Opzione put e divieto di patto leonino
05 Maggio 2020
Premessa
La prassi commerciale - specialmente quella sviluppatasi nell'ambito delle operazioni di private equity - fa un notevole ricorso ai cc.dd. finanziamenti in forma partecipativa, per tali intendendosi le operazioni mediante le quali una società di venture capital o una banca d'affari conferisce capitale di rischio in una società. In tali casi, l'apporto di nuovo capitale permette alla società finanziata, ad esempio, di quotarsi in un mercato regolamentato o realizzare operazioni industriali ad alto rischio. Tuttavia, non vertendosi nell'ambito dell'acquisizione di partecipazioni con finalità imprenditoriale, il soggetto finanziatore accetta di prendere parte al capitale sociale della società finanziata nell'ottica di uscirne una volta decorso il periodo necessario alla massimizzazione del proprio investimento. Tale way out viene frequentemente conseguita mediante la previsione - in via statutaria o parasociale - di un'opzione put che consenta al socio finanziatore di cedere le proprie partecipazioni al socio concedente detta opzione (c.d. socio imprenditore) o ad un soggetto terzo. Tale schema negoziale permette la precostituzione di un commodus discessus dall'investimento verso la corresponsione, in favore del socio finanziatore, di un prezzo che può essere: (i) “predefinito”, ovvero determinato a priori (i.e. al momento della previsione - in via statutaria o parasociale - dell'opzione put) in misura pari all'investimento effettuato dal socio finanziatore, maggiorato di interessi convenzionali, ma senza la previsione di meccanismi di adjustment relativi all'effettivo valore delle partecipazioni al momento dell'esercizio dell'opzione put; oppure
(ii) “a consuntivo”, ovvero determinato a posteriori (i.e. al momento dell'esercizio dell'opzione put) in misura pari all'investimento effettuato dal socio finanziatore, maggiorato di interessi convenzionali e di ogni ulteriore importo e spesa sostenuti dal socio finanziatore a favore della società finanziata per aumenti di capitale, finanziamenti a fondo perduto o altri conferimenti senza diritto di rimborso. Sia l'opzione put con prezzo “predefinito” che l'opzione put con prezzo determinato “a consuntivo” richiedono un vaglio di compatibilità delle stesse con il divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c., la cui ratio risiede nella necessità di garantire un'avveduta gestione societaria (sul tema, cfr. N. Abriani, Il divieto del patto leonino. Vicende storiche e prospettive applicative, Milano, 1994, 69; O. Cagnasso, La società semplice, in R. Sacco (diretto da), Trattato di diritto civile, Torino, 1998, 113; G. Cottino, voce “Società per azioni”, in Noviss. dig. it., Torino, 1970, 584; G. Minervini, Partecipazioni a scopo di finanziamento e patto leonino, in Contr. impr., 1988, 808; G. Penzo, Opzione di vendita a prezzo fisso e divieto di patto leonino: una convivenza possibile, in Soc., 2014, 150; R. Santagata, Il divieto del patto leonino, in F. Preite (diretto da), Trattato delle società di persone, Milano, 2015, I, 381; G. Sbisà, Circolazione delle azioni e patto leonino, in Contr. impr., 1987, 816). L'opzione put con prezzo “predefinito”, infatti, rischia di comportare l'indifferenza del socio finanziatore rispetto alle eventuali perdite subite dalla società finanziata (sub specie di eventuale decremento del valore delle partecipazioni sociali oggetto dell'opzione put); l'opzione put con prezzo determinato “a consuntivo”, invece, rischia di estendere tale indifferenza ad ogni ulteriore decisione di ricapitalizzazione e rifinanziamento della società finanziata. Sul tema si è formata una copiosa giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, che il presente contributo si propone di inquadrare sistematicamente, con particolare riguardo alle pronunce della Corte di Cassazione n. 8927/1994 e n. 17498/2018. La sentenza della Corte di Cassazione n. 8927/1994
La sentenza della Corte di Cassazione n. 8927/1994 (pubblicata in Giur. comm., 1995, II, 478, con nota di A. Ciaffi, Finanziaria regionale e patto leonino) ha aderito ad un orientamento giurisprudenziale formatosi nella metà degli anni Cinquanta del secolo scorso e consolidatosi successivamente (cfr. Cass., 3 marzo 1955, n. 626, in Foro pad., 1956, I, 462; Trib. Roma, 5 maggio 1960, in Temi rom., 1960, I, 520; Cass., 22 giugno 1963, n. 1686, in Dir. fall., 1963, II, 658; Cass., 25 marzo 1966, n. 787, in Dir. fall., 1966, II, 570; Trib. Milano, 22 ottobre 1990, in Soc., 1991, 221). I principi fondamentali espressi da tale orientamento (tutti ampiamente ripresi dalla pronuncia della Suprema Corte n. 8927/1994) possono essere così sintetizzati:
(i) il divieto di patto leonino è applicabile a qualunque tipo sociale (e non solo alle società di persone, come suggerirebbe la sedes materiae della disposizione di cui all'art. 2265 c.c.), in quanto “attinente alle condizioni del tipo contratto di società” (principio espresso anche da autorevole dottrina: cfr. V. Buonocore, Le società. Disposizioni generali, in F.D. Busnelli (diretto da), Il codice civile. Commentario, Milano, 2000, sub art. 2247, 106; G.F. Campobasso, Diritto commerciale. Diritto delle società, Torino, 2006, 217; G. Fré, Della società per azioni, in A. Scialoja - G. Branca (diretto da), Commentario del Codice Civile, Bologna - Roma, 1982, sub art. 2348, 185; R. Rordorf, Azioni e quote di società postergate nella partecipazione alle perdite, in Soc., 1995, 87); (ii) il divieto di patto leonino è violato ove ricorra l'esclusione “assoluta” e “costante” di uno o più soci da “ogni” partecipazione agli utili e/o alle perdite. Nelle argomentazioni della Suprema Corte, l'esclusione dagli utili e/o dalle perdite potrà dirsi “assoluta” qualora “riguardi l'intera partecipazione” detenuta dal socio finanziatore nella società finanziata, mentre essa sarà “costante” qualora “duri per tutta la partecipazione del socio titolare del diritto alla società” (sul tema, nella giurisprudenza di merito formatasi successivamente, cfr. Trib. Cagliari, 3 aprile 2008, in Riv. dir. comm., 2011, 1, 95, con nota di M. Paiardini, Sui presupposti di configurabilità del divieto di patto leonino; Trib. Milano, 3 ottobre 2013, in Soc., 2014, 6, 688; Trib. Firenze, 16 luglio 2015, in Soc., 2016, 3, 286 e Trib. Milano, 18 ottobre 2017, in Soc., 2018, 3, 291, con nota di G. Penzo, Opzione put e violazione del divieto di patto leonino: nuovi spunti sul requisito di assolutezza); (iii) il divieto di patto leonino non comprende le pattuizioni che regolano la partecipazione agli utili e alle perdite in misura non proporzionale alla partecipazione del singolo socio al capitale sociale; (iv) la violazione del divieto di patto leonino dev'essere valutata in senso sostanziale, e non formale, avendo riguardo all'effettiva lesione del principio a tutela del quale detto divieto è posto; (v) laddove il patto leonino sia inserito all'interno di un accordo parasociale, si apre la necessità di un'indagine di merito tesa a verificare la sussistenza di un'idonea causa meritevole di tutela ex art. 1322 c.c., che sia espressione di un interesse alla corretta gestione dell'impresa e possa escludere che il patto abbia finalità meramente elusiva del divieto di cui all'art. 2265 c.c.. La pressoché uniforme giurisprudenza di merito formatasi successivamente al 1994 ha aderito ai suddetti principi (cfr. Trib. Milano, 3 luglio 2012, in Riv. dir. soc., 2013, 72, con nota di A. Sorace, Opzioni “put” e divieto del patto leonino; Trib. Verona, 26 maggio 2014, in Banca borsa tit. cred., 2015, II, 733, con nota di F. Accettella, Profili di illegittimità dell'opzione di (ri)vendita delle azioni a prezzo garantito alla società emittente; App. Milano, 17 settembre 2014, in Soc., 2015, 555, con nota di E. Bonavera, Partecipazioni a scopo di finanziamento tra patto leonino e patto commissorio; Trib. Milano, 18 ottobre 2017, cit.; Trib. Bologna, 12 febbraio 2018, in www.giurisprudenzadelleimprese.it; non mancano tuttavia, decisioni di segno difforme, quali Trib. Cagliari, 19 giugno 2000, in Riv. giur. sarda, 2001, con nota di C. Cincotti, Sulla liceità del patto di smobilizzo della c.d. partecipazione a scopo di finanziamento; Trib. Milano, 13 settembre 2011, in Riv. dir. comm., 2012, II, 233, con nota di A. Tucci, Patto di riacquisto di azioni “a prezzo garantito” e patto leonino). La giurisprudenza di legittimità più recente, invece, ha avvertito l'esigenza di “precisare” la portata dei medesimi: stiamo facendo riferimento alla pronuncia della Corte di Cassazione n. 17498/2018, resa nel giudizio tra DeAgostini e Sopaf. Il caso DeAgostini - Sopaf: la fattispecie e le sentenze di merito
Nell'ottica di procedere alla quotazione in mercati regolamentati delle azioni della Banca Bipielle Net S.p.A. (poi Banca Network Investimenti S.p.A.: la “Banca”), il 1° agosto 2007 DeA Partecipazioni S.p.A. (già De Agostini Invest S.p.A.:“DEA”), Sopaf S.p.A. (“Sopaf”), Aviva Italia Holding S.p.A. (“Aviva”) e la Banca concludevano un contratto di compravendita di partecipazioni azionarie avente ad oggetto il 79,73% del capitale sociale della Banca(per effetto di tale contratto, il 79,73% del capitale sociale della Banca era così ripartito: 49,75% ad Aviva, tramite la propria controllata Petunia S.p.A.; 14,99% a DEA e 14,99% a Sopaf).Contestualmente alla stipula del predetto contratto, le sole DEA (portatrice di un interesse finanziario) e Sopaf (portatrice di un interesse industriale di medio/lungo periodo) stipulavano un patto parasociale in virtù del quale Sopaf concedeva a DEA un'opzione put avente ad oggetto l'intera partecipazione detenuta da DEA nel capitale sociale della Banca. Segnatamente, DEA avrebbe potuto esercitare tale opzione entro il 31 dicembre 2008 e liquidare il proprio investimento mediante la cessione, a semplice richiesta, della propria partecipazione nel capitale sociale della Banca a Sopaf o ad un'altra società da quest'ultima indicata, verso corresponsione (almeno) del prezzo di acquisto di tale partecipazione, oltre interessi convenzionali (Euribor a sei mesi più 200 basis points) e - dopo la modifica del patto parasociale intervenuta il 23 giugno 2008 - ogni eventuale ulteriore versamento a patrimonio netto effettuato da DEA in favore della Banca durante la propria permanenza nel libro soci (per riprendere la terminologia utilizzata supra, si trattava di un'opzione put con prezzo determinato “a consuntivo”). Manifestata più volte la volontà di esercitare l'opzione put e inutilmente decorsi i relativi termini senza che Sopaf avesse trovato un terzo interessato al trasferimento, né si fosse offerta di acquistare essa stessa la partecipazione oggetto dell'opzione put, DEA aveva chiesto al Tribunale di Milano di accertare l'inadempimento di Sopaf ai propri obblighi parasociali e condannare quest'ultima al pagamento del suddetto prezzo di liquidazione dell'investimento effettuato da DEA. In entrambi i gradi del giudizio di merito (cfr. Trib. Milano, 30 dicembre 2011, n. 15833, in Giur. comm., 2012, 3, 729, con nota di F. Delfini, Opzioni put con prezzo determinato “a consuntivo”, arbitraggio della parte e nullità; App. Milano, 19 febbraio 2016, n. 636, in Soc., 2016, 691, con nota di M. Perrino, Autonomia, liceità e meritevolezza dei patti parasociali di finanziamento partecipativo) è stata dichiarata la nullità dell'opzione put concessa da Sopaf a DEA: tale pattuizione, infatti, avrebbe determinato un'esclusione “assoluta” e “costante” di DEA dalla sopportazione delle eventuali perdite subite dalla Banca. In particolare, DEA avrebbe potuto votare in assemblea ogni aumento di capitale e versare qualsiasi importo senza rischiare di subire perdite, essendo comunque il proprio investimento nel capitale di rischio della Banca destinato ad essere rimborsato integralmente da parte di Sopaf o di un terzo. Nelle argomentazioni dei giudici di merito, tutto ciò sarebbe avvenuto, oltretutto,in assenza di un interesse meritevole di tutela atto a qualificare in termini di liceità l'opzione put in questione. Investita della questione, la Corte di Cassazione (con ordinanza n. 17498 del 4 luglio 2018, pubblicata in Soc., 2019, 1, 13, con nota di A. Busani, È valida l'opzione put utile ad attrarre capitale di rischio, nonché in questo portale, con nota di Caruso, Opzioni put a prezzo predefinito nelle pattuizioni parasociali: la Cassazione esclude il divieto di patto leonino) ha tentato di chiarire “se sia valido ed efficace l'accordo interno tra due soci, uno dei quali si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, anche comprensivo di somme versate nelle more alla società, il quale potrebbe, perciò, non rispecchiarne più il valore effettivo, nonché con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto, idonei a neutralizzare la perdita di valore del denaro medio tempore avvenuta od anche rappresentare un guadagno”. La Corte di Cassazione esordisce ricordando come la ratio del divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c. (divieto la cui natura “transtipica” viene ribadita dalla Suprema Corte) risieda nella necessità di preservare la causa societatis: perché si abbia violazione del divieto, quindi, l'esclusione del socio dalla partecipazione agli utili e/o dalla sopportazione delle perdite non deve essere semplicemente “assoluta” e “costante”, ma deve altresì alterare la causa societatis e riverberarsi sullo status del socio, il cui rapporto con la società, da “associativo”, diventa meramente “di scambio”. Secondo la Suprema Corte, l'opzione put in questione rimane estranea al contratto sociale, poiché essa consiste in un mero rapporto interno tra i soci che hanno stipulato il patto parasociale, privo di alcun riflesso nei confronti della società da essi partecipata: quest'ultima, essendo indifferente alla convenzione che reca l'opzione, continua ad imputare utili e perdite alle quote di partecipazione in cui è suddiviso il capitale sociale, secondo quanto previsto in via statutaria. Affermato che l'opzione put in questione - determinando un mero trasferimento del rischio da un socio ad un altro - non altera la causa societatis, la Corte di Cassazione passa quindi a valutare la rispondenza del patto parasociale ad interessi meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c., stante l'atipicità del patto medesimo. Tale giudizio di meritevolezza viene svolto dalla Suprema Corte distinguendo l'attività giuridica atipica in tre aree: (i) l'area del “proibito”, che comprende ciò che l'ordinamento vieta e che, quindi, non è meritevole di tutela per definizione; (ii) l'area dell'“a-giuridico”, che comprende ciò che per l'ordinamento è indifferente e, quindi,non coercibile e, in sostanza, non meritevole di tutela; (iii) l'area delle attività e delle situazioni delle quali l'ordinamento riconosce l'“utilità”, intesa in senso concreto, come “idoneità” del negozio posto in essere “ad espletare una funzione” che l'ordinamento riconosce degna di tutela giuridica. Sviluppando le considerazioni sub (iii), la Corte di Cassazione ritiene necessario individuare la “causa concreta” caratterizzante l'attività negoziale posta in essere dai contraenti, vale a dire l'interesse concretamente perseguito dalle parti nel caso di specie (sul tema, cfr. Cass., 8 maggio 2006, n. 10490, in Corr. giur., 2006, 12, 1718, con nota di F. Rolfi, La causa come “funzione economico sociale”: tramonto di un idolum tribus?; Cass., 7 maggio 2014, n. 9846, in Soc., 2015, 2, 162, con nota di C. Di Bitonto, È pienamente ammissibile un patto parasociale in funzione di risanamento aziendale a favore della società risananda (terza beneficiaria in senso proprio)). La Suprema Corte ravvisa la “causa concreta” del negozio in questione nel “finanziamento dell'impresa”: accanto alle molteplici forme di finanziamento dell'impresa prospettate dal legislatore e dalla prassi (quali, ad esempio, gli strumenti finanziari ex artt. 2346, comma 6 e 2447-ter, comma 1, lett. (e) c.c.), le parti contraenti possono infatti addivenire anche ad accordi “in cui la causa concreta è mista, in quanto associativa e di finanziamento, con la connessa funzione di garanzia assolta dalla titolarità azionaria e dalla facoltà di uscita dalla società senza la necessità di pervenire, a tal fine, alla liquidazione dell'ente”. Si tratta di forme atipiche di finanziamento, diverse dai tradizionali canali di ricorso al credito bancario, rispetto alle quali il legislatore - soprattutto dopo la riforma del diritto societario del 2003 - ha mostrato una prospettiva di favor, come nel caso degli strumenti finanziari partecipativi. Proprio gli strumenti finanziari partecipativi, secondo la Corte di Cassazione,testimoniano l'apertura del legislatore verso la scissione tra rischio d'impresa e potere sulla medesima. Il nesso potere-rischio - tradizionalmente riconosciuto come indissolubile - è stato messo in discussione da tutte quelle fattispecie in cui esistono soggetti non soci dotati di diritti amministrativi e capaci di interloquire sulla governance societaria e, per converso, soci che non partecipano al voto. È il caso, per l'appunto, degli strumenti finanziari partecipativi o del pegno di azioni: in quest'ultima fattispecie il creditore pignoratizio, pur non essendo socio, è titolare del diritto di voto e ha interesse a votare a favore della valorizzazione della partecipazione sociale che costituisce la garanzia del proprio diritto di credito. Allo stesso modo, nelle argomentazioni della Suprema Corte, il socio finanziatore ha interesse a favorire le buone sorti della società e, con esse, del proprio investimento: ciò sia perché egli ha investito nell'intento di realizzare una plusvalenza al momento dell'exit, e non soltanto di recuperare il valore del conferimento effettuato, sia perché il successo dell'impresa economica permetterà al socio imprenditore di restituire più agevolmente al socio finanziatore l'importo pattuito. La Corte di Cassazione prosegue affermando che l'opzione put in questione non può essere contestata nemmeno rilevando che il socio finanziatore beneficerebbe di un diritto di recesso non contemplato dalla legge: invero, secondo la Suprema Corte, “le cautele di cui il legislatore ha da sempre circondato questo diritto (…) mirano a proteggere il patrimonio sociale, non quello di un altro socio”, onde “si palesa inappropriato” il richiamo all'istituto del diritto di recesso quando si verte nell'ambito di un patto, come l'opzione put, che inerisce solamente ai rapporti interni tra i soci. Alla luce delle suddette argomentazioni, la Corte di Cassazione conferma la meritevolezza dell'interesse perseguito dal patto parasociale in questione. D'altronde, che l'ordinamento stesso riconosca la meritevolezza di tutela della figura del “socio temporaneo” è dimostrato, come esplicitato dalla Suprema Corte stessa, dalla fattispecie delle azioni riscattabili ex art. 2437-sexies c.c., con le quali parimenti si consegue l'effetto dell'uscita del socio dalla società(anche se, viceversa rispetto all'opzione put, con l'esercizio dell'opzione di riscatto è il socio riscattato a trovarsi in posizione di soggezione). Anche le azioni riscattabili hanno la caratteristica di essere utilizzabili “al fine del reperimento di finanza per la società, in modo che al “socio temporaneo” sia attribuita la possibilità di dismettere la partecipazione ad un tempo prestabilito”. E, se lo strumento delle azioni riscattabili può assolvere alla funzione di finanziare la società, l'opzione put può perseguire quella di finanziare il socio, ma sempre ai fini di incentivazione dell'impresa economica collettiva (sul tema, cfr. L. Calvosa, L'emissione di azioni riscattabili come tecnica di finanziamento, in Riv. dir. comm., 2006, I, 202). A valle del suddetto percorso argomentativo, la Corte di Cassazione ritiene che il negozio in questione non rechi insiti in sé i rischi che sono tradizionalmente ricondotti al divieto di patto leonino e persegua un interesse meritevole di tutela, vale a dire il finanziamento dell'impresa. La Suprema Corte enuncia quindi il seguente principio di diritto: “È lecito e meritevole di tutela l'accordo negoziale concluso tra i soci di società azionaria, con il quale l'uno, in occasione del finanziamento partecipativo così operato, si obblighi a manlevare l'altro dalle eventuali conseguenze negative del conferimento effettuato in società, mediante l'attribuzione del diritto di vendita (c.d. put) entro un termine dato ed il corrispondente obbligo di acquisto della partecipazione sociale a prezzo predeterminato, pari a quello dell'acquisto, pur con l'aggiunta di interessi sull'importo dovuto e del rimborso dei versamenti operati nelle more in favore della società”. Coeva all'ordinanza n. 17498/2018 è la pronuncia n. 10583/2018 (pubblicata in Giur. it., 2018, 12, 2683, con nota di A. Petruzzi, Opzioni put a prezzo predefinito e divieto del patto leonino, nonchè in questo portale, con nota di Marzo, Il divieto di rimborso dei conferimenti e delle riserve da sovrapprezzo secondo la Cassazione), a mezzo della quale la Corte di Cassazione ha espresso principi di segno difforme rispetto a quelli descritti supra. Nell'ambito di un negozio di ricognizione di debito rilasciato in favore di un socio da parte di una S.r.l. in condizioni di perdita “patologica” ex art. 2482-ter c.c., la società attribuiva al socio il diritto di recedere dalla compagine sociale ed ottenere la restituzione di quanto versato a titolo di conferimento in conto capitale e sovrapprezzo al tempo della sottoscrizione della partecipazione sociale. La Suprema Corte afferma che i versamenti in questione non generano crediti esigibili da parte del socio nei confronti della società. Segnatamente: (i) il conferimento fa parte del capitale di rischio della società e non costituisce un finanziamento rispetto al quale il socio può vantare un diritto di restituzione. Tale diritto non sorge neanche in caso di recesso del socio ex art. 2473 c.c.; (ii) il sovrapprezzo (la cui causa è assimilabile a quella del capitale di rischio e non a quella del mutuo, a differenza dei finanziamenti) non genera alcun corrispondente credito restitutorio del socio nei confronti della società conferitaria, la quale è sostanzialmente titolare di un'opzione call, salva la distribuzione della riserva ex art. 2431 c.c. a tutti i soci, in proporzione a quanto versato da ciascuno di essi (sul tema, cfr. l'orientamento H.L.1 del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, in Orientamenti del Comitato Triveneto dei Notai in materia di atti societari, Milano, 2017, secondo cui “i versamenti effettuati dai soci a favore della società senza alcun diritto di rimborso, denominati nella prassi “versamenti in conto capitale”, sono definitivamente acquisiti a patrimonio sociale fin dal momento della loro esecuzione ed integrano una riserva disponibile. Da tale momento cessa ogni rapporto/collegamento tra il socio versante e la somma versata. Le riserve costituite con detti versamenti possono essere liberamente utilizzate (…) per ripianare le perdite”). Il socio, pertanto, avrebbe potuto richiedere la restituzione dei versamenti in questione solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione. Nelle argomentazioni della Corte di Cassazione, un assetto negoziale come quello in esame - che attribuisce al socio un diritto di exit a condizioni preconcordate - elimina l'alea tipica d'impresa e, pertanto, si pone in aperto contrasto con il divieto di patto leonino, intaccando la ragione stessa del contratto di società ex art. 2247 c.c.. Considerazioni conclusive
L'ordinanza della Corte di Cassazione n. 17498/2018, nel tentativo di introdurre una sorta di “interpretazione evolutiva” del disposto di cui all'art. 2265 c.c. e di quanto affermato dalla precedente giurisprudenza pronunciatasi in tema di compatibilità tra l'opzione put e il divieto di patto leonino, ha cercato di “riconciliare teoria e prassi” (sul tema, cfr. E. Barcellona, Clausole di put & call a prezzo predefinito. Fra divieto di patto leonino e principio di corrispettività, Milano, 2004, 2, secondo cui la riconciliazione tra teoria e prassi è volta ad evitare di doversi “rassegnare a constatare la natura contra legem di una così diffusa prassi commerciale e, quindi, un indiscutibile scollamento fra “comune sentire” degli operatori economici e sistema normativo (scollamento cui, in una prospettiva de iure condendo, il futuro legislatore dovrebbe porre rimedio)”). Il principio in forza del quale è illecito il patto che determina l'esclusione “assoluta” e “costante” di un socio dalla partecipazione agli utili e/o dalla sopportazione delle perdite, infatti, non viene alterato, ma soltanto precisato nel senso che, ove detto patto conservi intatta la causa societatis e persegua un interesse meritevole di tutela, allora lo stesso deve essere qualificato in termini di liceità. Tuttavia, l'ordinanza della Corte di Cassazione n. 10583/2018, sanzionando con la nullità il negozio di ricognizione di debito attraverso cui la società intenda far conseguire al socio il diritto di recedere dalla società stessa e ottenere un importo pari a quanto versato a titolo di conferimento e di sovrapprezzo, in quanto negozio elusivo del divieto di patto leonino, sembra aver aderito alla precedente (e più rigorosa) interpretazione dell'art. 2265 c.c.. Stante il panorama giurisprudenziale così ricostruito, occorrerà attendere le successive pronunce di legittimità e di merito per capire se il “revirement” operato dalla Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 17498/2018 - pronuncia che ha espresso principi aderenti alla prassi commerciale sviluppata dagli operatori d'affari - potrà avere seguito o se, invece, la giurisprudenza manterrà un orientamento rigoristico nell'interpretazione dell'art. 2265 c.c.. |