La rendita vitalizia: un'efficace risposta dell'ordinamento per affrontare condizioni invalidanti irrimediabili

Francesca Poiatti
30 Marzo 2020

L'art. 2057 c.c. prevede la facoltà per il giudice di costituire una rendita vitalizia, nelle forme degli artt. 1872 c.c. e seguenti, qualora si debba procedere alla liquidazione di un danno di natura personale e permanente, previo accertamento delle condizioni delle parti e attenta valutazione della natura del danno.
Inquadramento

L'art. 2057 c.c. prevede la facoltà per il giudice di costituire una rendita vitalizia, nelle forme degli artt. 1872 c.c. e ss., qualora si debba procedere alla liquidazione di un danno di natura personale e permanente, previo accertamento delle condizioni delle parti e attenta valutazione della natura del danno.

Il negozio della rendita vitalizia è complessivamente disciplinato dal capo XIX, titolo III, libro IV, artt. 1872-1881 c.c., cui l'art. 2057 c.c. esplicitamente rimanda. Il vitalizio si presenta essenzialmente come un rapporto obbligatorio ontologicamente aleatorio, la cui alea si manifesta sotto un duplice aspetto, poiché l'incertezza cinge non solo la durata del vincolo, che dipende dalla vita del vitaliziato, ma anche la concreta natura delle singole prestazioni, modulandosi la periodicità e l'entità (quantum) delle stesse in relazione allo stato di bisogno e di salute di chi ne beneficia.

L'art. 2057 c.c. introduce, quindi, una singolare modalità di liquidazione del danno, la cui operatività è subordinata all'accertamento di una lesione all'integrità psico-fisica della persona che, nonostante si verifichi istantaneamente, è destinata a ripercuotersi sulla vita del danneggiato per un tempo futuro e incerto, sino alla data della sua morte; momento che rappresenta il dies ad quem dell'obbligazione. Si tratta, pertanto, di uno strumento giuridico liquidatorio, peculiare e alternativo alla più generica capitalizzazione del danno e cioè alla invalsa prassi giurisprudenziale di devolvere in un'unica soluzione l'intero ammontare del risarcimento, a prescindere dall'effettiva natura della lesione.

L'art. 2057 c.c. è stato a lungo ignorato dagli operatori del diritto e, infatti, pur essendo un istituto vecchio più di settant'anni, costituisce praticamente una novità all'interno del nostro panorama giurisprudenziale. Ed è proprio grazie alla lettura delle più recenti pronunce giurisprudenziali (Trib. Milano, 27 gennaio 2015; Trib. Milano, 14 maggio 2019, n. 3755; Trib. Bergamo, 24 febbraio 2016 ; Trib. Palermo, 5 luglio 2017, n. 3612), in materia di danno alla persona, che si evince la bontà e l'estrinseca equità del sistema di liquidazione di cui all'art. 2057 c.c., fino ad ora mai considerate.

La rendita vitalizia, quale forma di risarcimento del danno, è stata, infatti, introdotta nel nostro panorama legislativo nel 1942, nonostante isolate tracce dell'istituto si registrassero già nei primi del Novecento. La rendita, prima del nostro attuale Codice, non era mai stata oggetto di alcuna previsione normativa; nulla prevedevano il previgente Codice del 1865 o il Code civil francese, che ha da sempre costituito fonte costante di ispirazione per i nostri compilatori. Per la formulazione dell'art. 2057 c.c., infatti, il nostro legislatore è stato chiaramente influenzato dalle più moderne esperienze legislative d'oltralpe, all'interno dei cui sistemi normativi la rendita costituisce, da sempre, il paradigma liquidatorio-normativo di principale riferimento in materia di danno alla persona, mentre opera in via soltanto residuale l'istituto della capitalizzazione del danno. Così, infatti, dispongono il § 843 BGB, rubricato “Pensione di denaro o pagamento di liquidazione del capitale”: “1. Se, a causa di un danno all'organismo o alla salute, la capacità di guadagno del danno viene cancellata o ridotta o le sue esigenze aumentano, viene corrisposto un indennizzo alla persona lesa pagando una pensione in contanti. [...]”; nonché l'art. 43 Codice svizzero delle obbligazioni che, coerentemente con il suo spirito liberale, rimette al giudice la facoltà di operare in un senso o nell'altro.

Si noti che l'art. 2057 c.c., seppur collocato all'interno del libro IV, tit. IX del Codice Civile, dedicato all'ampia categoria dei fatti illeciti, presenta un contenuto ben più circoscritto, che rimanda alla discussa categoria del danno alla persona; materia che deve essere necessariamente affrontata per capire le ragioni dell'arresto applicativo subito dalla norma.

La necessità e l'intenzione del nostro legislatore di elevare a “nuovo” paradigma normativo il vitalizio, quale forma di liquidazione del danno, pensata esclusivamente per la tutela della persona, sono oggetto di apposita analisi nella oramai dimenticata relazione al Re n. 802/1942, a firma dell'allora Ministro Guardasigilli Grandi. Nel rapporto ministeriale emergono, infatti, la ragione e la genesi normativa dell'articolo in oggetto, “funzionalisticamente orientato ad accrescere la tutela del danneggiato” (G. COMANDE', Risarcimento del danno alla persona e alternative istituzionali, Giappichelli, Torino, 1999, pag. 460), poiché il negozio della rendita, intrinsecamente aleatorio, meglio risponde ad un danno difficilmente riducibile al presente.

Quadro storico e normativo dell'art. 2057 c.c.

L'operatività dell'art. 2057 c.c. è subordinata, come anticipato, all'accertamento di un danno alla persona di natura permanente e ad un'attenta e concreta analisi rivolta tanto alle condizioni delle parti, quanto alla natura del danno.

È noto che il danno sia liquidabile, alternativamente, tramite la dazione di una somma-capitale o mediante la costituzione di una rendita vitalizia: la prima consiste nella modalità di liquidazione del danno, alla persona e non, generalmente applicata; mentre la seconda consiste in uno strumento peculiare, circoscritto alla sola ipotesi del danno di carattere permanente, in grado di dilazionarne il risarcimento alla sua periodica manifestazione.

È, inoltre, noto come il sistema della capitalizzazione del danno abbia, da sempre, suscitato il maggior favore sia della dottrina sia della giurisprudenza; infatti, lo stesso è stato a lungo ritenuto l'unico strumento in grado di risolvere immediatamente il rapporto obbligatorio tra le parti, poiché in grado di evitare, a risarcimento ricevuto, qualsivoglia diversa o ulteriore pretesa del danneggiato nei confronti del danneggiante. La rendita, invece, nella formulazione dell'art. 2057 c.c. non era in grado di suscitare alcun interesse negli operatori del diritto, che la ritenevano un sistema facoltativo, incerto nella sua applicazione e tale da costringere a un costante confronto danneggiato e danneggiante. In sostanza, il nostro ordinamento ha preferito, per lungo tempo, risarcire un danno ontologicamente irriducibile al presente tramite un'unica e immediata dazione in danaro, stabilita sulla base di un mero calcolo probabilistico. Di certo, all'epoca dell'introduzione dell'art. 2057 c.c. una compiuta definizione di danno alla persona era ancora “di là da venire” (M. ROSSETTI, Il danno alla salute, Padova, Cedam, 2017, pag. 707), con la conseguenza di determinarne una tacita abrogazione, essendo confuso e sfuggente il suo stesso presupposto applicativo. Pertanto, per riuscire ad illustrare le effettive ragioni che hanno reso l'art. 2057 c.c. una delle norme più desuete del nostro ordinamento, sarebbe opportuno riportare alla mente le tappe fondamentali del lungo excursus giurisprudenziale, e ancor prima dottrinale, del danno alla persona, la cui più compita espressione risiede nell'evolutiva e contrastata interpretazione del danno non patrimoniale ai sensi dell'art. 2059 c.c. Excursus che potrebbe, forse, sembrare una digressione, ma che in realtà è imprescindibile ai fini della comprensione del presupposto applicativo dell'art. 2057 c.c. e delle cause abrogative dell'articolo.

La ragione dell'arresto applicativo subito dalla norma – frutto, in realtà, di una straordinaria lungimiranza legislativa – è da imputarsi ad un “coacervo di cause” (M. ROSSETTI, Il danno alla salute, cit., pag. 712). In primo luogo, si segnala un'ingiustificata ritrosia verso l'istituto da parte degli operatori del diritto, arroccati su posizioni dottrinali vecchie di sessant'anni, affermatesi quando la peculiarità del 2057 c.c. non era ancora pronta a far ingresso in un sistema normativo, ove la persona era considerata alla stregua di una res capace di produrre reddito. In secondo luogo, la ristretta accezione attribuita al danno non patrimoniale aveva di fatto negato la risarcibilità del danno alla persona di per sé considerato, poiché il risarcimento nelle forme di cui all'art. 2059 c.c. era riconosciuto al solo danno morale, quale patema d'animo transeunte, per giunta risarcibile solo se succeduto a un illecito penale, con la conseguenza che la giurisprudenza era stata indotta a considerare, ai fini risarcitori, la lesione alla persona per le sole ripercussioni patrimoniali.

In sostanza, pur essendo la persona, la sua salute e la sua integrità psico-fisica beni ontologicamente non patrimoniali non potevano trovare soluzione risarcitoria in seno alla loro naturale sede (art. 2059 c.c.), essendo la non patrimonialità relegata a un'erronea e più che circoscritta accezione. Così, coerentemente con le premesse, gli operatori del diritto avevano individuato il dato preliminare della liquidazione del danno alla persona nella riduzione della capacità lavorativa della stessa, esiliando di fatto dal sistema giuridico-risarcitorio l'art. 2057 c.c.

In seguito, grazie alla progressiva centralità acquisita dall'art. 32 Cost., si andava affermando una lettura costituzionalmente orientata dei due pilastri della Responsabilità civile (artt. 2043 e 2059 c.c.), così da riportare il danno alla salute e la più ampia lesione alla persona nell'alveo dell'art. 2059 c.c., in ragione della più che ovvia natura non patrimoniale.

Come anticipato, per l'operatività dell'art. 2057 c.c. devono essere soddisfatti i presupposti della permanenza e della personalità del danno, la cui indagine deve essere condotta alla luce di una concreta analisi rivolta tanto alle condizioni delle parti, quanto alla natura del danno.

Il significato dell'espressione “condizioni delle parti” è riconducibile ai concetti di prodigalità e responsabilità del danneggiato e cioè alla sua capacità di gestione dell'ingente somma-capitale, mentre per il debitore/danneggiante ci si riferisce all'effettività della sua capienza patrimoniale.

Per quanto attiene, invece, al profilo processuale non è richiesto l'adempimento di alcuna condizione di procedibilità posta a carico delle parti, poiché l'applicazione della norma è rimessa alla sola discrezionalità del giudice (Cass. civ., 20 febbraio 1958, n. 553) che, una volta valutate entità e natura del danno e condizioni delle parti, dispone la costituzione della rendita con la relativa garanzia (“opportune cautele”).

Il giudice è libero nell'applicazione della norma, poiché la non vincolatività della stessa deriva dalla netta preferenza del nostro legislatore per il liberale Codice svizzero delle obbligazioni, che ha chiaramente influenzato i compilatori italiani nella formulazione dell'art. 2057 c.c. D'altronde, è soltanto il giudice a poter valutare le circostanze del fatto e le esigenze delle parti, alla luce degli assoluti principi di equità e oggettività. Con la conseguenza che l'opzione giudiziale in favore dell'art. 2057 c.c. non è mai suscettibile di autonomo ricorso in Cassazione, anche qualora le parti dovessero manifestare il loro favore per la capitalizzazione del danno, non assumendo alcun rilievo, in proposito, gli atteggiamenti giudiziali delle parti.

La rendita non sfida, ma asseconda il fattore temporale

Uno dei massimi problemi, nonché motivo di sfavore nei confronti della rendita, è rappresentato dalla mancanza di una puntuale descrizione circa le modalità costitutive della stessa. Ora, il fatto che la dottrina e la giurisprudenza scartassero l'istituto della rendita in ragione di una sua incerta applicazione non ha mai costituito, in realtà, un valido motivo, poiché, pur non occupandosene direttamente l'art. 2057 c.c., l'istituto del vitalizio gode di un'ampia disciplina all'interno del Codice, cui fa esplicito rimando l'articolo principale.

Gli artt. 1872 c.c. e seguenti disciplinano, infatti, il negozio della rendita vitalizia nella sua complessità; il vitalizio, a prescindere da quale sia la sua fonte generatrice, si concretizza sempre in un rapporto obbligatorio di durata, mai reale, in base al quale il debitore (danneggiante) è obbligato a versare al creditore (danneggiato) una prestazione periodica in denaro o di altre res fungibili per tutta la vita del vitaliziato, dopo aver garantito l'eventualità di inadempimenti o inesatti adempimenti tramite la costituzione di una garanzia reale, o l'appostamento a riserva di un'ingente somma capitale conseguita dalla vendita di un bene, oppure tramite la stipula di una polizza sulla vita, in favore del danneggiato, in un istituto assicurativo (le “opportune cautele” di cui all'art. 2057 c.c.).

A prescindere, dunque, da quale sia la fonte del rapporto (legale, contrattuale, testamentaria), la rendita vitalizia dà pur sempre origine ad un'obbligazione certa nell'inizio e incerta nella fine, facendo dell'aleatorietà la sua essenza. Incertezza del numero degli anni per cui si protrarrà il rapporto che si traduce, infatti, in un rischio equamente bipartito tra le parti. Se il vitaliziato vivrà pochi anni, sarà senza dubbio il vitaliziante a trarne concreto giovamento economico, poiché di fatto verserà una somma complessiva quasi sicuramente inferiore a quanto, invece, avrebbe erogato una tantum, ma al contempo il danneggiato sarà coperto in ogni sua esigenza sino alla data della morte; viceversa se il vitaliziato vivrà a lungo, nonostante il grave stato invalidante, sarà il danneggiato-vitaliziato a trarne vantaggio, ricevendo un'assistenza risarcitoria periodica per tutta la sua vita, modulabile a seconda delle circostanze e delle imprevedibili evoluzioni della malattia e fugando qualsivoglia pericolo di insufficienza della somma capitale, qualora calcolata su un c.d. rischio-vita di gran lunga inferiore.

Il vinculum iuris del vitalizio si compone, dunque, di una struttura ordinata e regolare, manifestandosi attraverso una “coordinata successione di una serie di distinte obbligazioni periodicamente scadenti in momenti cronologici successivi, predeterminati dalla comune fonte generatrice: obbligazioni aventi per contenuto una serie di prestazioni periodiche distinte, per le quali la successione dei termini preindicati, anziché rivestire una importanza meramente accessoria o accidentale, funge invece da elemento di essenziale rilevanza” (M. ANDREOLI, La rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di F. VASSALLI, vol. XII, Torino, Utet, 1958 , pag. 143).

Quindi, il debitore non è tenuto, come nella capitalizzazione, ad una immediata e unica prestazione già determinata nel suo intero ammontare, poiché ogni periodica prestazione corrisponde ad una singola obbligazione che scade ai tempi prefissati al sorgere del rapporto, con la conseguenza che l'ammontare finale di quanto effettivamente sarà versato non è determinabile al sorgere del vinculum, ma tuttalpiù prevedibile; ipotetica previsione sulla scorta della quale si determina l'entità della garanzia da appostare a titolo di riserva.

Ogni singola erogazione del vitalizio si traduce, nell'ipotesi del 2057 c.c., nella periodica assistenza e nel risarcimento del danno patito dal danneggiato, svolgendo una funzione risarcitoria (reintegrazione del danno patito) e una di matrice assistenzialistica (copertura delle conseguenze future del danno).

Pertanto, rendita vitalizia non significa semplice rateizzazione del risarcimento, ma di rendita si parla soltanto quando il debitore “ne garantisce il gettito mediante alienazione di un immobile o di un capitale”.

Aspetto su cui si è concentrata, anche recentemente, autorevole dottrina (M. ROSSETTI, Il danno alla salute, cit., pag. 712). L'Autore muove, infatti, un'aspra critica alla recente sentenza del Tribunale di Bergamo, che aveva optato per la costituzione di una rendita vitalizia con riferimento al danno futuro di un giovane, rimasto vittima di un tragico incidente stradale. “Il metodo in questione – scrive il Tribunale di Bergamo, riferendosi all'art. 2057 c.c. appare preferibile, giacché consente di evitare i problemi legati vuoi all'individuazione della durata di vita media del soggetto considerato, vuoi all'impiego di coefficienti desueti, vuoi all'anticipata liquidazione di un danno futuro.” La rendita, dunque, era stata, in tal caso, calcolata tenendo conto delle esigenze primarie cui il giovane avrebbe dovuto far fronte, conseguentemente all'evento dannoso.

Ora, in tale sentenza c'è, però, un elemento di grande diversità rispetto agli altri precedenti in materia (si guardi alle sentenze dei Tribunali di Milano e Palermo) e cioè la presenza in giudizio della compagnia assicurativa, in forza della chiamata diretta ai sensi dell'art. 141 Codice Assicurazioni private. In tal caso, il Tribunale aveva ritenuto che la condanna in solido dell'autista del veicolo e della propria compagnia d'assicurazione (entrambi convenuti) assicurava pienamente l'adempimento dell'obbligazione vitalizia, senza necessità, per il giudice, di prevedere una garanzia ad hoc (opportuna cautela) per il suo soddisfacimento.

È quindi ovvia la finalità di salvaguardia e di tutela alla persona, alla luce dell'analisi del combinato disposto tra l'art. 2057 e l'art. 1872 c.c., che garantisce una tutela rinforzata per il danneggiato, rispetto alla comune capitalizzazione. L'unitarietà della disciplina della rendita, di cui è espressione il capo XIX, titolo III, libro IV del Codice civile, offre oltre “alle opportune cautele” e cioè le garanzie all'adempimento fissate dal giudice (art. 2057 c.c.), ulteriori forme di protezione tra cui: la ridefinizione del quantum a seconda delle esigenze del danneggiato, l'impossibilità del debitore di liberarsi dal rapporto di durata, offrendo in liberazione una somma capitale (art. 1879, comma 1 c.c.), la non operatività della regola dell'eccessiva onerosità sopravvenuta, quale mezzo risolutivo del vincolo (art. 1879, comma 2 c.c.) e la pignorabilità, in favore del creditore, dei beni posti a garanzia, in caso di effettivo inadempimento (art. 1878 c.c.).

La sentenza del maggio 2019, la rivoluzione del Tribunale di Milano

Al lungo “letargo” della rendita ha posto, definitivamente, fine il recentissimo e illuminato intervento del Tribunale di Milano che, nella sentenza del maggio 2019, dopo il pionieristico intervento del 2015, ne ha proposto un'integrale applicazione, compiendo una vera e propria rivoluzione in materia.

La costituzione della rendita vitalizia, in tal caso, non è stata prevista con unico riferimento al danno patrimoniale da lucro cessante, ma anche in relazione alla componente del danno emergente patrimoniale e del danno non patrimoniale, costituendo, di fatto, una rendita reintegrativa per quanto era stato precedentemente sofferto e una rendita per quanto il danno in futuro avrebbe potenzialmente determinato, in termini di conseguenze.

Tale pronuncia rompe con la precedente prassi giurisprudenziale, abbandonando, di fatto, la c.d. modalità di liquidazione mista, secondo cui, alla generale e preponderante capitalizzazione del danno, si accompagna un'ancillare funzione della rendita vitalizia, la cui operatività è ristretta alla sola voce del danno futuro. Per danno futuro da lucro cessante si intende quel danno che si manifesta, nelle ipotesi di gravissima lesione permanente, nelle spese future di cura, tutela e assistenza, qualificata e non, di cui necessiterà l'invalidato, impossibilitato a svolgere le proprie attività, lavorative e non, nonché incapace di provvedere autonomamente a sé stesso anche in termini di gestione economica.

Il caso: come la maggior parte delle precedenti pronunce, cui si è assistito ad un revival dell'istituto, il fatto è un caso di responsabilità medico-sanitaria. Una signora di ottant'anni sottoposta a intervento chirurgico rimane vittima di errore esecutivo, che le causa una trombosi embolica dell'arteria celebrale ed emiplegia sinistra; conseguentemente all'accaduto, la diagnosi registra uno gravissimo stato invalidante di carattere permanente pari al 90%.

È proprio in relazione ai momenti di quantificazione e liquidazione del danno che la sentenza manifesta la sua peculiarità. In merito all'entità dell'effettiva lesione subita dalla paziente – danno iatrogeno differenziale (definito dalla Cass. civ., 11 novembre 2019, n. 28990, quell'ulterior «danno derivato dalla successiva menomazione e in tale operazione dovrà avere come parametro di riferimento la piena capacità biologica anteriore del soggetto, senza tener conto dei postumi preesistenti interferenti») – è stata valutata dapprima la pregressa invalidità, accertata nella misura dell'8%, poi è stata quantificata l'invalidità complessiva al termine dell'intervento, accertata nella misura del 90%, dichiarando il comportamento negligente dell'equipe conseguenza immediata e diretta del peggioramento del complessivo stato invalidante, imperizia che ha comportato un incremento della preesistente invalidità nella misura dell'82%.

Alla luce del danno alla salute gravissimo patito dalla paziente è stata, poi, accertata la natura dell'invalidità derivante dalla lesione; oltre all'invalidità di natura permanente è stata verificata un'inabilità temporanea per un periodo complessivo di cinque mesi.

Una volta accertato il danno di natura non patrimoniale il giudice ha proceduto alla sua quantificazione: sulla base dell'entità della lesione e dell'età della donna alla data dell'intervento, la somma capitale di riferimento è stata determinata in Euro 594.913,00. Valore che non rappresenta quello che sarà di fatto liquidato, ma che costituisce il parametro di riferimento per la determinazione della rendita vitalizia. In quanto la rendita, come prevede l'art. 1872 c.c., richiede la previsione astratta di un certo quantum sulla base del quale si costituisce l'opportuna cautela e cioè la garanzia necessaria posta a copertura dei successivi pagamenti rateali.

Una volta risolta la questione del danno non patrimoniale, il giudice ha proceduto alla quantificazione e alla liquidazione della componente patrimoniale del danno, riconoscendo in carico alla struttura sanitaria il risarcimento del danno futuro per tutta la durata della vita della danneggiata. Lo stesso è stato identificato in una molteplicità di esigenze cui la danneggiata, con ogni prevedibilità, avrebbe dovuto provvedere, quali ad esempio trattamenti fisioterapeutici, non finalizzati a una possibilità di un recupero funzionale, ma al semplice mantenimento delle condizioni vitali rimaste, nonché assistenza di tipo generico, soddisfacibile tramite l'assunzione di una badante non necessariamente preparata a livello sanitario.

Spese che i giudici quantificano tenendo conto di quanto sia posto a carico del nostro Sistema Sanitario Nazionale e quanto, invece, debba essere sostenuto dal privato cittadino. È chiaro che, come si è verificato nel caso in esame, se i trattamenti sanitari richiesti dalla patologia sono forniti pubblicamente, non dovrà essere liquidato nulla per il loro compimento, non essendo necessario un intervento privato per la cura o il mantenimento della capacità biologica residuata.

Proseguendo nella analisi della sentenza emerge che le somme dovute a titolo di danno patrimoniale sono state astrattamente quantificate in Euro 30.070,00; valore che, ovviamente, è suscettibile di eventuali modifiche a seconda del variare delle esigenze della paziente.

In via equitativa, il giudice, nel caso in esame, ha così costituito una rendita di Euro 5.350,00 mensili (64.200,00 annui), da versarsi per quanto già integralmente verificatosi in via anticipata, a decorrere dall'epoca dell'intervento. Il calcolo della rendita da corrispondersi in via anticipata è stato determinato nella somma capitale di Euro 299.600,00, a sua volta ottenuta moltiplicando l'importo della rendita mensile per i mesi trascorsi tra la data dell'intervento e quella della sentenza (56 mensilità). Mentre per il danno futuro, dato il carattere permanente del danno, il giudice ha stabilito un'ulteriore rendita da corrispondersi dalla data della sentenza in avanti, il cui ammontare è stato stabilito in Euro 1.300,00 mensili.

Come richiede la disciplina della rendita, il giudice ha proceduto all'indicizzazione della rendita stabilendo la sua rivalutazione annuale secondo l'indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi membri dell'Unione europea (IPCA); infatti proprio perché la rendita viene corrisposta in un arco temporale pressoché lungo, per evitare i rischi del trascorrere del tempo, la rivalutazione del valore monetario permette l'adattamento della rendita stessa ai flussi monetari (inflazione/deflazione).

Infine, per garantire l'adempimento della stessa, come è previsto dagli artt. 1872 e ss. c.c., nonché dall'art. 2057 c.c., il giudice ha scelto l'opportuna cautela; scelta che si è concretizzata nella costituzione di una polizza sulla vita a premio unico. Strumento assicurativo che impone il versamento del premio in un'unica soluzione alla stipula del contratto di assicurazione fra la struttura sanitaria e la compagnia di assicurazione prescelta da quest'ultima.

Si osservi che nella definizione della polizza è necessario effettuare la ponderazione di numerosi fattori, tra cui età, sesso, stato di salute e regolare condizione di vita, che incidono sulla quantificazione dell'appostamento a titolo di riserva da parte della assicurazione. Pertanto, maggiore è l'incertezza circa i fattori riportati, maggiore sarà il margine di rischio che la compagnia sarà costretta a richiedere alla struttura sanitaria per l'appostamento a titolo di riserva.

La sentenza de quo ha, quindi, proposto un'integrale applicazione della rendita, motivandone l'opportunità sia con riferimento al danno emergente (quanto si è verificato) sia alla componente del lucro cessante (quanto si verificherà) e così riportando in auge uno studio vecchio di sessant'anni. Se si analizzano le due voci di cui si compone il danno si osserva, infatti, che il danno emergente consiste alternativamente nel mancato conseguimento della prestazione, nel suo inesatto adempimento, nella lesione psico-fisica subita, nelle spese sostenute dal creditore per le cure affrontante ante sentenza, nella riparazione della cosa danneggiata. Con l'espressione mancato guadagno(espressione di cui all'art. 1223 c.c.), invece, si intende il lucro cessante e cioè la lesione di un “diritto non ancora maturato, ma proiettato nel futuro” (M.C. IEZZI, La chance: nella morsa del danno emergente e del lucro cessante. Il danno da perdita di chance quale tecnica risarcitoria applicabile alla responsabilità contrattuale, alla luce delle più recenti elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali, in R. GAROFALI - P. BORTONE - R. VACCARO (a cura di), Tracce di civile, Roma, Neldiritto, 2008) che può, variamente, manifestarsi nell'incapacità lavorativa, che impedisce alla vittima di continuare a svolgere le precedenti mansioni e, quindi, di guadagnare ma, soprattutto, nell'impossibilità di continuare a condurre la propria vita con la stessa qualità di un tempo.

Pertanto, è certo, che se la componente del danno emergente si esaurisce in un arco temporale tendenzialmente più limitato, rispetto al progressivo lucro cessante, ciò non esclude «che anche il danno emergente possa manifestarsi in frazioni temporali progressive» (A. DE CUPIS, Dei fatti illeciti, sub art. 2057, in Commentario al Codice civile, a cura di A. SCIALOJA – G. BRANCA, Bologna-Roma, Zanichelli, 1971, pag. 131), seppur con minor frequenza del periodico lucro cessante che, per sua natura, meglio si sposa con il concetto della permanenza del danno.

È, infatti, innegabile che l'istituto della rendita, ontologicamente aleatorio, risponde in modo più che opportuno all'incertezza del presente rapporto. Nel caso in esame, infatti, secondo l'id quod plerumque accidit l'eccezionale gravità della lesione sofferta dalla danneggiata avrebbe comportato in futuro significativi oneri economici per esigenze assistenzialistiche e terapeutiche, le quali, al momento della decisione, non erano suscettibili di sicura quantificazione per tutto il resto della vita della danneggiata, perché soltanto astrattamente prevedibile è la quantificazione della vita futura. Incertezza a cui la c.d. capitalizzazione fatica a rispondere in modo efficace. Pertanto, la soluzione proposta dall'art. 2057 c.c. ha senz'altro il merito di garantire l'effettività della tutela risarcitoria, cui si aggiunge la possibilità di un adeguamento della somma al sopraggiungere di non prevedibili aggravamenti dello stato invalidante.

In conclusione

Il legislatore aveva previsto, già settantasette anni orsono, lo strumento più adeguato ad affrontare una circostanza di invalidità permanente. La rendita si rivela, infatti, l'unico istituto realmente in grado di corrispondere la giusta misura del danno, in forza di un'erogazione periodica e rivalutabile a seconda dell'evolversi delle esigenze. Ora, se il risarcimento deve coincidere al danno effettivamente patito, la capitalizzazione, spesse volte, stimola l'erogazione di somme risarcitorie di gran lunga maggiori all'effettiva misura del danno, specie in passato, quando dominava incontrastata la prassi del plus dat qui cito dat. Pertanto, tale modalità di liquidazione ha spesse volte tradito e rischia ancora oggi di tradire, in casi tanto peculiari, la stessa ratio della tutela risarcitoria, anche perché l'ingente somma capitale, alla cessazione della periodica manifestazione del danno, potrebbe tradursi in un arricchimento, di fatto, ingiustificato per gli eredi. La costituzione di una rendita vitalizia, invece, per sua stessa natura garantisce la reintegrazione solo del danno subito, essendo i congiunti titolari di diversa azione risarcitoria, in ragione dell'alterazione e dello squilibrio subito dal nucleo familiare, in seguito alla diagnosi di una condizione patologica irrimediabile.

Alla luce del presente percorso si può, dunque, concludere che se gli operatori del diritto si fossero lasciati orientare dalla ratio legis della norma, invece di determinarne una tacita abrogazione, forse, si sarebbe evitata l'elaborazione di un sistema liquidatorio universale, creato sulla scorta delle categorie generali del diritto, che il più delle volte si è dimostrato incapace di rispondere, in concreto, al carattere della permanenza.

Il sistema della rendita, quindi, proprio per il suo carattere intrinsecamente aleatorio e di durata, meglio asseconda gli inevitabili mutamenti della malattia, riconoscendo la possibilità di incrementi o diminuzioni dell'entità delle prestazioni; evitando, inoltre, proprio grazie alla sua periodicità, fulminee e disastrose dilapidazioni della somma capitale, qualora si registri un'assenza di responsabilità nella gestione del risarcimento.

Alla luce, dunque, di un oggettivo confronto tra l'una e l'altra forma di risarcimento emerge l'assenza di limiti insuperabili per l'elevazione dell'articolo 2057 c.c. a nuovo paradigma; infatti, la sua crescente diffusione non sta incontrando particolari ostacoli, poiché la desuetudine della norma era più che altro imputabile a un pregiudizio “intellettuale”, avallato da prassi giudiziarie fortemente radicate, sorte in un'epoca del diritto ormai lontana.

Guida all'approfondimento

M. ROSSETTI, Il danno alla salute, Padova, Padova, 2017;

P. DONATO - P. MARIOTTI, Il risarcimento in forma di rendita, in Dir. ec. ass., 2009;

A. DURANTE, Capitale o rendita nel risarcimento del danno a persona, Milano, Sicurtà, 1951;

A. DE CUPIS, Dei fatti illeciti, sub art. 2057,in Commentario al Codice civile, a cura di A. SCIALOJA- G. BRANCA, Bologna-Roma, 1971;

A. DE CUPIS, sub. art 2059, in Commentario al codice civile, a cura di A. SCIALOJA- G. BRANCA,Roma-Bologna, 1971;

V. ZENO-ZENCOVICH, Per una “riscoperta” della rendita vitalizia ex art. 2057 cod. civ., in Nuova giur. civ. comm., 1999, I, 131;

M. ANDREOLI, La rendita vitalizia, in Trattato di diritto civile italiano, a cura di F. VASSALLI, vol. XII, Torino, 1958;

G. PONZANELLI (a cura di), Il “nuovo” danno non patrimoniale, Padova, 2004;

S. COLOMBO – A. SIMONATO – L. VISMARA, Il risarcimento in forma di rendita in Italia: scenari e prospettive, in GenRe.com, novembre 2015.

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