Riflessioni sulla responsabilità medica nel contesto Covid-19: spunti di diritto civile e penale a confronto

05 Maggio 2020

La pandemia che ha colpito anche l'Italia e che ha causato migliaia di morti tra i cittadini di ogni età e tra gli operatori sanitari, avrà certamente dei riflessi nelle aule di giustizia.Già si apprende dai mezzi di comunicazione, di indagini penali promosse nei confronti di strutture sanitarie, su impulso degli stessi medici piuttosto che dai parenti dei degenti, alle quali seguiranno, con ogni probabilità, procedimenti penali e civili.Il presene lavoro, è volto a rappresentare, sotto un profilo pratico, la casistica che potrà interessare gli operatori del diritto sia nell'ambito del diritto penale che civile, con proposte risolutive alle diverse problematiche, nel solco della più accreditata e recente giurisprudenza.
Spunti di diritto penale. Premessa

Prima di entrare nel vivo della questione ci preme analizzare alcuni aspetti di carattere generale sulla natura e l'efficacia delle linee guida, sui protocolli e le regole deontologiche. Come pregevolmente affermato recentemente da Francesco Palazzo In “Pandemia e Responsabilità Penale” (in Sistema Penale, 26 aprile 2020), la «colpa penale dei giuristi ha subito negli ultimi decenni un processo di normativizzazione e oggettivazione, nel senso che il suo fulcro è stato oramai individuato nella violazione di regole cautelari disciplinanti le attività sempre più pericolose»

Occorre prendere atto che in dottrina non si è ancora trovata una soluzione unanime sul problema della natura delle linee guida: se si tratti di regole di condotta standardizzate; se costituiscano soltanto fonti di cognizione delle regole di condotta che i medici devono seguire per il trattamento delle differenti patologie; se abbiano prevalente valore di aggiornamento professionale.

Naturali sono le conseguenze sul piano penale poiché l'efficacia vincolante delle linee guida si attenua sempre più in relazione alla natura che ad esse si attribuisce e alla fonte da cui provengono da cui deriva anche il loro fondamento scientifico e quindi la loro affidabilità.

La differenza, invece, tra protocolli e linee guida non è stata mai ben chiarita e le distinzioni che vengono fatte non sono tali da individuare criteri distintivi di natura sostanziale perché fondate, nella sostanza, sul loro grado di vincolatività.

Giova ricordare che le linee guida vanno distinte dai protocolli poiché hanno un valore tendenziale, mentre i secondi sono ben più precisi e vincolanti. Risulta quanto mai utile riportare il pensiero di F. Giunta (nella voce Medico in “Responsabilità penale del Medico”, in Diritto Penale, dizionari sistematici, Il Sole XXIV Ore, Milano, 2008, 876 e in “Il Reato Colposo nel sistema delle Fonti”, in Giust.Pen, 2012, II, 577) nel definire che«i protocolli e le linee guida sono concetti che rientrano entrambi nelle nozioni di discipline di cui all'art. 43 cod. pen.; le linee guida solitamente prescindono dalla verifica del razionale scientifico, per questa ragione esse presentano un profilo prevalentemente metodologico, non vincolante, fungendo in questo modo da raccomandazioni».

Arrivando, infine, alle regole deontologiche, queste possono essere inquadrate come le regole di cui varie categorie professionali si dotano per disciplinare, anche da un punto di vista etico, l'esercizio dell'attività svolta - non hanno in linea di massima - natura cautelare anche se nel tempo hanno raggiunto una particolare diffusione nei diversi settori professionali.

Nel caso della deontologia medica la specificità di questa professione, diretta alla salvaguardia della salute del paziente, ha portato a smentire la regola generale e, di fatto, i codici che disciplinano questo aspetto sono ricolmi di regole e natura cautelare che non possono non avere una loro considerevole rilevanza anche esterna. Si può in questo modo affermare come le norme della deontologia medica abbiano superato la “tradizionale connotazione corporativistica” per indirizzarsi in modo prepotente verso «l'attuazione di finalità di interesse pubblico, pertinenti alla protezione del bene - costituzionalmente rilevante - della salute del malato» (si veda G. Iadecola Le norme della deontologia medica: rilevanza giuridica ed autonomia di disciplina, in Riv.It. Med. leg, 2007, 551).

Il nesso di causalità

1. Il rapporto di causalità dei reati commissivi

Non è difficile immaginare che le omissioni, i ritardi e le inefficienze, che - a quanto si apprende dalla cronaca - hanno purtroppo caratterizzato l'operato di alcuni istituti sanitari impegnati nella gestione della pandemia, daranno luogo a imputazioni a titolo di omicidio, lesioni o epidemia a carico di sanitari e dirigenti delle aziende ospedaliere. L'art. 40 c.p. richiede, per i reati di evento (quali sono appunto l'omicidio, le lesioni e l'epidemia) l'accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento. Per l'accertamento di tale nesso occorrerà seguire due procedimenti differenti, a seconda che la condotta oggetto d'indagine sia un'azione (per esempio, l'aver introdotto un paziente affetto da Covid-19 all'interno di una RSA, causando il contagio e la morte di un anziano ospite della struttura) ovvero un'omissione (come il non aver indossato i dispositivi di protezione, ancora una volta contagiando terzi).

Nel primo caso, al Pubblico Ministero spetterà dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che, eliminando mentalmente l'azione (immaginandola come non avvenuta), l'evento non si sarebbe verificato: si tratta quindi di accertare la c.d. “causalità reale”. Per tornare all'esempio appena proposto, il PM avrà l'onere di dimostrare che l'introduzione di una persona infetta in una RSA configuri un antecedente necessario della morte di un'altra persona, ovvero che, se l'introduzione non avesse avuto luogo, l'ospite della RSA non avrebbe contratto il virus e non sarebbe morto.

2. Il rapporto di causalità nei reati omissivi

L'accertamento del nesso di causalità viene in rilievo - oltre che nei reati commissivi di evento - anche nei reati omissivi impropri, ovvero quando all'imputato si rimproveri non la causazione di un evento, ma il suo mancato impedimento (ai sensi dell'art. 40 c. 2 c.p., infatti, non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo).

In questi casi, l'accertamento del nesso di causalità si articola in due fasi: la prima consiste nell'accertamento della causa reale dell'evento (c.d. causalità reale: il decesso del paziente è avvenuto per soffocamento), la seconda nella verifica che l'azione omessa, qualora fosse stata tenuta, avrebbe impedito il verificarsi dell'evento (occorre quindi immaginare come avvenuta un'azione che invece non ha avuto luogo: c.d. “causalità ipotetica”. Per proseguire nell'esempio, occorre accertare che, se il paziente fosse stato intubato, egli sarebbe sopravvissuto).

Se per il secondo momento si ammette - come si dirà nel successivo paragrafo - che l'efficacia impeditiva dell'azione omessa sia sorretta dalla “probabilità logica”, per il momento esplicativo, che attiene all'individuazione della causa concreta dell'evento, autorevole dottrina [Marinucci-Dolcini-Gatta, p. 269] e la più recente giurisprudenza (tra le altre, Cassazione penale sez. IV, 19 febbraio 2020, n.8864; Cass. Cassazione penale sez. IV, 17 gennaio 2019, n.5896, Cassazione penale sez. IV, 16 maggio 2019, n.27199, tutte in tema di responsabilità medica e la seconda, in particolare, a proposito di infezioni nosocomiali), benché contrastate da alcune voci di dissenso [Piras, L'immunità dei germi e i germi dell'immunità, su DPC, 31 gennaio 2013] pretendono il raggiungimento della certezza processuale.

La causalità omissiva potrebbe venire in rilievo in un numero consistente di casi legati al Coronavirus, ovvero qualora la diffusione del virus all'interno degli istituti sanitari si sospetti dovuta alla mancata adozione di cautele (il personale non usava i dispositivi di protezione, gli ambienti non venivano disinfettati...): applicando i principi appena esposti, il PM dovrà individuare la causa certa dell'infezione (per esempio: il mancato uso delle mascherine da parte dei medici), per poi dimostrare (attraverso un giudizio di probabilità logica di cui si dirà subito) che il comportamento diligente omesso avrebbe impedito il contagio.

3. La rilevanza di eventuali concause

Analogamente a quanto osservato a proposito della responsabilità civile, in ambito penale eventuali concause dell'evento - come patologie pregresse, età avanzata, immunodeficienza.. - non escludono né attenuano la responsabilità. Ai sensi dell'art. 41, c. 1 c.p., infatti, “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall'azione o dall'omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra fra l'azione e l'omissione e l'evento”: il che equivale a dire che il rapporto di causalità sussiste quando l'agente abbia posto in essere anche uno solo degli antecedenti logici dell'evento.

4. Le leggi scientifiche statistiche

Il problema più discusso attiene all'utilizzo di leggi scientifiche probabilistiche ai fini dell'accertamento del nesso di causalità: ci si chiede se leggi statistiche possano essere utilizzate per affermare oltre ogni ragionevole dubbio che un'azione ha causato un evento, o che un comportamento doveroso omesso avrebbe evitato l'evento. Fino al 2002, la giurisprudenza ammetteva una simile affermazione solo qualora la legge statistica consentisse di inferire il nesso tra azione/omissione ed evento con una probabilità prossima alla certezza. La celeberrima sentenza Franzese (Cass. S.U., 11 luglio 2002, n. 30328), vero spartiacque in materia, ha sancito invece il principio di diritto in base al quale il nesso di causalità può essere ritenuto sussistente anche in presenza di probabilità statistiche medio-basse, qualora sia possibile escludere la presenza di altri fattori causali in grado di spiegare nel caso concreto il verificarsi dell'evento. La sentenza Franzese - e le sentenze successive, accusate talvolta di aderire solo formalmente alla celebre pronuncia, per dare invece spazio a vere e proprie intuizioni del giudice - ha suscitato vive critiche da parte della dottrina [tra gli altri, Stella, Verità, scienza e giustizia: le frequenze medio-basse nella successione di eventi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, p. 1215; Paliero, Causalità e probabilità tra diritto penale e medicina legale, in Riv. it. medicina legale (e del diritto in campo sanitario), n. 4/2015], soprattutto per la natura diabolica della prova del mancato intervento di cause alternative, da cui deriverebbe l'impossibilità di ritenere provato oltre ogni ragionevole dubbio il nesso di causalità.

Le leggi statistiche entreranno senz'altro in gioco anche nei processi che si instaureranno per il contagio da Coronavirus: per fare qualche esempio, è facile prevedere che numerosi sanitari e pazienti sporgeranno denuncia lamentando di aver contratto il Covid nella struttura sanitaria in cui lavorano o in cui erano ricoverati; la pubblica accusa, una volta accertato che esiste una legge scientifica che permette di predire, con un certo grado di probabilità, che una persona infetta ne contagerà un'altra, dovrà dimostrare la sicura assenza, nel caso concreto, di spiegazioni causali alternative per il contagio. In alcuni casi tale prova risulterà sostanzialmente impossibile (per il medico che lamenti di aver contratto il Covid in ambiente di lavoro, occorrerebbe provare che egli, all'esterno dell'ospedale, non ha mai deposto i dispositivi di protezione individuale, non ha mai omesso di lavarsi le mani, non ha mai avuto un contatto ravvicinato con nessuno..), ma in altri sarà più agevole (si pensi all'anziano che non è mai uscito dalla RSA in cui era ospite, e in cui nessuno, al di fuori del personale sanitario, aveva il permesso di entrare).

Linee guida e "buone pratiche": l'art. 590-sexies c.p.

La legge Gelli-Bianco (l. 8 marzo 2017, n. 24) ha introdotto nel codice penale l'articolo 590-sexies, il quale prevede una causa di esclusione della punibilità per il caso che l'evento si sia verificato a causa di imperizia e siano state rispettateleraccomandazioni previste dalle linee guida o, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le linee guida risultino adeguate alla specificità del caso concreto.

La Cassazione a Sezioni Unite, nella sentenza Mariotti (Cass. S.U., 21 dicembre 2017, n. 8770), ha chiarito che la causa di esclusione della punibilità opera soltanto qualora le linee guida siano state correttamente individuate (il medico non potrà certo difendersi sostenendo di aver rispettato quanto prescritto dalle linee guida per una patologia diversa da quella da cui il paziente era affetto ed erroneamente diagnosticata) tenendo conto delle specificità del caso concreto (fattori di co-morbilità potrebbero suggerire di discostarsi dalle linee guida: il medico non potrà addurre il rispetto della linea guida che prescrive la somministrazione di un farmaco contenente glucosio, se il paziente è diabetico), e l'errore sia intervenuto a causa di imperizia durante la fase esecutiva. Peraltro, anche in fase esecutiva, ovvero nel compimento dell'operazione, è richiesto che le linee guida siano correttamente individuate [Piras, L'accertamento della colpa medica nella giurisprudenza post Mariotti, in DPC, 18 gennaio 2019].

La sentenza Mariotti stabilisce poi - con un'interpretazione che si spinge oltre la lettera della legge - che la causa di esclusione della punibilità copre soltanto l'errore da imperizia commesso per colpa lieve in fase esecutiva, attribuendo quindi un ruolo al grado della colpa.

Riassumendo, quindi, alla luce della giurisprudenza: qualora le linee guida siano state correttamente individuate (tanto in fase di diagnosi quanto in fase di intervento), e l'errore si sia verificato per imperizia durante la fase esecutiva, il grado della colpa rileverà ai fini dell'applicabilità della causa di esclusione della punibilità prevista ex art.

590-

sexies,.

Qualora invece l'errore sia addebitabile a negligenza o imprudenza, ovvero qualora il medico si sia discostato da quanto previsto dalle linee guida adeguate al caso concreto, il grado della colpa rileverà soltanto ai fini della commisurazione della pena, secondo la regola ordinaria prevista dall'art. 133 c.p.

Proprio per la rilevanza attribuita alla forma e al grado della colpa, la motivazione dovrà indicare se il caso concreto sia coperto da linee guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, e specificare di quale forma di colpa si tratti (in particolare, se colpa da imperizia, negligenza o imprudenza) e in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da quanto prescritto dalle linee guida o dalle buone pratiche (Cass. pen. sez. 4, 22 giugno 2018, n. 37794, De Renzo; conf., Cass. pen. sez. IV, 16 novembre 2018, n. 412 e, da ultimo, Cass. pen. sez. IV, 16 gennaio 2020, n. 4892).

Il medico non ha peraltro alcun onere di allegazione delle linee guida, poiché il legislatore ha previsto, rispetto alla selezione delle stesse, un regime a evidenza pubblica (Cass. pen. sez. IV, 16 ottobre 2018, n.49884): l'art. 5 della legge Gelli-Bianco stabilisce, infatti, che le linee guida rilevanti ai fini della esclusione della punibilità sono quelle inserite nel Sistema Nazionale per le Linee Guida (SNLG), accreditate dall'Istituto Superiore di Sanità e pubblicate sul sito internet dell'istituto stesso; le “buone pratiche clinico-assistenziali” sono invece monitorate da un apposito osservatorio nazionale, istituito con decreto del Ministro della Salute.

I primi commentatori interessatisi alla responsabilità colposa del medico e della struttura sanitaria accusati di aver male gestito l'emergenza [Palazzo, Pandemia e responsabilità penale, su Sistema Penale, 24 aprile 2020; Bartoli, Il diritto penale dell'emergenza “a contrasto del Coronavirus”: problematiche e prospettive, su Sistema Penale, 24 aprile 2020; Cupelli, Emergenza COVID-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, su Sistema Penale, 30 marzo 2020], hanno già predetto che l'art. 590-sexies c.p., non sarà applicabile nel caso concreto, non essendo a disposizione dei sanitari nessuna linea guida in materia di Covid-19, data l'assoluta novità del virus; gli stessi autori hanno per questo già segnalato la loro adesione all'introduzione - proposta come emendamento al decreto c.d. “cura Italia” e ampiamente riecheggiata dalla stampa - di uno “scudo penale”, volto a estendere l'ambito di operatività della causa di esclusione della punibilità e a fornire un'interpretazione autentica del concetto di “colpa grave”. Allo stato attuale, comunque, niente di concreto.

La configurabilità della responsabilità amministrativa da reato a carico della struttura sanitaria

La terza questione che si pone prepotentemente all'attenzione del professionista riguarda la configurabilità della responsabilità amministrativa da reato (ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231) a carico degli istituti ospedalieri e sanitari, fra i quali rientrano anche le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), oggi all'attenzione della cronaca e della magistratura.

Come è noto, l'art. 1 del d.lgs. 231/2001 prevede la responsabilità degli enti forniti di personalità giuridica e delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica per i reati commessi nell'interesse o a vantaggio dell'ente da soggetti inquadrabili al suo interno. La responsabilità è però esclusa (u.c. art. 1) per gli enti pubblici non economici, tra i quali la littera legis e l'interpretazione storica suggerirebbero di includere gli ospedali. La giurisprudenza si è mossa però in senso opposto, riconoscendo, a partire dalla sentenza della Corte di Cassazione, II Sez. pen., 9 luglio 2010, n. 28699, la natura economica dell'istituto sanitario, da cui consegue l'attribuibilità ad esso della responsabilità amministrativa da reato.

Spunti di diritto civile. La Legge Gelli-Bianco

Non possiamo non iniziare la trattazione senza menzionare i principi contenuti della l. 8 marzo 2017 n. 24, deputata a regolamentare in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie.

In primo luogo giova rammentare la ratio che sorregge l'impianto legislativo, espresso all'articolo 1:

- La sicurezza delle cure è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell'interesse dell'individuo e della collettività.

- La sicurezza delle cure si realizza anche mediante l'insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all'erogazione di prestazioni sanitarie e l'utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative.

- Alle attività di prevenzione del rischio messe in atto dalle strutture sanitarie e sociosanitarie, pubbliche e private, è tenuto a concorrere tutto il personale, compresi i liberi professionisti che vi operano in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale.

Possiamo subito osservare come la sicurezza delle cure sia il bene primario tutelato dalla normativa, unitamente al diritto alla salute (diritto costituzionalmente garantito ex art. 32 Cost.) di cui ne è parte costitutiva. In altri termini, la sicurezza delle cure è un diritto costituzionalmente garantito dal nostro ordinamento.

Il predetto bene, viene perseguito dallo Stato nell'interesse non solo del singolo individuo, ma della collettività. Trattasi, quindi, di interesse collettivo, che può essere oggetto di tutela anche da parte di enti/associazioni/comitati ai sensi dell'art. 9 della legge n. 241/1990.

Per la tutela delle posizioni soggettive degli utenti, l'ordinamento giuridico prevede due strumenti, entrambi definiti come class action: da una parte, l'azione di classe prevista dall'art. 140-bis del Codice del Consumo, d.Lgs. 206/2005; dall'altra parte, la c.d. class action pubblica disciplinata dal d.lgs. n. 198/2009.

Le infezioni nosocomiali. Natura della responsabilità della struttura sanitaria o sociosanitaria

Definizione: le infezioni nosocomiali sono infezioni acquisite durante la degenza in ospedale e che non sono presenti, od in fase di incubazione, al momento dell'ingresso. Le infezioni che si manifestano più di 48 ore dopo l'ingresso sono di solito considerate nosocomiali.

Ai sensi dell'art. 7 L. Gelli-Bianco, la struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che si avvale di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde ai sensi dell'art. 1218 c.c. (responsabilità contrattuale) ed ex art. 1228 c.c. (responsabilità per fatto degli ausiliari).

Tra le strutture sociosanitarie rientrano anche le Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA). Queste ultime sono strutture residenziali destinate ad accogliere persone anziane non autosufficienti, alle quali vengono garantiti interventi destinati a migliorarne i livelli di autonomia, a promuoverne il benessere, a prevenire e curare le malattie croniche.

Segue. L'onere della prova

In punto onere della prova nell'ambito della responsabilità medica, è di recente intervenuta la Suprema Corte con la sentenza n. 28991 dell'11 novembre 2019, facente parte di quella decade di pronunce che vengono ritenute essere un decalogo della specifica materia.

La richiamata sentenza, in adesione agli ultimi approdi giurisprudenziali, pone a carico del paziente l'onere di fornire la prova del nesso causale, cosicché, ove la causa resti ignota, la domanda risarcitoria dovrà essere respinta (conf., Cass. civ., 23 ottobre 2018, n. 26700; Cass. civ., 15 febbraio 2018, n. 3704; Cass. civ., 7 dicembre 2017, n. 29315; Cass. civ., 26 luglio 2017, n. 18392).

Di diverso avviso le Sezioni Unite nella sentenza 11 gennaio 2008 n. 577 ove veniva stabilito che l'attore ha il solo onere - ex art. 1218 c.c. - di allegare e provare l'esistenza del contratto, e

un inadempimento qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno.

e, cioè, l'aggravamento delle proprie condizioni di salute; mentre spetta alla struttura dimostrare o che l'inadempimento non vi è stato, ovvero che esso, pur essendo sussistente, non è stato la causa efficiente dei danni lamentati dal paziente. In applicazione di detto principio, la causa ignota comporterebbe l'accoglimento della domanda con condanna della struttura al risarcimento dei danni (per l'analisi critica della sentenza Cass. civ., Sez. Un. n. 577/2008, si rinvia a D. SPERA: Resp. sanitaria contrattuale ed extracontrattuale in Legge Gelli Bianco-premesse fallaci e soluzioni inappaganti in Ridare.it).

Per quanto concerne la verifica della sussistenza del nesso causale tra la condotta colposa e l'evento di danno, a differenza del processo penale ove occorre la certezza della prova (al di là di ogni ragionevole dubbio), nel processo civile vige il principio del “più probabile che non”, così come di recente affermato anche dalla sentenza di Cassazione 8 aprile 2020 n. 7760: «In tema di responsabilità civile la verifica del nesso causale tra la condotta omissiva ed il fatto dannoso consiste nell'accertamento della probabilità, positiva o negativa, che la condotta omessa, se si fosse tenuta, avrebbe evitato il rischio specifico di danno; accertamento da compiersi secondo un giudizio controfattuale. Il giudizio, che opera sostituendo l'omissione con il comportamento dovuto, deve compiersi secondo il criterio del 'più probabile che non', conformandosi ad un standard '...di 'certezza probabilistica' (che) in materia civile non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa -statistica delle frequenze di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d. probabilità logica o baconiana)».

Segue. Aspetti pratici sulla prova che dovrà fornire l'operatore sanitario danneggiato.

Tralasciando le norme giuslavoristiche sulla sicurezza dei luoghi di lavoro che prevedono precisi obblighi in capo al datore di lavoro (d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81 e art. 2087 c.c.), evidenziamo come la maggior criticità si rinvenga nella dimostrazione del luogo in cui il virus sia stato contratto.

Preliminarmente, l'operatore sanitario dovrà provare quali mezzi di protezione personale sono stati forniti dal datore di lavoro e quali specifiche istruzioni sono state divulgate; in secondo luogo dovrà dimostrare di aver utilizzato in modo corretto i presidi e le linee guida fornitegli. Raggiunta questa prova, l'operatore sanitario dovrà dimostrare di aver contratto la malattia sul luogo di lavoro e non, per esempio, sul mezzo pubblico che utilizza per recarsi nella struttura sanitaria. Un mezzo per escludere che il contatto con il virus sia avvenuto all'esterno della struttura, sarà quello di dimostrare di aver adottato sempre tutte le cautele consigliate o imposte dalle diverse ordinanze regionali o dai d.p.c.m.: uso della mascherina, uso dei guanti, distanziamento sociale, sanificazione delle mani.

Nel momento in cui questa prova sia raggiunta e sia altresì dimostrata la carenza dei presidi di sicurezza e/o di istruzioni impartite dal datore di lavoro, si può ritenere che secondo il principio civilistico del “più probabile che non”, la malattia virale (di cui si darà prova con la cartella clinica e/o relazione medico-legale) sia stata contratta sul luogo di lavoro.

Segue. Aspetti pratici e prova che dovrà fornire l'ospite in una RSA.

L'ospite della RSA avrà minor difficoltà a dimostrare di aver contratto la malattia all'interno della casa di riposo. La prova potrà essere limitata alla produzione del contratto stipulato con la struttura e alle circostanze di fatto in cui la prestazione veniva fornita, oltre ad un certificato medico/relazione medico-legale che dia atto della contrazione del virus.

Il soggetto ricoverato in una RSA potrebbe incontrare problematiche maggiori nel caso in cui la struttura non dovesse aver compilato una cartella clinica o un registro contenente l'evoluzione dello stato patologico dell'anziano, così da poter raggiungere la prova della contrazione del virus.

In ultima istanza sarebbe, all'evenienza, necessario chiedere la riesumazione del cadavere per l'espletamento di un esame autoptico.

Segue. Il Covid-19 quale concausa della morte.

Si legge nelle statistiche divulgate dal ministero della sanità che, nella maggior parte dei casi, i decessi da Covid-19 sono stati collegati alla presenza di altre patologie pregresse: cardiache, polmonari ecc.

Ma come incide, sotto il profilo della responsabilità, la presenza di una concausa?

Il problema è stato affrontato e risolto dalla giurisprudenza nei seguenti termini. La Corte di Cassazione, in materia di responsabilità medica, è giunta alla considerazione che, in presenza di un concorso di cause naturali e umane, la causalità materiale sarà da addebitarsi integralmente al medico o alla struttura, mentre sotto il profilo della causalità giuridica, il danno andrà parametrato alla effettiva incidenza della colpa o dell'inadempimento (ex plurimis, Cass. civ., 21 luglio 2011 n. 15991; idem, 11 novembre 2019 n. 28986; idem, 28 marzo 2007 n. 7577; idem, sez. lav. 9 aprile 2003 n. 5539).

Segue. L'onere della prova e la responsabilità per carenza dei presidi

La prova liberatoria della struttura sanitaria

Preliminamente si evidenzia come, in conseguenza del riparto degli oneri probatori, la struttura sanitaria dovrà fornire la prova liberatoria solo se l'attore avrà dimostrato la sussistenza del nesso di causalità materiale e di quello giuridico.

Abbiamo già evidenziato nel paragrafo dedicato all'“onere della prova” come sussista anche un'impostazione meno rigorosa (Cass. civ., Sez. Un., sent. 11 gennaio 2008 n. 577), secondo la quale il danneggiato deve soltanto allegare la sussistenza del nesso causale.

Pertanto l'ente dovrà documentare di aver predisposto e ben applicato il piano della sicurezza, di aver formato e quindi, informato adeguatamente il personale sanitario e di aver dotato gli operatori di tutti i presidi a tutela della loro persona, così da poter svolgere la professione nella massima sicurezza; dovrà, inoltre, dimostrare di aver prescritto al paziente la corretta profilassi.

In mancanza, la struttura dovrà dimostrare che l'infezione è stata contratta dall'esercente la professione sanitaria o dal paziente ovvero dall'ospite della RSA per caso fortuito o forza maggiore (v. Cass. civ., ord. n. 5487/2019).

Per quanto riguarda la carenza di ventilatori/respiratori/ossigeno, come meglio si vedrà nel paragrafo successivo, la struttura dovrà dimostrare che la circostanza è conseguenza della situazione straordinaria contingente e non per omessa o negligente organizzazione.

Si riporta una casistica giurisprudenziale che ha avuto modo di affrontare la problematica di infezione nosocomiale.

Cass. civ., sez. III, 10 dicembre 2012, n. 22379: «Allorchè venga accertata la natura nosocomiale di una infezione per la presenza di un batterio nell'ambiente ospedaliero, la responsabilità è da imputarsi alla struttura ospedaliera (nella specie, un neonato aveva contratto una meningite da staffilococco in seguito all'applicazione di un catetere; la Corte ha ritenuto che la responsabilità per colpa dei medici, per aver trattenuto il catetere ombelicale oltre il tempo strettamente necessario, dovesse qualificarsi come lieve, atteso che la letteratura dell'epoca non censurava il mantenimento del catetere per tale periodo, l'uso di vasi arteriosi più piccoli non era comunque esente da rischi e, infine, perché si provvide alla somministrazione anticipata di antibiotici proprio al fine di prevenire infezioni)».

Corte Appello Venezia, sez. IV, 12 giugno 2017, n. 1233: «In linea di fatto, non è contestato che l'appellante si sia sottoposto ad operazione di artroprotesi al ginocchio sinistro in conseguenza delle lesioni all'articolazione subite in occasione dell'incidente stradale. Sussiste nesso causale tra il fatto illecito e l'ulteriore evento lesivo, rappresentato dalla sepsi, sviluppatasi a causa dell'impianto protesico e perciò di origine nosocomiale, che non può considerarsi evenienza eccezionale ed atipica, tale da integrare causa sopravvenuta autonoma ed imprevedibile, atta ad escludere il nesso causale, ai sensi e per gli effetti dell' art. 41, comma 2, c.p. Non rileverebbe in senso opposto, ove anche dimostrata, l'eventuale imperizia o negligenza da parte dei sanitari, che abbia causato o favorito l'insorgenza della sepsi poiché la colpa del sanitario, ancorché grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente rispetto al comportamento dell'autore dell'illecito».

Tribunale Taranto, sent. n.2241/2019,: nel caso di specie, il Tribunale ha evidenziato come il Giudicante ha evidenziato che nella fattispecie l'Asl non avesse dimostrato l«osservanza dei protocolli universalmente riconosciuti come efficaci per la prevenzione delle infezioni in ambiente ospedaliero, dalla quale soltanto può discendere la non riconducibilità della complicanza infettiva a condotte positivamente riferibili alla struttura sanitaria».

Per una ulteriore casistica giurisprudenziale sul punto, si rinvia al documento redatto da M. Vanini, La prova liberatoria nella responsabilità da infezioni nosocomiali, RI.DA.RE.IT, 4 novembre 2019.

La responsabilità da mancanza dei presidi ospedalieri necessari (ad esempio: mancanza dei ventilatori polmonari) e del conseguente obbligo di consenso informato

Sulla responsabilità della struttura sanitaria, anche per quanto concerne la prestazione medica o chirurgica e di messa a disposizione del personale e dei presidi oltre che dei medicinali e delle attrezzature tutte, oltre alla giurisprudenza richiamata nei paragrafi che precedono, appare utile riportare per esteso una recente sentenza di merito.

Tribunale Milano, Sez. I civ., 12 febbraio 2020, n. 1351: « L'accettazione del paziente nella struttura deputata a fornire assistenza sanitaria e ospedaliera comporta la conclusione di un contratto atipico “di spedalità”. L'obbligazione scaturente dal contratto, genericamente detta di assistenza sanitaria, ha un contenuto complesso, perché comprende sia la prestazione medica o chirurgica principale sia una serie di obblighi cd. accessori, consistenti nella messa a disposizione del personale medico, ausiliario e infermieristico, dei medicinali e delle attrezzature tecniche necessarie e nelle prestazioni lato sensu alberghiere comprendenti il ricovero e la fornitura di alloggio, vitto e assistenza al paziente fino alla sua dimissione (Cass., n. 19541/2015). La struttura medica risponde, quindi, a titolo contrattuale per la mancata o scorretta esecuzione di ciascuna delle prestazioni ricomprese nell'obbligazione assunta, ivi inclusa la prestazione medica principale (in “Giustizia a Milano”, 2020, n. 2, R 9) (conf., Cass. Civ., n. 28987/2019 che sul punto ha precisato che «il medico opera pur sempre nel contesto dei servizi resi dalla struttura presso cui svolge l'attività, che sia stabile o saltuaria, per cui la sua condotta negligente non può essere agevolmente isolata dal più ampio complesso delle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei propri servizi operate dalla struttura, di cui il medico stesso è parte integrante, mentre il già citato art. 1228 c.c., fonda, a sua volta, l'imputazione al debitore degli illeciti commessi dai suoi ausiliari sulla libertà del titolare dell'obbligazione di decidere come provvedere all'adempimento, accettando il rischio connesso alle modalità prescelte, secondo la struttura di responsabilità da rischio d'impresa (“cuius commoda eius et incommoda”) ovvero, descrittivamente, secondo la responsabilità organizzativa nell'esecuzione di prestazioni complesse; ne consegue che, se la struttura si avvale della collaborazione dei sanitari persone fisiche (utilità) si trova del pari a dover rispondere dei pregiudizi da costoro eventualmente cagionati (danno): la responsabilità di chi si avvale dell'esplicazione dell'attività del terzo per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice non già in una colpa in eligendo degli ausiliari o in vigilando circa il loro operato, bensì nel rischio connaturato all'utilizzazione dei terzi nell'adempimento dell'obbligazione (Cass., n. 6243/2015), realizzandosi, e non potendo obliterarsi, l'avvalimento dell'attività altrui per l'adempimento della propria obbligazione, comportante l'assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino».

La questione del ricovero in una struttura con carenze organizzative tali da non poter garantire la migliore cura e quindi anche la possibilità di una maggiore chance di sopravvivenza, pone dei problemi anche sotto il profilo del consenso informato.

La normativa di riferimento è la l. n. 219/2017, ove all'art. 1 è disposto che «nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata».

Tra gli obblighi informativi rientrano anche, come noto, quelli inerenti i rischi/benefici della prestazione che la struttura è in grado di fornire. Nel caso che ci riguarda, pertanto, bisognerà verificare se i pazienti sono stati adeguatamente informati o meno di eventuali carenze strutturali/organizzative. In difetto, potrebbe ravvisarsi quell'inadempimento che potrebbe legittimare il paziente a chiedere un risarcimento del danno.

Sotto altro profilo, si può anche ipotizzare che la situazione emergenziale fosse tale da impedire una gestione dell'informazione e quindi dell'adempimento pari ad una situazione ordinaria, così da ipotizzare l'applicazione dell'art. 2045 c.c. e/o dell'art. 54 c.p. (stato di necessità). Si tratta di causa di esclusione di antigiuridicità della condotta che impedirebbe al paziente di ottenere tutela risarcitoria.

Segue. La responsabilità del Ministero della Salute e della Regione

Nel sito del Ministero della Salute

www.salute.gov.it

/portale/ministro, è pubblicato il seguente documento:

La responsabilità pubblica per la tutela del diritto alla salute della persona e delle comunità locali: il servizio sanitario nazionale.

L'espressione "diritto alla salute" sintetizza una pluralità di diritti quali il diritto all'integrità psico-fisica e quello ad un ambiente salubre, il diritto ad ottenere prestazioni sanitarie, alle cure gratuite per gli indigenti nonché il diritto a non ricevere prestazioni sanitarie, se non quelle previste obbligatoriamente per legge, a tutela oltre che della persona del destinatario, di un interesse pubblico della collettività. Il Servizio sanitario nazionale è sorto per dare attuazione al diritto a prestazioni sanitarie, inclusive della prevenzione, della cura e della riabilitazione. La Costituzione provvede alla distribuzione delle competenze legislative tra Stato e Regione (art. 117) e contiene i principi relativi alla ripartizione delle funzioni amministrative (art. 118) ed alle risorse finanziarie (art. 119). Alla legislazione statale spetta la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Il D.PC.M. 29 novembre 2001, e successive modificazioni, organizza i LEA in tre grandi aree:

  • l'assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro: comprende tutte le attività di prevenzione rivolte alle collettività ed ai singoli (tutela dagli effetti dell'inquinamento, dai rischi infortunistici negli ambienti di lavoro, sanità veterinaria, tutela degli alimenti, profilassi delle malattie infettive, vaccinazioni e programmi di diagnosi precoce, medicina legale)
  • l'assistenza distrettuale: le attività e i servizi sanitari e sociosanitari diffusi capillarmente sul territorio, dalla medicina di base all'assistenza farmaceutica, dalla specialistica e diagnostica ambulatoriale alla fornitura di protesi ai disabili, dai servizi domiciliari agli anziani e ai malati gravi ai servizi territoriali (consultori familiari, SERT, servizi per la salute mentale, servizi di riabilitazione per i disabili, ecc.), alle strutture semiresidenziali e residenziali (residenze per gli anziani e i disabili, centri diurni, case famiglia e comunità terapeutiche)
  • l'assistenza ospedaliera: in pronto soccorso, in ricovero ordinario, in day hospital e day surgery, in strutture per la lungodegenza e la riabilitazione

Le prestazioni e i servizi inclusi nei LEA rappresentano il livello "essenziale" garantito a tutti i cittadini che le Regioni debbono assicurare; ciò non toglie che, utilizzando risorse proprie, le Regioni possano garantire servizi e prestazioni ulteriori rispetto a quelle previste nei LEA.

Con ogni evidenza, da quanto sopra discende che nel caso in cui si dovesse stabilire che i provvedimenti adottati nell'emergenza dal Ministero e/o dalla Regione abbiano inciso causalmente nell'adozione di tutele per il cittadino – sia esso operatore sanitario o utente – l'ente andrà ritenuto corresponsabile e quindi onerato del risarcimento del danno nei limiti della causalità giuridica. La responsabilità omissiva potrà altresì essere presa in considerazione anche nell'ipotesi in cui, con un giudizio ex ante, si dovesse ritenere la sussistenza di una negligente e/o imperita e/o imprudente strategia preventiva.

La giurisprudenza, nell'ambito del danno da contrazione del virus HIV ha avuto modo di inquadrare la responsabilità del Ministero della Salute in quella extracontrattuale (Cass. civ., 18 giugno 2019 n. 16217) con prescrizione quinquennale.

Segue. La responsabilità della ASL per l'opera del medico di base

Coinvolti nella vicenda Covid-19 sono certamente i medici di base, caduti numerosi sul campo.

Sul punto è utile un'importante pronuncia della Suprema Corte del marzo 2015, che per la prima volta ha riconosciuto la responsabilità dell'ASL per l'operato dei medici di base.

Cassazione civile, 27 marzo 2015, n.6243: « l'ASL è responsabile civilmente, ai sensi dell'

art. 1228 c.c.

, del fatto illecito che il medico, con essa convenzionato per l'assistenza medico-generica, abbia commesso in esecuzione della prestazione curativa, ove resa nei limiti in cui la stessa è assicurata e garantita dal S.S.N. in base ai livelli stabiliti secondo la legge».

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