Negato il diritto a mantenere il cognome dell'ex marito perchè noto

Michol Fiorendi
10 Aprile 2020

Non è ammissibile conservare il cognome del marito dopo la pronuncia di divorzio, salvo che il giudice di merito, con provvedimento motivato e nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, non disponga diversamente.
Massima

È il giudice di merito che valuta la ricorrenza di circostanze eccezionali, portate da interessi meritevoli di tutela, che consentono l'autorizzazione all'utilizzo del cognome del marito anche dopo il divorzio. In linea generale, non è ammissibile conservare il cognome del marito dopo la pronuncia di divorzio, salvo che il giudice di merito, con provvedimento motivato e nell'esercizio dei suoi poteri discrezionali, non disponga diversamente.

Il caso

L'ex moglie propone ricorso in Cassazione contro la sentenza della Corte d'Appello che respinge la sua richiesta tesa alla conservazione del diritto ad utilizzare il cognome maritale, nonostante l'avvenuto divorzio, andando così a confermare la decisione già assunta dal giudice di prime cure.

A supporto del suo ricorso, in riferimento alla sussistenza di un interesse personale, la signora invoca i profili di identità sociale e di vita di relazione, sostenendo che la meritevolezza della sua richiesta risiede in un'esigenza di indole morale e sociale, non necessitando di alcun carattere di straordinarietà.

L'ex moglie evidenzia che la Corte territoriale ha ignorato, nelle sue valutazioni, il fatto che la stessa si era costruita, nell'ambiente sociale di riferimento, un'identità personale e sociale riferita al cognome dell'ex marito, tralasciando parimenti la circostanza che da oltre vent'anni la signora era conosciuta, nel suo attuale ambiente sociale e amicale, con il cognome del marito.

Nella sua difesa, la signora sottolinea, altresì, che con la sua decisione la Corte territoriale ha trascurato il pregiudizio morale ed esistenziale da lei subito, facendo riferimento ad una straordinarietà dell'interesse dalla stessa evidenziato che non è richiesta a livello normativo, violando così la disposizione di legge.

La signora, inoltre, sottolinea la meritevolezza di tutela del preminente interesse della figlia minore a che la madre continui a utilizzare il cognome maritale, facendo presente il disagio ed il pregiudizio che una decisione contraria a ciò possa provocare nell'ambiente scolastico della ragazza, nel quale la madre aveva sempre speso il cognome maritale ed era sempre stata riconosciuta con quel cognome.

La Suprema Corte, condividendo il percorso logico giuridico e la motivazione dei giudici di seconde cure, rileva come, nel caso di specie, non esista un interesse meritevole di tutela per riconoscere alla moglie e alla figlia della coppia la possibilità di conservare il cognome dell'ex marito e del padre.

È stato considerato, infatti, che il fatto che costui sia una persona nota non pone madre e figlia in un condizione di privilegio rispetto a tutte le ex mogli e figlie di coppie divorziate.

La questione

Il nostro ordinamento deve privilegiare la coincidenza tra lo status dei soggetti e la loro denominazione personale, considerando così la conservazione del cognome maritale come ipotesi straordinaria affidata alla valutazione discrezionale di un giudice?

Le soluzioni giuridiche

Nel caso di specie, la Cassazione ritiene infondati i motivi del ricorso presentato dall'ex moglie, respingendo la sua richiesta di poter conservare, a divorzio avvenuto, il diritto all'uso del cognome maritale.

La Suprema Corte, infatti, in linea con quanto previsto dall'art. 143-bis c.c. che stabilisce che «la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze», riprende i contenuti dell'art. 5, comma 3, l. n. 898/1970 che così recita: «il tribunale, con la sentenza con cui pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, può autorizzare la donna che ne faccia richiesta a conservare il cognome del marito aggiunto al proprio quando sussista un interesse suo o dei figli meritevole di tutela».

In tal modo, afferma il potere discrezionale dei giudici di prime e seconde cure di valutare ogni singola e diversa richiesta, in considerazione dell'esistenza di un interesse meritevole di tutela.

La questione, peraltro, era già stata presa in considerazione dalla Corte di Cassazione, precisamente con la sentenza n. 38690/2019, con la quale la Suprema Corte aveva già delineato lo stato dell'arte sul tema, ricordando quali sono, in proposito, i diritti degli ex coniugi una volta concluso il rapporto di coniugio.

Il ragionamento che anima entrambe le decisioni è che, con la cessazione della convivenza, i coniugi vogliano concludere la loro vita passata per iniziarne una nuova.

C'è da dire che, generalmente, la richiesta di mantenere il cognome dell'ex marito si verifica in presenza di cognomi importanti, soprattutto a livello locale.

Come già illustrato, il nostro ordinamento, nonostante la riforma del diritto di famiglia del 1975, conserva proprio nell'art. 143-bis c.c un retaggio della società patriarcale che prevede che, in caso di separazione dei coniugi, la moglie conservi il cognome del marito in forza del fatto che il vincolo coniugale non perde i suoi effetti. Il giudice può, altresì, vietare alla moglie l'utilizzo del cognome del marito quando questo risulti pregiudizievole per l'uomo.

Allo stesso modo, può autorizzare la moglie a non utilizzare il cognome dell'ex marito, se dal suo utilizzo possa derivare forte pregiudizio.

In linea generale, a seguito di un divorzio, non è ammissibile che la moglie mantenga il cognome del marito, salvo che il Giudice di merito stabilisca in modo diverso.

Ciò posto, la giurisprudenza prevalente afferma che conservare il cognome da parte dell'ex moglie costituisce un'ipotesi eccezionale, di conseguenza il giudice deve riscontrare un interesse meritevole di tutela che renda plausibile una tale richiesta.

Osservazioni

Come detto, una volta che viene pronunciata la separazione, può succedere che la moglie continui a utilizzare il cognome del marito nello stesso modo nel quale ha fatto quando era spostata.

Il marito può opporsi all'utilizzo del suo cognome se tale circostanza è gravemente pregiudizievole dei suoi interessi. Una simile situazione si potrebbe verificare quando la moglie ha subito l'addebito, ad esempio, abbandonando la casa coniugale in modo volontario e senza ragioni, ovvero ha tradito il marito in modo plateale, o ancora, quando assume atteggiamenti poco decorosi in ambiti pubblici, ovvero quando è responsabile di comportamenti che rilevano penalmente.

In simili circostanze l'opposizione dell'ex marito dev'essere presentata in Tribunale in seno alla causa di separazione o anche in momento successivo.

Il giudice adito provvederà vietando alla donna di utilizzare il cognome del marito.

Anche l'ex moglie può chiedere al Giudice l'autorizzazione a non utilizzare più il cognome del marito se questo rappresenta per lei fonte di grave pregiudizio.

Quando la sentenza di divorzio è diventata definitiva la donna non può utilizzare il cognome dell'ex marito, tornando a suo cognome di nascita, vale a dire quello da nubile.

Come abbiamo viso, nella causa di divorzio, l'ex moglie può chiedere al giudice di autorizzarla a conservare il cognome del marito aggiunto al suo quando sussiste un interesse suo o dei figli meritevole di tutela, valutabile discrezionalmente dal giudice di merito.

A tal riguardo, la legge non spiega quale sia questo interesse meritevole di tutela, ma la Suprema Corte stabilisce che non si può trattare della semplice notorietà e fama dell'ex marito, al fine di poter continuare a beneficiare di privilegi legati al cognome stimato.

Come visto in commento, la più recente giurisprudenza afferma che non è meritevole di tutela l'interesse dell'ex moglie a mantenere il cognome del marito perché è conosciuta con quel cognome in un certo ambiente e questa circostanza la agevola nella frequentazione di ambienti mondani o di rango e censo elevati.

Diverso potrebbe essere nel caso in cui, invece, si tratti di motivi legati ad attività lavorativa quale per esempio una professionista che è riuscita a realizzare una certa apprezzabile rete tra la clientela con il cognome del marito, avendo investito molto su questo nome in termini di pubblicità ovvero a questioni relative alla vita ordinaria di relazione o alla sfera morale.

Il giudice che di volta in volta valuta il caso concreto potrebbe in questo caso ravvisare un interesse meritevole di tutela così da accogliere la richiesta, costituendo, comunque, tale circostanza un'ipotesi eccezionale.

Va, altresì, evidenziato che quando il giudice autorizza l'utilizzo del cognome del marito anche dopo il divorzio, ricorda che questa decisione può sempre essere revocata, in un momento successivo, se ci dovessero essere motivi di particolare gravità.

In simili casi, l'istanza di revoca può essere presentata sia dal marito che dalla moglie.

Un esempio potrebbe essere costituito quando l'uomo voglia formare una nuova famiglia e dare il suo cognome ad un'altra donna.

A livello internazionale, per quanto riguarda l'attribuzione del cognome, si richiama la Convenzione sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti della donna (New York, 18 dicembre 1979, ratificata dall'Italia con legge l. 14 marzo 1985 n. 132). L'articolo 16 della Convenzione impegna gli Stati aderenti a prendere tutte le misure necessarie per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari, ed in particolare ad assicurare, in condizioni di parità con gli uomini, gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome (lett. g).

Si segnala, inoltre, che con le raccomandazioni n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998 (e ancor prima con la risoluzione 37/1978), il Consiglio d'Europa ha affermato che il mantenimento di previsioni discriminatorie tra donne e uomini riguardo alla scelta del nome di famiglia non è compatibile con il principio di uguaglianza sostenuto dal Consiglio stesso, raccomandando agli Stati inadempienti di realizzare la piena uguaglianza tra madre e padre nell'attribuzione del cognome dei loro figli, assicurando la piena uguaglianza in occasione del matrimonio in relazione alla scelta del cognome comune ai due partners, ed eliminando ogni discriminazione nel sistema legale per il conferimento del cognome tra figli nati nel e fuori del matrimonio.

In linea con quanto detto, si evidenziano anche le recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell'uomo che confermano l'orientamento di eliminare ogni discriminazione basata sul sesso nella scelta del cognome (16 febbraio 2005, affaire Unal Tekeli c. Turquie; 24 ottobre 1994, affaire Stjerna c. Finlande; 24 gennaio 1994, affaire Burghartz c. Suisse).

Sull'ampio tema dell'attribuzione e trasmissione del nome, anche la dottrina si è espressa con interessanti pubblicazioni e vorrei fare riferimento ad alcune considerazioni di portata generale svolte sull'argomento.

Ha radici antiche e sedimentate nel tempo la consapevolezza dell'importanza che il nome svolge nella vita di ciascun individuo. Nomen omen. Questo noto brocardo indica, appunto, come il nome sia pur sempre un augurio per colui che lo porta.

Il nome, composto da prenome e cognome, costituisce il principale segno distintivo della persona e, come tale, si inserisce necessariamente nella schiera dei diritti fondamentali costituzionalmente garantiti dall'art. 2 e 22 Cost., nonché dall'art. 6 c.c.

Ciascun individuo si distingue, attraverso il prenome, dagli altri componenti della sua famiglia che possiedono lo stesso cognome nonché, per il cognome, da coloro che appartengono ad altri consorzi familiari.

Da qui il riconoscimento al cognome di una valenza sociale e, dunque, di una funzione di natura pubblicistica connessa all'interesse dell'intera società ad identificare i propri componenti.

La garanzia costituzionale della persona è scandita dai principi dell'uguaglianza e della pari dignità. Essa sembrerebbe implicare la necessaria presenza, nel momento dell'identificazione della persona, tanto del segno della linea paterna che di quella materna.

La scelta del cognome paterno, in mancanza di un'espressa previsione normativa, si riconduce generalmente ad una regola non scritta d'identità culturale di una determinata civiltà ed all'esigenza di ancorare la garanzia costituzionale dell'unità della famiglia all'unicità del cognome atto ad individuare la persona nella società in cui vive.

In tale prospettiva, il riconoscimento di un interesse ad aggiungere, o a sostituire, per ragioni di natura morale, affettiva o familiare, al cognome paterno quello materno, per proiettare diversamente la propria identità nella dimensione sociale, non può che essere eccezionale nonché legato alle specifiche circostanze che qualificano la situazione, cosicchè quell'interesse nel caso specifico, possa essere considerato meritevole di tutela.

La situazione si complica nella società contemporanea fatta di grandi trasformazioni, e ciò non solo per l'affollarsi di nuovi modelli familiari, ma anche per la fuga sempre più frequente dell'istituzionalizzazione degli stessi, in un senso per il moltiplicarsi delle convivenze stabili, spesso con figli nati al di fuori del matrimonio, e dall'altro, per un ricorso sempre più frequente a pratiche di risoluzione del rapporto matrimoniale o familiare (divorzio, disconoscimento, mancato riconoscimento).

In conclusione è, altresì, interessante fare un riferimento all'uso del cognome nelle unioni civili ricordando la prima pronuncia della Corte Costituzionale (Corte cost. n. 212/2018) sulla questione del “cognome comune” scelto dalle parti nell'unione civile.

Questo provvedimento riconosce alle parti dell'unione la facoltà di adottare un cognome unico, scegliendolo tra quello dell'una o dell'altra; allo stesso modo esse potrebbero legittimamente scegliere di mantenere i rispettivi cognomi, rinunciando a contraddistinguere il vincolo con un cognome comune e condiviso.

La norma delimita la durata del cognome comune a quella dell'unione civile; il comma 10 della l. n. 76/2016 stabilisce espressamente che la scelta del cognome è operata “per la durata dell'unione”; dallo scioglimento dell'unione civile, anche in caso di morte di una delle parti, discende la perdita automatica del cognome comune.

Secondo la Corte questa previsione è conforme al principio di ragionevolezza: data la temporaneità dell'effetto della scelta del cognome comune – osserva la Corte – sarebbe stato contraddittorio e irragionevole attribuire a tale scelta un effetto tendenzialmente definitivo e irreversibile quale quello che consegue alla variazione del cognome anagrafico.

La Corte confuta anche la censura riguardante la presunta lesione del diritto al nome e all'identità personale: la normativa costituzionale e quella sovranazionale non impone che il diritto al nome, quale elemento costitutivo dell'identità personale, debba concretizzarsi nel cognome comune, così da rendere necessaria la modifica anagrafica del cognome originario.

In ogni caso, la Corte afferma che «la natura paritaria e flessibile della disciplina del cognome comune da utilizzare durante l'unione civile e la facoltà di stabilirne la collocazione accanto a quello originario – anche in mancanza di modifiche della scheda anagrafica – costituiscono dunque garanzia adeguata dell'identità della coppia unita civilmente e della sua visibilità nella sfera delle relazioni sociali in cui essa si trova ad esistere».

Guida all'approfondimento

Ziino, Diritti della persona e del diritto al (pre)nome. Riferimenti storico- letterari e considerazioni giurdiche , in Giust. civ., 2004;

Stanzione, Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Camerino – Napoli, 1975;

Dogliotti, L'identità personale, in Trattato di Diritto Privato, diretto da Rescigno, 2, Torino, 1982;

Sesta, Verso nuovi sviluppi del principio di eguaglianza tra i coniugi, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2004;

Santoro-Passarelli, Diritti e doveri dei coniugi, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo, Trabucchi, I, Padova, 1992;

Spagnesi, Nome (Storia), in Enc. Dir., XXVIII. 1978;

De Cupis, Nome e cognome, Novissimo dig. it. Sez. civ. IX, Torino, 1965;

Pacini, Una consuetudine secolare da rivedere, in Giur. Merito, 1985;

Carbone, Quale futuro per il cognome?, in Fam. e dir., 2004.

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