La crisi carceraria e l'emergenza sanitaria Covid-19 per ripensare alla rinascita della giustizia riparativa

Veronica Clara Talamo
04 Maggio 2020

Sebbene accostare l'attuale emergenza sanitaria al tema della Restorative Justice potrebbe apparire un ossimoro, il presente contributo si pone l'obiettivo di superare la visione della giustizia riparativa…
Abstract

Sebbene accostare l'attuale emergenza sanitaria al tema della Restorative Justice potrebbe apparire un ossimoro, il presente contributo si pone l'obiettivo di superare la visione della giustizia riparativa come timida soluzione ai gravi problemi che attanagliano il microcosmo penitenziario, avvalorandone la funzione decongestionante, specie alla luce delle recenti proteste insorte all'interno di alcuni Istituti Penitenziari a causa del dilagare del Covid-19.

Uno spiraglio deflattivo dietro alle sbarre del sovraffollamento

Purtroppo l'erompere del virus all'interno delle carceri non è altro che l'ennesima prova della fragilità e dell'inadeguatezza di questi istituti, che rischiano di diventare delle bombe epidemiologiche soprattutto per la difficoltà di osservare le prescrizioni circa il distanziamento sociale tra i detenuti.

Infatti, le recenti misure adottate all'uopo col Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18 – c.d. Cura Italia – sono l'apice di una sequela di interventi normativi susseguitisi negli ultimi anni col fine di arginare il fenomeno dell'overcrowding carcerario, fortemente stigmatizzato da parte della Corte di Strasburgo nella sentenza Torreggiani.

Interventi legislativi che per altro hanno lasciato inascoltate le risoluzioni n. 1998/23 e n. 1999/26 con le quali il Consiglio Economico e Sociale della Nazioni Unite, prendendo atto della condizione degli istituti penitenziari, raccomandava agli Stati Membri, ove possibile, di ricorrere alla mediazione, a riparazioni civilistiche o ad accordi di reintegrazione economica in favore delle vittime degli illeciti penali.

Misure in tal senso avrebbero potuto porre freno alla piaga del sovraffollamento ed all'abuso del carcere preventivo in chiave di eccesiva anticipazione della pena, che sono solo alcuni dei fattori che oggi portano a parlare di “crisi carceraria”, che da un lato si evidenzia come crisi umanitaria considerando che il degrado e la solitudine spingono alcuni detenuti a fenomeni di autolesionismo e di suicidio, dall'altro si ramifica come crisi da inefficienza perché, lungi dall'assolvere la funzione rieducativa prevista dall'art. 27, comma 3, Cost., la pena innalza il livello di delinquenzialità ed il pericolo di recidivanza.

L'utilità (in)compresa dei percorsi di giustizia riparativa

La giustizia riparativa è intrappolata in un limbo perché se da una parte appare una valida alternativa all'ordinario sistema penale, dall'altra rischia di essere “azzittita” dall'impostazione reo-centrica dell'evento illecito e dalla logica del castigo che difficilmente potrebbero accarezzare la visione relazione del fenomeno criminoso.

La giustizia riparativa, al contrario, non concepisce il reato come illecito penale commesso contro la società, al quale deve seguire una contromisura – cioè la pena – per ripristinare l'ordine costituito, ma lo intende come un conflitto che recide le aspettative socialmente condivise dai consociati. Il reato ingenererebbe nella vittima sentimenti d'infelicità e patimenti (sino a toccare nei casi più gravi la dimensione della morte) ai quali non dovrebbe darsi risposta ricercando la pena maggiormente afflittiva per il reo, essendo preferibile avviare un percorso per riparare il danno secondo lo schema della rigenerazione dei legami sociali (precisandosi che la riparazione non si esaurisce col portafoglio, avendo uno spessore morale).

Probabilmente concorre ad aumentare lo scetticismo verso questa nuova forma di giustizia il fatto che non vi sia la branca del “diritto riparativo” in difetto di un corpus di precetti ad hoc, potendosi genericamente parlare di percorsi di giustizia riparativa che s'incardinano nel processo di cognizione e nella fase di esecuzione della pena; d'altro canto nell'ordinamento penale sostanziale e processuale vi sono degli istituti embrionali che sviliscono la ratio riparatrice non offrendo alle parti un'occasione per ricucire lo strappo relazionale provocato dall'illecito, in quanto le misure impartite sono adottate dall'autorità giudiziaria.

Eppure la Restorative Justice appare complementare al nostro sistema giudiziario ordinario che, di matrice retributiva ed imperniato sulle logiche di mera ritorsione, non prevede forme di diversion, muovendosi prevalentemente nell'alveo sanzionatorio della pena detentiva. Questa giustizia dialogica, volta a ricucire i tagli provocati dagli illeciti penali, fatica tutt'ora ad affermarsi perché, prima ancora della vittima, deve darsi centralità alla sua sofferenza: il reo dovrebbe avviare un percorso introspettivo che lo porti al ravvedimento ed alla (ri)scoperta delle norme giuridiche, nel segno dell'auto-responsabilizzazione e del riscatto morale.

I programmi di giustizia riparativa, infatti, sono finalizzati alla riabilitazione ed alla rieducazione del reo in quanto la pena viene considerata strumento di umanizzazione (e non più un deterrente), apparendo la triade danno-responsabilità-riparazione la giusta sintesi di questa nuova forma di giustizia che, fondata sulla ricerca consensuale ed inclusiva del rimedio, si pone l'obiettivo di “civilizzare” il sistema penale, abbandonando la concezione secondo cui la sanzione è l'unico strumento idoneo per rispondere al male arrecato dall'illecito e favorendo i percorsi relazionali che si aprono dinanzi all'autore del fatto-reato, che hanno il valore di “terapie emotive” (ad esempio in altri ordinamenti europei si parla di family conference o peacemaking circles che, però, sono ben lontani dalla nostra esperienza giuridica).

Embrionali e disarmoniche esperienze di Restorative Justice nel nostro ordinamento giuridico

Nell'ultimo decennio del ‘900 sono stati avviati degli studi (ad esempio nell'ambito penal-societario/tributario e dei reati contro la P.A.) per saggiare l'alternatività del risarcimento del danno alla pena, giungendo, ad esempio, all'introduzione nel codice penale di istituti recanti condotte riparatorie post-delicum non assimilabili a pratiche di depenalizzazione, come la messa alla prova o la causa di estinzione del reato per condotte riparatorie.

Gli istituti para-riparatori potrebbero essere classificati a seconda che trovino applicazione prima della pronuncia di condanna (ad esempio art. 168-bis c.p., art. 28 d.P.R. 22 settembre 1988 n. 488, art. 35 d.lgs. 28 agosto 2000 n. 274) o che presuppongano già la condanna e prevedano l'attività del lavoro (art. 73, comma 5-bis d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, art. 21 l. 26 luglio 1975 n. 354), che portino alla estinzione della pena (ad esempio l'esito positivo del periodo di affidamento in prova al servizio sociale estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale ai sensi dell'art. 47 l. n. 354/75) o che consentano al condannato «a pena detentiva che, durante il periodo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento» di essere ammesso alla liberazione condizionale della pena ex art. 176 c.p. o di concedergli la riabilitazione nei casi previsti dall'art. 179 c.p.

Come emerge, alcune condotte riparatorie vengono assimilate a cause di non punibilità ed altre a circostanze attenuanti, talune si atteggiano a meri obblighi riparatori specificati in sede di condanna e talaltre hanno la valenza di prescrizioni che danno significato alla sospensione condizionale della pena o all'affidamento in prova al servizio sociale.

La matematica consapevolezza che l'inasprimento della risposta punitiva acuisca il fenomeno criminoso ha evidenziato la necessità di riconoscere alla Restorative Justice spazi di operatività, potendosi denotare come l'istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova che l'imputato può formulare nei casi previsti dall' art. 168-bis c.p. riecheggi i profili della giustizia riparativa, visto che il programma di trattamento, elaborato d'intesa con l'UEPE, può prevedere «le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa» (art. 464-bis, comma 4, lett. c) c.p.p. e art. 141-ter disp. att. c.p.p.).

Tuttavia, tale disposizione non chiarisce quali siano gli operatori deputati a effettuare la mediazione penale e vi sono delle incongruenze laddove l'art. 168-bis, comma 2, c.p. recita che «la messa alla prova comporta la prestazione di condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato», mentre l'art. 464-bis, comma 4, lett. b) c.p.p. prevede che il programma di trattamento in ogni caso prevede « le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all'attività di volontariato di rilievo sociale».

Nonostante le attività riparatorie siano volte ad incidere sulle conseguenze dannose e pericolose del reato e durante il periodo di sospensione del procedimento sia possibile instaurare la procedura di mediazione, non sembra che la probation processuale sia in grado di offrire ai protagonisti della vicenda criminosa l'opportunità di ricucire le ferite derivanti dal reato, tanto più se si considera che la messa alla prova è il frutto di un accordo che intercorre tra l'imputato ed il giudice, il quale potrebbe integrare o modificare il programma di trattamento – seppure col consenso del reo – minando la volontarietà della richiesta (art. 464-quater, comma 4, c.p.p.).

A confermare che tale istituto non si confà alle logiche della Restorative Justice concorre il fatto che la persona offesa abbia un ruolo marginale, potendo essere sentita dal giudice in apposita udienza in camera di consiglio ai fini del decidere (ex art. 464-quater, comma 1, c.p.p., eventualmente valutando che il domicilio indicando nel programma dall'imputato assicuri le proprie esigenze di tutela, come da comma 3) ed all'esito della prova, senza che la sua insoddisfazione, sotto il profilo risarcitorio, possa impedire al giudicante di pronunciare la sentenza dichiarativa di estinzione del reato; di conseguenza, le attività riparatorie e le prestazioni del lavoro di pubblica utilità non sono altro che prescrizioni obbligatorie del programma di trattamento che difettano dei caratteri della volontarietà e della consensualità, tipici dei percorsi di giustizia riparativa.

Anche il meccanismo di estinzione del reato per condotte riparatorie previsto dall' art. 162-ter c.p. non favorisce il riavvicinamento tra le parti della vicenda criminale, specie considerando che «il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito ad offerta reale ai sensi degli articoli 1208 e seguenti del codice civile, formulata dall'imputato e non accettata dalla persona offesa, ove il giudice riconosca la congruità della somma offerta a tale titolo». Tale modello estintivo attribuisce al rimedio civilistico l'effetto di porre nel nulla la pretesa punitiva dell'ordinamento giuridico a fronte di un ravvedimento operoso post-delictum, oggetto di valutazione di congruità da parte del giudicante visto che, rispetto al quantum, il risarcimento deve algebricamente compensare la persona offesa per la lesione subìta e, rispetto al quando, dev'essere tempestivo (cioè deve intervenire entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, salva l'ipotesi del c. 2).

Il risarcimento del danno previsto dall'art. 162-ter c.p. non si inserisce in un percorso riparativo che incoraggia la riconciliazione delle parti in quanto l'audizione di queste ha solo la funzione di permettere al giudice di quantificare il danno inflitto alla vittima dell'illecito, non aprendo le porte alla Restorative Justice visto che il reato potrebbe estinguersi sia in difetto delle remissione della querela, che in caso di rifiuto dell'offerta formulata dall'imputato e ritenuta congrua dal giudicante (fermo restando che il reo dovrebbe risarcire il danno in proporzione alla propria capacità economica).

La circostanza attenuante prevista dall'art. 62 n. 6 c.p. potrebbe apparire un quid minus dell'istituto appena esaminato visto che prevede che attenua il reato, quando non sia elemento costitutivo o circostanza attenuante speciale, «l'aver, prima del giudizio, riparato interamente il danno, mediante il risarcimento di esso, e, quando sia possibile, mediante le restituzioni; o l'essersi, prima del giudizio o fuori dal caso preveduto nell'ultimo capoverso dell'art. 56, adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere le conseguenze dannose o pericolose del reato».

Spostandoci nell'alveo della legislazione complementare, appare significativo l'art. 2, comma 2,d.lgs. n. 274/2000 relativo alla competenza penale del giudice di pace, laddove recita che questi nel corso del procedimento «deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti».

Ciò accade propriamente durante la celebrazione dell'udienza di comparizione posto che «quando il reato è perseguibile a querela, promuove la conciliazione tra le parti» e «qualora sia utile per favorire la conciliazione, il giudice può rinviare l'udienza per un periodo non superiore a due mesi e, ove occorra, può avvalersi anche dell'attività di mediazione di centri e di strutture pubbliche o private presenti sul territorio», redigendosi, in caso di esito positivo, il processo verbale attestante la remissione della querela o la rinuncia al ricorso ex art. 21 e la relativa accettazione (art. 29, commi 3-4).

Anche la parentesi extra-processuale della messa alla prova minorile appare un valido espediente di giustizia riparativa atteso che l' art. 28 d.P.R. n. 448/88 prevede che il giudice, con l'ordinanza di sospensione, affidi il minorenne ai servizi minorili della giustizia per lo svolgimento delle opportune attività di trattamento e che possa « impartire prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minorenne con la persona offesa dal reato», potendosi giungere alla dichiarazione di estinzione del reato per l'esito favorevole della probation (art. 29), così promuovendo il reinserimento sociale di un soggetto la cui personalità è ancora in fase di formazione.

Dal punto di vista pratico dev'osservarsi che i percorsi di giustizia riparativa non appaiono compatibili solo con la fase di cognizione ma anche con la fase esecutiva della pena, momento qualificante di un percorso di recupero sociale: se nella prima fase hanno un funzione conciliativa, nella seconda fase – anche sulla scorta della Raccomandazione n. 11 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa in data 28.06.1985 – avrebbero una valenza riabilitativa, dovendo il giudice apprezzare che il rimedio abbia raggiunto il suo effetto rieducativo.

Tuttavia, nonostante un primario entusiasmo deve evidenziarsi sia come la presenza di variegate condotte riparatorie post-delictum all'interno del reticolato normativo denoti la mancanza di una disciplina organica in materia, che come gli istituti appena annoverati – in particolare la messa alla prova per adulti e la causa di estinzione del reato per condotte riparatorie – vengano erroneamente ascritti al paradigma della giustizia riparativa, trattandosi, piuttosto, di “sanzioni riparatorie” che si modellano sulle conseguenze dannose o pericolose del reato oppure sui rimedi civilistici e che operano come cause di degradazione o attenuazione dell'illecito penale.

Un'occasione mancata

Purtroppo, l'opportunità di edificare – a latere dei c.d. strumenti di apertura del carcere (si pensi alla misure alternative dell'affidamento in prova, della semilibertà e della libertà anticipata introdotte con la legge del '75 che ha segnato un'organica riforma di adeguamento costituzionale del sistema penitenziario, quantomeno sotto il profilo rieducativo) e dei c.d. strumenti di sostituzione del carcere (cioè le pene alternative) – un paradigma che “demolisse” la monocultura carceraria è eclissata.

Nel 2015 l'allora Ministro della Giustizia, on. Andrea Orlando, aveva promosso gli Stati Generali sull'esecuzione della pena col fine di inaugurare un iter legislativo riguardante la giustizia riparativa, alla quale venne dedicato un apposito spazio di riflessione (il c.d. Tavolo 13) per valutare la fattibilità d'incardinarne i relativi percorsi durante la fase esecutiva, in accordo alla Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio.

Al termine degli Stati Generali, il Ministro Orlando, sulla scorta dell'art. 1, comma 85, lett. f) legge 23 giugno 2017 n. 103 e mediante il d.m. 19 luglio 2018, aveva istituito tre commissioni ad hoc deputate ad elaborare degli schemi di decreto legislativo.

La commissione competente per la riforma dell'ordinamento penitenziario minorile e dei modelli di giustizia riparativa elaborò un testo che prevedeva la possibilità di avviare i percorsi riparativi lungo la fase esecutiva della pena (in conformità con la legge delega), con studi volti a provarne la compatibilità con la fase di cognizione.

Il testo ebbe l'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri in data 22 febbraio 2018, ma com'è noto l'iter parlamentare sfumò per scadenza dell'esercizio della delega il 3 agosto 2018, impedendo di dar forma alla disciplina sulla mediazione e di inaugurare una rivoluzione giuridico-culturale fondata anche sulla dicotomia conflitto-riparazione, e non esclusivamente sul binomio reato-pena.

Si è, dunque, persa l'opportunità di inaugurare una forma di giustizia a tutto campo che avrebbe consentito al reo di ripensare alla propria condotta illecita, per incamminarsi verso il futuro con la consapevolezza del male arrecato, rimanendo questa riforma imbrigliata nelle maglie della cultura “carcerocentrica” e dell'idea che la certezza della pena debba essere perseguita mediante un'espiazione spiccatamente afflittiva.

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