Covid 19 e sicurezza delle cure: scenari prospettici per una responsabilità in cerca d'autore

Maurizio Hazan
Daniela Zorzit
06 Maggio 2020

La situazione di emergenza sembrava aver portato con sé un rinnovato e franco sentimento di fiducia, nei confronti dei medici, anzitutto, a cui abbiamo consegnato le chiavi delle nostre vite; ma aveva anche sollecitato una riflessione, forse un po' amara, sugli “eccessi” del passato, su quella tendenza al crucifige che aveva trasformato questi professionisti in ambite prede risarcitorie..
Tra responsabilità come rimedio e solidarietà come sostegno

«L'interdipendenza incarnata dal contagio diviene evidenza morale, appello a una solidarietà che i tempi normali annebbiano nella frammentazione dei rapporti, nelle difficoltà di comunicare le esperienze private. Quando usciremo di casa e dovremo rimboccarci le maniche per risollevarci dalle rovine, individuali e collettive, saremo capaci di comunità? Io credo e spero di sì».

Si chiude con questo auspicio l'intervista di D. Monti a Teresa Bartolomei, docente e ricercatrice presso la Facoltà di Teologia dell'Università di Lisbona, sulle pagine del Corriere della Sera - “Sette” del 3 Aprile 2020): e da qui vorremmo ripartire, per cercare di comprendere quali orizzonti potrebbero profilarsi in futuro (a breve o a lungo termine) sul versante della responsabilità sanitaria. La ragione per la quale è proprio da qui che muoviamo sta nel fatto che, in questi contesti emergenziali, il tema etico si fonde con quello strettamente giuridico e si rivela nella tensione tra l'idea di responsabilità, intesa come rimedio, e quella di solidarietà, intesa come sostegno. In contesti di crisi ed al cospetto di verosimili scenari di recessione sociale è certamente forte la tentazione di trovare nelle leve risarcitorie riequilibri economici che il sistema di welfare state potrebbe non essere in grado di assicurare. Ma non sempre, e non necessariamente, a fronte di situazioni difficili da governare e, ancor prima da intercettare e comprendere nel loro sviluppo causale, la ricerca a tout prix del responsabile su cui allocare i rischi ed i relativi costi è – davvero - la soluzione comunque preferibile.

La responsabilità, di per sé, evoca (giusnaturalisticamente) l'idea di una capacità di governo o comunque di elezione di determinate azioni, delle quali, appunto, si può esser chiamati a “rispondere”, con o senza colpa, a seconda del fatto che quelle condotte siano o meno intrinsecamente pericolose e siano rivolte, o no, a finalità prevalentemente egoistiche. Il limite di quella responsabilità si abbassa, e di molto, in tutti i casi in cui ci si trova in situazioni difficili a governarsi, in cui la reazione, pur approntata con lo sforzo più encomiabile, può non essere in grado di sopperire alla bisogna. Sino ad eliderla del tutto, quando ci si trova al cospetto di una forza maggiore che fuoriesce dalla sfera di controllo di chi, senza averla causata, ha provato a fronteggiarla.

La tentazione di appoggiarsi al concetto di forza maggiore, quando si parla della Pandemia del Covid 19, è, naturalmente, fortissima e suggestiva: il fatto stesso che il fenomeno, pur ampiamente prevedibile, abbia a cascata messo in ginocchio i sistemi sanitari di tutto il mondo, rendendo sostanzialmente inutili le esperienze man mano accumulatesi, rivela la forza deflagrante di un virus che ha posto crudamente in evidenza i limiti di quella presunzione di invulnerabilità che l'uomo del terzo millennio ha troppo spesso fatto propria.

Ma è una tentazione scorretta, giacché, pur di fronte all'enormità del caso ed alla dimensione catastrofale della vicenda, di responsabilità, nella catena delle azioni e reazioni indotte dal Covid, ve ne possono essere. Eccome. Ma per valutarle occorre calare ogni condotta entro il contesto emergenziale che ne ha costituito causa o pretesto. E verificare se, e in che misura, fosse possibile esigere un comportamento diverso, allo stato delle conoscenze, delle esperienze e delle risorse effettivamente disponibili al momento in cui quella condotta è stata tenuta.

Riteniamo al riguardo che, anche per quel che si dirà tra breve, gli attuali scenari pandemici abbiano scompaginato ogni riferimento, privandoci di qualsiasi coordinata certa e ponendo gli operatori sanitari di fronte alla sostanziale mancanza di linee guida specifiche, siano esse organizzative o cliniche (ai sensi, rispettivamente, degli artt. 3 e 5 della legge 24/2017). Il che potrebbe indurre a privilegiare, piuttosto che una ossessiva ricerca del responsabile o, meglio, del colpevole, sistemi di sostegno sociale a matrice più solidaristica, tesi a far leva sullo sforzo di tutti piuttosto che dar vita ad una serie di conflittualità individuali che, nella maggior parte dei casi, paiono dai confini labili e dagli esiti tutt'altro che certi. Il tutto senza virare verso una deresponsabilizzazione assoluta, ed anzi lasciando alla responsabilità civile il ruolo che le compete in tutti i casi in cui una negligenza sia davvero conclamata, pur a fronte della particolarità della situazione emergenziale in cui si colloca.

In questo senso sulle pagine di questa Rivista avevamo tratteggiato, poche settimane fa, le nostre prime “impressioni”, soffermandoci su quella che potrebbe essere definita “solidarietà ai tempi del Covid”: un senso di appartenenza ad una comunità, una compartecipazione e coesione di fronte al nemico comune, un impegno al rispetto reciproco, ricco di straordinarie potenzialità, risvolti e sfumature. Solidarietà che alimenta un motore etico che non divide, ma unisce, responsabilmente.

La responsabilità degli operatori e delle strutture: contrapposizioni insidiose e qualche pregiudizio

E dunque la situazione di emergenza sembrava aver portato con sé un rinnovato e franco sentimento di fiducia, nei confronti dei medici, anzitutto, a cui abbiamo consegnato le chiavi delle nostre vite; ma aveva anche sollecitato una riflessione, forse un po' amara, sugli “eccessi” del passato, su quella tendenza al crucifige che aveva trasformato questi professionisti in ambite prede risarcitorie. Da “vittime del contatto sociale” ad eroi, dunque; questa apparente contraddizione, che in parte è frutto della mutevolezza dell'animo umano, facile a ripensamenti specie se posto di fronte all'urgenza del bisogno, diviene oggi strumento ed occasione di (ri)meditazione, perché impone di prendere atto della estrema delicatezza degli assetti su cui si regge il “sistema sanità”, e di rivedere gli schemi.

Come si è già detto, la drammaticità degli attuali scenari ci ricorda, con una gravità che non avremmo voluto conoscere, che la chimerica prospettiva di un sicuro dominio delle situazioni, e la correlata aspettativa di guarigione, non sono un dogma né un diritto acquisito. E ci invita anche a considerare che, in un contesto caratterizzato (specie negli ultimi anni) da una certa contrazione delle disponibilità finanziarie, accordare una tutela “incondizionata” alle istanze dei pazienti (offrendo ampie e facili vie per soddisfare ogni richiesta di danno, con la sistematica inversione degli oneri probatori, l'obbligazione di risultato, l'evaporazione del nesso di causa) significa anche innescare pericolosi corto-circuiti: ogni risorsa sottratta al sistema – per il tramite di risarcimenti quasi “automatici” – rischia di tradursi, alla fine, nella riduzione dei servizi erogati, e quindi in un vulnus per tutti coloro che chiedono di essere assistiti e curati. Vulnus che potrebbe essere molto più serio e grave (come le contingenze attuali inducono a pensare) di quello derivante dal rigetto di domande di dubbio fondamento.

L'emergenza “Covid” ci ha costretto dunque ad acquisire la consapevolezza della imprescindibile necessità di ristabilire un equilibrio e di recuperare il senso autentico ed etico dell'attività svolta dai medici e dagli operatori della sanità in genere, che devono potersi liberamente spingere nei territori meno esplorati (quali quello di un virus ancora oggi non ben conosciuto) per prendersi carico delle situazioni più difficili, mettendosi in gioco senza il timore di “ingiustificate rappresaglie” (come recitava la Relazione del Guardasigilli al codice civile, in merito all'art. 2236 c.c.). E con la possibilità di trasformare endemici rischi di errore in preziose esperienze per la realizzazione di quel sistema di sicurezza delle cure a cui la legge 24/2017 anela.

E proprio sull'onda di queste riflessioni, avevamo richiamato l'attenzione sui principi posti dalla Legge Gelli, che disegna un sistema prospettico, incentrato sulla prevenzione e ben lontano dalla logica della “punizione” o della minaccia di condanna, e sui più recenti arresti della Cassazione (S. Martino 2019), che sembrano aver recepito questo “nuovo corso”, all'insegna della (ri)affermata natura “di mezzi” dell'obbligazione di cura.

Ciò che resta da chiedersi, richiamando la citazione posta in esergo, è se, una volta terminata l'emergenza, saremo davvero "capaci di comunità", se cioè quel senso di coesione, quella volontà comune di rinascita "per risollevarci dalle rovine, individuali e collettive", quella rinnovata alleanza terapeutica, quella fiducia inizialmente riposta nell'operato dei sanitari e delle strutture non abbiano ad offuscarsi, o peggio, a sgretolarsi e cedere sotto la pressione di quell' impulso, istintivo ed insidioso, che spinge a cercare a tutti i costi un colpevole, a cui addossare il peso ed il costo delle attuali disgrazie.

La possibile ripresa di sviluppi accusatori e la massiccia assunzione di iniziative giudiziali finalizzate ad un risarcimento rischierebbero di apparire come un rimedio peggiore del male, inopportuno e, forse, odioso e disdicevole se guardato dal punto di vista di chi, avendo speso tutte le proprie energie (fisiche, intellettuali e soprattutto umane) per salvare la vita altrui, si veda poi chiamato a giustificare il proprio operato (e a difendere il proprio patrimonio personale) innanzi ad una corte, tanto più ove si sia trovato a gestire situazioni di straordinaria emergenza senza disporre dei mezzi e delle risorse necessari. Ponendoci in questa prospettiva, senz'altro da scongiurare, abbiamo peraltro osservato come l'art. 2236 c.c. ben si presti a tornare a nuova vita, per divenire (si direbbe mai come ora) un primo ed importante barrage contro possibili “attacchi” (specie se animati da finalità speculative).

Ma, forse, non sarà questo lo scenario più probabile: un simile sistematico “j'accuse” rivolto contro medici ed infermieri striderebbe troppo con le entusiastiche e, in fondo - crediamo - davvero sincere acclamazioni dell'opinione pubblica, che li ha improvvisamente ricondotti tra le schiere degli “eroi” del millennio.

Se l'afflato dell'ammirazione potrà forse allontanare lo spettro di azioni contro i singoli operatori, c'è da chiedersi se sarà così anche nei confronti delle strutture: qui, la “spersonalizzazione” del rapporto potrebbe, per converso, giocare contro, divenire cioè un comodo passe - partout, una sorta di “switch” per “dirottare” sull'ente le istanze che non si vogliono indirizzare contro i sanitari.

E una simile virata potrebbe trovare tutto il suo senso nella enfatizzazione di quegli obblighi organizzativi (di approntamento delle risorse umane e materiali, di strumenti, dotazioni, presidi ecc.) funzionali ed indispensabili per la corretta erogazione delle prestazioni di cura. Terreno, questo, su cui il Covid ha inciso in modo pesantissimo, rivelando non poche “tensioni”, sia pur dilatate ed estremizzate dalla gravità e complessità dell'urgenza.

È su questo crinale - quello dello scarico dei rischi e dei costi sulle strutture e sulle amministrazioni pubbliche - che quella bella idea di solidarietà si è un poco rotta, dando vita a schieramenti e rivendicazioni di parte e ad un esercizio di ribaltamento a ritroso delle responsabilità degli eventi avversi accaduti in tempo di Covid.

La situazione si è poi, peraltro, di molto complicata a fronte del fatto che gli esercenti la professione sanitaria abbiano assunto, durante questa drammatica vicenda, un duplice ruolo, quasi antinomico: da un lato quello di frequenti vittime del virus, in quanto esposti in prima linea alla sua violenza. Dall'altro quello di divulgatori inconsapevoli di un contagio verso i pazienti; contagio che proprio all'interno delle dense aggregazioni nosocomiali (o peggio delle RSA) ha trovato una massima capacità espansiva.

Ecco dunque che gli stessi medici (od infermieri od altri operatori) si sono trovati in non pochi casi dalla parte delle vittime ed hanno spesso lamentato, in tale loro veste, il fatto di esser stati esposti a rischi non adeguatamente gestiti, in mancanza di congrui dispositivi di protezione o processi di sicurezza.

Anziché coagularsi e rinforzarsi reciprocamente, il mondo degli esercenti la professione sanitaria e quello delle strutture (e più in generale quello delle amministrazioni pubbliche) comincia a dar segni di netta contrapposizione, in un gioco di rincorsa alle responsabilità originarie di una crisi che, secondo alcuni, avrebbe potuto e dovuto esser gestita diversamente, a livello di scelte organizzative e preventive.

Tra le pieghe di questa contrapposizione il sistema sanitario presta il fianco alle possibili iniziative litigiose di chi cerca conforto nel risarcimento, aprendo la via ad azioni di responsabilità professionali, strutturali e “politiche”.

Vi è il fatto poi che già la legge Gelli, pur nel solco di approcci non oggettivi ma colposi, ha attribuito alle strutture responsabilità più pressanti (contrattuali e correlate al potere di governo del proprio rischio) rispetto a quelle riservate agli esercenti che operano per loro conto (assoggettati ad una responsabilità extracontrattuale proprio perché sostanzialmente eterodiretti). Il che tende, e tenderà sempre di più in futuro, a far deviare i potenziali contenziosi proprio sulle strutture, le quali (con i loro assicuratori, laddove assicurate) potranno essere considerate come titolari di un rischio di impresa e, in quanto tali, pagatori di ultima istanza della maggior parte delle morti e dei danni da Covid.

Sarà davvero così?

Le strutture (che pure si sono trovate, come tutti, ad affrontare l'emergenza con armi non troppo affilate, per non dire spuntate) saranno davvero i terminali risarcitori su cui scaricare i costi dei danni e le relative responsabilità?

La responsabilità delle strutture in tempo di COVID: cenni

Ci si potrebbe allora chiedere (ed il punto è già stato toccato nel corso di un bel convegno recentemente organizzato da Responsabilità Sanitaria) se lo “schermo” offerto dall'art. 2236 c.c. valga o meno anche per gli ospedali, le case di cura e le RSA, ove chiamati a rispondere in prima battuta dei fatti occorsi in danno dei pazienti o dei loro congiunti.

Certo, una attenta disamina, che ripercorra anche in chiave storica l'evoluzione della med-mal, porterà a dire che la giurisprudenza aveva inizialmente concepito la prestazione della struttura come quella di un “macroiatra”, e l'aveva modellata sul paradigma degli artt. 2230 cc. e ss. affermando che «la responsabilità diretta dell'ente e quella del medico, inserito organicamente nella organizzazione del servizio, sono disciplinate in via analogica dalle norme che regolano la responsabilità in tema di prestazione professionale in esecuzione di un contratto d'opera professionale» (Cass. civ. sez. III, n. 2144/1988, tra le tante; e prima ancora Cass. civ. n. 6141/1978).

Tale ricostruzione è stata tuttavia rivista nel corso degli anni, e si è posta in luce, nella cornice del “contratto atipico di spedalità”, anche l'esistenza di autonomi obblighi organizzativi, che gravano direttamente sul nosocomio. E proprio con riferimento a tale fascio di attività lato sensu gestionali, la dottrina più attenta (G. Corso, Disfunzioni organizzative e responsabilità delle strutture sanitarie in La responsabilità professionale in ambito sanitario, Bologna, 2010, 221) ha a suo tempo negato la possibilità di invocare l'art. 2236 c.c., osservando che «il complesso delle prestazioni cui la struttura è tenuta non può implicare la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: non viene in rilievo, cioè, il profilo dell'imperizia (che è predicabile solo delle prestazioni del professionista».

Il discorso meriterebbe di essere approfondito, ma riteniamo che l'argomento non sia poi così risolutivo per i fini di cui si discorre: crediamo infatti che, ove pure confermata, la riferita inapplicabilità del disposto dell'art. 2236 c.c. alle strutture (con riguardo alla responsabilità “diretta” delle stesse, non mediata cioè dall'errore del sanitario ex art. 1228 c.c.), non rappresenti il “cavallo di Troia” che può aprire la via ad una generalizzata offensiva.

Ci pare invero che la questione debba esser vista sotto un'altra luce e meriti di essere vagliata nel quadro disegnato dalla Legge Gelli, che costituisce il punto di partenza imprescindibile per ogni ragionamento. Si obietterà che il disegno tracciato da quella legge è ancora incompleto (non essendo stati emanati i tanto attesi “Decreti attuativi”, che dovrebbero regolare in particolare l'assetto delle coperture assicurative); ma l'impianto e la direzione impressa sono chiari e consentono, a nostro modo di vedere, alcuni primi “ancoraggi”.

Il primo dei quali sta ed insiste sull'art. 1, a cui si è spesso dato il valore di pura declinazione programmatica e di principio, e che invece è pregno di significati sostanziali che dimostrano, oggi più che mai, tutto il proprio pregio.

L'ambito delle possibili responsabilità delle strutture al tempo del COvid passa infatti necessariamente attraverso le maglie di quell'articolo 1 che dà corpo e sostanza alla Legge 24/2017, costituendone principio fondante e fuoco prospettico: la sicurezza delle cure , come parte costitutiva del diritto alla salute, <<si realizza>> recita la norma (il grassetto è nostro) «anche mediante l'insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all'erogazione di prestazioni sanitarie e l'utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative».

E già nell'art. 1 comma 538 della Legge 208/2015 (sulla quale la stessa L. 24 è intervenuta) si trova scritto che «la realizzazione della attività di prevenzione e gestione del rischio sanitario rappresenta un interesse primario del Sistema sanitario nazionale perché consente maggiore appropriatezza nell'utilizzo delle risorse disponibili e garantisce la tutela del paziente».

Ed è proprio il concetto di “risorse disponibili” che si pone prepotentemente sullo sfondo delle drammatiche cronache di questi ultimi mesi: la mancanza di dotazioni di sicurezza (camici, mascherine), di un numero sufficiente di posti letto attrezzati (terapie intensive), di strumentazione (respiratori), di personale, di presidi adeguati ecc. ha sin dall'inizio occupato le pagine dei quotidiani o le cronache dei telegiornali, confinando le nostre speranze ed aspettative entro le spire di una angosciosa oppressione.

Per far fronte a quella emergenza, che si è avventata come una tigre sui delicati equilibri di un sistema peraltro noto per le sue avanguardie e non certo per le sue inefficienze (ci riferiamo in particolare a quello milanese), sono stati riorganizzati reparti, creati spazi/percorsi di accoglienza, riallestiti edifici, dislocati pazienti, “convertiti” interi ospedali, richiamati in servizio medici ed infermieri, in uno sforzo collettivo ed umano senza pari. Il tutto nella straordinaria difficoltà imposta dal tempo che si contraeva inesorabile intorno alle vite di chi chiedeva aiuto. E nella oggettiva impossibilità, con le risorse, appunto, disponibili, di far fronte ai bisogni di tutti.

Ebbene, come si cala tutto questo entro le coordinate fissate dalla Legge Gelli? Vi è infatti da chiedersi se esista e possa davvero profilarsi uno spazio di sicuro “attacco” alle strutture sanitarie. Certamente è troppo presto per tentare anche solo di formulare ipotesi, ma la prima impressione ci indirizza più verso la risposta negativa.

L'art. 7 della L. 24/2017, nella sua testuale formulazione e nel rinvio espresso all'art. 1228 c.c. ha ancorato la responsabilità (dell'ente e dei singoli operatori) alla colpa; e lo ha fatto in termini di inderogabilità (si veda l'ultimo comma). La Legge Gelli ha delineato un assetto che è declinato e ruota intorno alla predisposizione di “parametri di riferimento” che orientano e guidano l'azione, non solo con riguardo agli esercenti (art. 5), ma anche in relazione agli obblighi “gestionali” propri che fanno capo all'ente di cura, chiamato ad applicare le “buone pratiche” per la sicurezza ai fini della prevenzione e gestione del rischio (art. 3).

Il che conferma che la valutazione della responsabilità passa necessariamente attraverso il rispetto di regole di condotta, la cui applicazione mira a scongiurare e contenere il più possibile gli eventi avversi in sanità. È chiaro che un modello “sans faute” (in cui la prova del rispetto di misure di comportamento eterodefinite e validate risulta priva di qualunque rilievo, essendo il soggetto obbligato al risarcimento per il solo fatto che il danno si è verificato nel ed è riconducibile al proprio ambito organizzativo) non sarebbe coerente con l'impianto della Legge Gelli, e finirebbe col frustrarne la ratio perché non sarebbe per nulla incentivante (mentre il fine cui essa tende è proprio quello di promuovere comportamenti il più possibile virtuosi).

Se tutto questo è vero, resta allora aperto l'interrogativo sulla effettiva possibilità di imbastire con successo azioni di danno contro le strutture. E il dubbio si pone con una certa evidenza se si considera che nella emergenza Covid non esistono “modelli cristallizzati di condotta” cui riferirsi. Nella incessante attività di riorganizzazione ogni ente si è trovato di fronte alla necessità di rivedere quotidianamente i propri schemi, di seguire protocolli e linee di azione “cangianti”, che cambiavano di volta in volta alla luce delle informazioni e dei riscontri sperimentali che l'esperienza sul campo, di giorno in giorno, consentiva di acquisire.

La mancanza di parametri certi ed univoci non permette quindi, già solo in termini astratti, di configurare una “colpa”, intesa appunto come distanza rimproverabile da un paradigma di condotta predefinito; e se a ciò si aggiunge la oggettiva mancanza delle risorse (personali e materiali) che la straordinarietà delle contingenze ha drammaticamente reso evidente, pare proprio che non sia questa la direzione da seguire: almeno in termini generali, tenuto conto dell'esigenza di verificare se, in concreto ed in relazione a ciascun singolo caso, possano comunque essersi tenute condotte errate, anche in relazione ai presidi minimi di sicurezza che lo stato delle esperienze e delle conoscenze acquisite avrebbero imposto.

Questo è il tema di fondo, giacchè ad impossibilia nemo tenetur: come detto in apertura, per valutare eventuali responsabilità, anche strutturali, occorre calare ogni condotta entro il contesto emergenziale che ne ha costituito causa, verificando se, e in che misura, fosse possibile esigere un comportamento diverso, allo stato delle conoscenze, delle esperienze e delle risorse effettivamente disponibili al momento dell'azione od omissione. E valutando se ciò che avrebbe potuto esser previsto era anche “impedibile” in concreto, poiché non sempre quel che si può prevedere si può anche e comunque prevenire. La legge Gelli ha posto degli ancoraggi (le linee guida, le buone pratiche e le raccomandazioni, anche in tema di sicurezza delle cure e prevenzione del rischio) che dovrebbero integrare la misura della condotta diligente (e dunque del corretto adempimento): ma il Covid non ha ancora rivelato tutto di sé, sfuggendo a qualsiasi calzante regola protocollare e dando luogo ad una serie di reazioni empiriche che solo il tempo potrà consolidare e trasformare in buone pratiche o regole operative.

L'andamento zigzagante della normativa, primaria e secondaria, dimostra, con l'evidenza della sua mutevolezza, la difficoltà di trovare un baricentro stabile.

Salvo, ovviamente, voler ipotizzare responsabilità “più alte” (che potrebbero coinvolgere i livelli regionali o addirittura statali); ma probabilmente è troppo presto per parlarne. E forse non è nemmeno il caso di farlo, per ora. Perché la necessità di risollevarci dalle rovine individuali e collettive ci impone - prima - di investire le nostre energie nel fronteggiare il pericolo che ancora ci assedia. E poi di pensare in ottica forse più solidale e meno litigiosa. O - almeno – meno litigiosa rispetto al passato.

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