appello, e, conseguentemente, a valutare la sua stessa tempestività all'atto della notifica dell'atto di appello o del mero deposito del gravame nella cancelleria del giudice adìto (Cass., sez. lav., n. 23052/2017). Il termine per l'appelloNel rito del lavoro, qualora il giudice di primo grado che abbia letto in udienza il dispositivo della sentenza non possa redigerne la motivazione per sopravvenuto impedimento, non si ha inesistenza della sentenza, ma nullità per mancanza di motivazione, vizio che, ai sensi dell'art. 161, comma 1, c.p.c., può essere fatto valere soltanto nei limiti e secondo le regole dei mezzi di impugnazione. In tal caso il giudice di appello, ove abbia rilevato dette nullità, deve decidere la causa nel merito, non ricorrendo alcuna ipotesi di rimessione della causa al primo giudice fra quelle tassativamente previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c., né potendosi egli limitare a dichiarare la nullità medesima. In tale ipotesi, la questione controversa è se l'onere dell'impugnazione, e, dunque, il rispetto dei termini, debba collegarsi al deposito del dispositivo, o meglio alla sua notificazione, oppure al deposito del provvedimento con cui il presidente del tribunale ha dato atto dell'impedimento del giudice e dell'assenza di motivazione della sentenza. La sentenza appellabile ai sensi degli artt. 339, comma 1, e 433, comma 1 c.p.c., anche, quindi, quella resa nel rito del lavoro, salva la particolare ipotesi prevista dal medesimo art. 433, comma 2, c.p.c. è quella che contiene tutti gli elementi elencati nell'art. 132, comma 1, c.p.c., e che è pubblicata a norma del successivo art. 133 c.p.c. Pertanto, in caso di notificazione del solo dispositivo della sentenza – sempre che non ricorra l'ipotesi prevista dall'art. 433 c.p.c., comma 2, c.p.c. – non decorre il termine breve per l'impugnazione, ed ove, peraltro, il dispositivo non sia seguito dalla motivazione bensì da un atto con cui si attesti il mancato deposito della motivazione per impedimento del giudicante, l'onere di impugnazione, con il conseguente avvio dei termini per impugnare, sorge solo in seguito alla comunicazione da parte della cancelleria del mancato deposito della motivazione (Cass. lav., n. 12372/2017). In buona sostanza, soltanto nel momento che la parte ha avuto cognizione del fatto che non sarebbe stata depositata la motivazione della sentenza per l'impedimento del giudice, può dirsi sorto a carico della stessa parte interessata l'onere di impugnare il dispositivo. In caso di provvedimento redatto in formato cartaceo, successivamente digitalizzato ed inserito nel fascicolo telematico del processo, il termine cd. “lungo” per l'impugnazione decorre dalla data del deposito dell'atto in cancelleria attestato dal cancelliere dell'ufficio, non assumendo, al contrario, rilevanza la diversa data di recepimento del provvedimento nel sistema informatico, relativa ai soli provvedimenti redatti in formato digitale (Cass. II, n. 29319/2021; Cass. S.U., n.18569/2016). Ai fini della tempestività dell'impugnazione, avverso la sentenza resa in tema di opposizione ad ordinanza ingiuntiva del pagamento di una sanzione amministrativa per violazioni inerenti al rapporto di lavoro od al rapporto previdenziale, deve tenersi conto della sospensione prevista dall'art. 3 della l. 7 ottobre 1969 n. 742, atteso che neppure nella vigenza dell'art. 6 del d.lgs. n. 150/2011 le controversie di opposizione ad ordinanza-ingiunzione aventi ad oggetto violazioni concernenti le disposizioni in materia di tutela del lavoro, di igiene sui luoghi di lavoro, di prevenzione degli infortuni sul lavoro e di previdenza e assistenza obbligatoria regolate dal processo del lavoro – diverse da quelle consistenti nella omissione totale o parziale di contributi o da cui deriva un'omissione contributiva – rientrano tra quelle indicate dagli artt. 409 e 442 c.p.c., per le quali l'art. 3 della l. n. 742/1969 dispone l'inapplicabilità della sospensione dei termini nel periodo feriale (Cass., sez. lav., n. 23333/2024). L'appello riguardante una controversia soggetta al rito del lavoro proposto con il rito ordinarioIn tema di appello, nelle controversie soggette al rito del lavoro, l'art. 434, comma 2, c.p.c., ove fissa il termine di trenta giorni, dalla notificazione della sentenza di primo grado, per il deposito in cancelleria del ricorso introduttivo del procedimento di secondo grado, è applicabile anche nel caso in cui l'appellante irritualmente adotti la forma della citazione, in modo che la convertibilità del relativo atto non possa prescindere dal suo deposito entro il suddetto termine, a pena d'inammissibilità rilevabile d'ufficio (Cass. III, n. 3077/2013). L'inammissibilità è evitata – rimanendo il problema di mutamento del rito che può avvenire nel corso del giudizio – nel caso in cui la citazione sia depositata in cancelleria entro il termine per la proposizione dell'appello, atteso che l'eventuale trattazione della causa in appello con il rito ordinario invece che con il rito speciale determina una semplice irregolarità che assume rilievo ai fini dell'impugnazione esclusivamente se abbia arrecato alla parte un pregiudizio processuale in grado di incidere sulla competenza, sul regime delle prove o sui diritti di difesa (Cass. III, n. 9530/2010; Cass. III, n. 9971/2008; Cass. III, n. 8947/2006). Infatti a norma dell'art. 434 c.p.c., richiamato per il rito locatizio dall'art. 447-bis c.p.c., la forma di proposizione dell'appello nelle controversie soggette al rito del lavoro ed assimilati è il ricorso, che la stessa norma struttura come atto che non deve realizzare prima la vocatio in jus e poi la presa di contatto con il giudice d'appello, ma al contrario, prima quest'ultima mediante il deposito presso il relativo ufficio e successivamente la vocatio per il tramite delle modalità indicate nell'art. 435 c.p.c. L'art. 434, comma 2, c.p.c. regola la tempestività della proposizione dell'appello con riferimento all'ipotesi in cui, per effetto della notificazione della sentenza, sia applicabile il cd. “termine breve”, attribuendo valore al riguardo al deposito del ricorso, il quale, rileva anche se non sia decorso il termine breve, e, venga in rilievo il termine cd. “lungo” ai sensi dell'art. 327 c.p.c., posto che per implicazione, non può non rilevare come fattispecie di atto introduttivo dell'impugnazione la stessa forma. La giurisprudenza, adoperando i criteri di cui all'art. 156, comma 2 e 3 c.p.c. di fronte ad un atto introduttivo dell'appello con la forma della citazione, e, quindi, con l'inosservanza della forma del ricorso, desume come discrimine della tempestività il momento del deposito presso l'ufficio giudiziario dell'atto di citazione in funzione dell'iscrizione a ruolo, per cui, se tale deposito si situa entro il termine breve od in quello lungo concretamente applicabili, il diritto di impugnazione si può considerare tempestivamente esercitato, mentre in caso contrario, deve essere considerato esercitato intempestivamente, perché il “contatto” con il giudice d'appello, richiesto dalla disciplina del processo sul lavoro, si realizza, per il tramite della conversione del deposito della citazione in deposito del ricorso, tardivamente. L'appello con riserva dei motiviIl potere di proporre impugnazione avverso la sentenza del giudice del lavoro non sorge in conseguenza della semplice lettura del dispositivo in udienza, salva l'eccezionale ipotesi prevista dall'art. 433, comma 2, c.p.c., ma postula che la sentenza stessa sia completa nei suoi elementi strutturali, fra cui essenziale è la motivazione, e che sia stata depositata in cancelleria a norma degli artt. 430 e 438 c.p.c. (Cass. lav., n. 18162/2015). L'art. 433, comma 2, c.p.c. prevede che se l'esecuzione sia iniziata, prima della notificazione della sentenza, l'appello può essere proposto con riserva dei motivi che dovranno essere presentati nel termine di cui all'art. 434 c.p.c. L'ipotesi contemplata dall'art. 433, comma 2, c.p.c. è quella avente ad oggetto l'azione esecutiva esperita dal lavoratore nei confronti del datore di lavoro per i crediti accertati giudizialmente. I presupposti per l'appello con riserva dei motivi ex art. 433, comma 2, c.p.c. sono quindi l'azione esecutiva già intrapresa dal lavoratore, fondata sul dispositivo emesso in udienza dal giudice del lavoro, pendendo il termine per il deposito della sentenza (Consolo, 428; contra, favorevoli all'ammissibilità dell'appello con riserva dei motivi anche solo per conseguire l'inibitoria avverso l'efficacia esecutiva del dispositivo, Montesano, Vaccarella, 316; Proto Pisani, 108; Tarzia, Dittrich, 304). La dottrina lo qualifica come una sorta di “appello anticipato” nel rito del lavoro, la cui operatività concerne esclusivamente l'ipotesi dell'esecuzione con il solo dispositivo della sentenza, al fine di consentire al debitore della prestazione di chiedere la sospensione della decisione emessa dal giudice di prime cure nelle more che avvenga il deposito della sentenza (Consolo, 427), fattispecie che a seguito della riforma attuata con il d.l. n. 112/2008 riguarda l'ipotesi in cui il giudice di primo grado ai sensi dell'art. 429, comma 1, c.p.c. in caso di particolare complessità della controversia, il giudice fissa nel dispositivo un termine, non superiore a sessanta giorni, per il deposito della sentenza (Tarzia, Dittrich, 299). L'art. 433, comma 2, c.p.c., ricollega il potere di proporre l'appello con riserva dei motivi, all'essere iniziata l'esecuzione prima della notificazione della sentenza, poichè nel sistema del processo del lavoro l'esecuzione è possibile ex art. 431, comma 2, c.p.c., eccezionalmente sulla base del solo dispositivo e senza la notificazione della sentenza costituente il titolo esecutivo, la quale supporrebbe che essa fosse depositata quanto alla motivazione, dopo la pronuncia del dispositivo. La formulazione dell'art. 433, comma 2, c.p.c. – là dove all'apparenza parrebbe legittimare l'appello con riserva dei motivi alla condizione che non si notifichi la sentenza, sembra sottintendere che il discrimen sia rappresentato dall'essere stata iniziata l'esecuzione senza che la detta notificazione sia avvenuta, a prescindere dalla circostanza che il deposito della sentenza sia stato effettuato – va coordinato con quello dell'art. 431, comma 2, c.p.c. il quale prevede il potere di iniziare l'esecuzione sulla base del solo dispositivo esclusivamente in pendenza del termine per il deposito della sentenza, così legittimando la parte vittoriosa a valersi del dispositivo come titolo esecutivo esclusivamente fino al deposito della sentenza. Questa disciplina è sostanzialmente ripetuta nell'art. 447-bis c.p.c., per il rito locatizio, atteso che esso richiama l'art. 433 c.p.c., e prevede il potere di procedere esecutivamente sulla base del solo dispositivo in pendenza del termine per il deposito della sentenza. In buona sostanza, allorquando la parte vittoriosa in primo grado, legittimata a procedere sulla base del solo dispositivo abbia proceduto in forza di esso, fermo restando che la successiva sopravvenienza del deposito della sentenza, se inizia l'esecuzione, non elide il potere di appellarla con riserva dei motivi, tale circostanza, non esclude la possibilità che il destinatario, se ha avuto conoscenza della sentenza a seguito della sua comunicazione o notificazione, in funzione dell'esercizio del diritto di impugnazione, possa scegliere di esercitare il proprio diritto di impugnazione in modo pieno, proponendo un appello corredato dai motivi. L'art. 433, comma 2, c.p.c. infatti, prevede una facoltà a favore del destinatario dell'esecuzione sulla base del solo dispositivo, e, pertanto, non esclude che egli possa non avvalersene, se frattanto, sia sopravvenuto il deposito della sentenza e sia oggettivamente divenuto possibile esercitare in modo pieno il diritto di impugnarla. In tale ottica, si è espressa la giurisprudenza, affermando che, nelle controversie disciplinate dal rito del lavoro, ove, a seguito della pronuncia di primo grado e dell'inizio dell'esecuzione sulla base del solo dispositivo, l'appello venga proposto, in un momento in cui è stata successivamente depositata la sentenza, con un atto denominato appello con riserva dei motivi, e, tuttavia, contenente motivi di appello, pur espressamente articolati dal difensore della parte appellante con dichiarazione di non conoscenza della motivazione della sentenza, il giudice d'appello, ove l'appellante non abbia successivamente svolto alcuna attività d'integrazione a norma dell'art. 434, comma 2, c.p.c. può considerare l'atto come introduttivo di un appello pieno, se i motivi si presentano idonei a criticare la motivazione della sentenza impugnata, in quanto pongano questioni con essa correlate, mentre altrimenti deve dichiararne l'inammissibilità per tale ragione (Cass. III, n. 18489/2012). BibliografiaAndrioli, Barone, Pezzano, Proto Pisani, Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, 1987; Carrato, Le locazioni e il processo, in Carrato, Scarpa (a cura di), Milano, 2005; Celeste, Asprella, Il processo del lavoro e previdenziale davanti alla Corte d'Appello, Milano, 2008; Consolo, Codice di procedura civile commentario, diretto da Consolo, tomo III, Milano, 2018; De Angelis, in Carpi, Taruffo (a cura di) Commentario breve al codice di procedura civile, Milano-Padova, 2018; Denti, Simoneschi, Il nuovo processo del lavoro, Milano, 1974; Di Marzio, Codice di procedura civile commentato, Milano, 2020; Di Marzio, Di Mauro, Il processo locatizio. Dalla formazione all'esecuzione del titolo, Milano, 2011; Fabbrini, Dei mezzi di impugnazione nel nuovo processo del lavoro, in Riva Sanseverino, Mazzoni (diretto da), Nuovo trattato di diritto del lavoro, IV, Padova, 1975; Fraioli, Brattoli, Il giudizio di appello, in Vallebona (a cura di), Il diritto processuale del lavoro, Padova, 2011; Luiso, Il processo del lavoro, Torino, 1992; Mandrioli, Diritto processuale civile, tomi I, II, III, Torino, 2000; Mandrioli, Carratta, Diritto processuale civile, III, Torino, 2017; Masoni, Le locazioni, II, Il processo (a cura di) Grasselli, Masoni, Padova, 2007; Monteleone, Diritto processuale civile, Padova, 2000; Montesano, Vaccarella, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Montesano, Arieta, Diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996; Montesano, Arieta, Trattato di diritto processuale civile, II, 1, Padova, 2002; Picardi, Codice di procedura civile (a cura di), tomo I, artt. 1-473, Milano, 2008; Proto Pisani, La nuova disciplina del processo civile, Napoli, 1991; Proto Pisani, Controversie individuali di lavoro, Torino, 1993; Sinisi, Troncone, Diritto processuale delle locazioni, Napoli, 2006; Satta, Punzi, Diritto processuale civile, Padova, 2000; Socci, in Sandulli, Socci (a cura di) Il processo del lavoro, Milano, 2000; Tarzia, Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987; Tarzia, Dittrich, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2015; Tesoriere, Diritto processuale del lavoro, Padova, 2004; Verde, Diritto processuale civile, Bologna, 2017; Verde, Olivieri, Processo del lavoro, in Enc. dir., Milano, 1987; Verde, Di Nanni, Codice di procedura civile, Torino, 1993; Vocino, Verde, Appunti sul processo del lavoro, Napoli, 1989; Vullo, Il nuovo processo del lavoro, Bologna, 2015. |