Ammissibilità e rilevanza delle prove

06 Maggio 2020

Ammissibilità e rilevanza fungono da limite al diritto alla prova, spettante alla parte ex artt. 24 Cost. e 6.1 CEDU. La verifica che il giudice deve svolgere in ordine ad ammissibilità e rilevanza delle prove si atteggia però in modo temporalmente diverso a seconda che trattasi di prove precostituite e prove costituende.
Il quadro normativo

Ammissibilità e rilevanza fungono da limite al diritto alla prova, spettante alla parte ex artt. 24 Cost. e 6.1 CEDU.

La verifica che il giudice deve svolgere in ordine ad ammissibilità e rilevanza delle prove si atteggia però in modo temporalmente diverso a seconda che trattasi di prove precostituite e prove costituende.

In particolare, con riferimento alle prove precostituite, il cui tipico esempio è rappresentato dalle produzioni documentali, non esiste un preventivo giudizio di ammissione da parte del giudice, atteso che i documenti trovano ingresso con la produzione ex artt. 74 o 87 disp. att. c.p.c., e quindi, ferma restando l'impossibilità di espunzione e di divieto di produzione, la valutazione da parte del giudice è successiva e riguarda la utilizzabilità o meno dei documenti in ragione della loro ammissibilità e rilevanza.

Con riferimento invece alle prove costituende, e cioè a formazione endoprocessuale all'esito di un procedimento complesso che si sviluppa attraverso le fasi della deduzione, dell'ammissione e dell'espletamento, il giudizio di ammissibilità e rilevanza da parte del giudice è preventivo rispetto al loro ingresso nel processo.

Prove costituende sono l'interrogatorio, il giuramento, l'ispezione giudiziale, il rendimento dei conti e la CTU nei limiti in cui si tratta di CTU percipiente, quindi vera e propria prova, non già mero mezzo di valutazione delle prove come la CTU deducente; e soprattutto, archetipo e tipico esempio di prova precostituita è la testimonianza.

In cosa consiste il giudizio di ammissibilità della prova?

Il giudizio di ammissibilità da parte del giudice ha natura strettamente giuridica e riguarda la cosiddetta legalità della prova, integrando una valutazione diretta a verificare, caso per caso, se ricorrano ragioni di non ammissione del mezzo di prova proposto rispetto allo schema legale.

Tale giudizio riguarda quindi la sussistenza delle condizioni, con riferimento a modalità e limiti di deduzione, alle quali l'ordinamento subordina l'esperimento di un determinato mezzo di prova, e si tratta di un giudizio ricondotto a regole negative, ossia a quelle regole che negano efficacia ad un mezzo di prova.

In particolare, la conformità della prova al modello normativo va scrutinata sia sotto il profilo processuale, valutando se essa sia stata tempestivamente dedotta prima dello spirare dei termini istruttori ex art. 183, comma 6, c.p.c.; sia sotto il profilo sostanziale, valutando se essa sia stata dedotta nel rispetto delle norme codicistiche previste per la validità del mezzo istruttorio (cfr. artt. 2721-2726 c.c. con riferimento alla prova testimoniale, art. 1417 c.c. con riferimento alla prova della simulazione, artt. 244 e 230 c.p.c. con riferimento alle modalità di deduzione dei capitoli di prova, art. 246 c.p.c. con riferimento alla capacità a testimoniare, art. 2731 c.c. con riferimento alla confessione, artt. 2737 e 2739 c.c. con riferimento al giuramento, art. 118 c.p.c. con riferimento all'ispezione, art. 210 c.p.c. con riferimento all'esibizione di documenti).

Per quanto concerne poi il tema dell'inammissibilità del capo di prova testimoniale contenente valutazioni, l'assunto deve essere valutato con particolare prudenza nel caso di testimonianza tecnica, relativamente alla quale, ha spiegato la Suprema Corte che «il principio secondo cui la prova testimoniale deve avere ad oggetto non apprezzamenti o giudizi, ma fatti obiettivi, deve essere inteso nel senso che il testimone non deve dare un'interpretazione del tutto soggettiva o indiretta delle circostanze di fatto ed esprimere apprezzamenti tecnici o giuridici su di esso, ma ciò non comporta, peraltro, che egli non possa riferire anche il convincimento sul fatto e le sue modalità derivatogli dalla sua stessa percezione ed esprimere gli apprezzamenti che non sia possibile scindere dalla deposizione dei fatti»(così, testualmente, Cass. civ., Sez. Lav.,2 gennaio 2001 n. 5; di medesimo contenuto anche le più recenti Cass. civ., Sez. Lav., 8 marzo 2010, n. 5548 e Cass. civ., Sez. II, 24 ottobre 2014, n. 22720). Di più: «laddove si tratti di apprezzamenti di assoluta immediatezza, praticamente inscindibili dalla percezione dello stesso fatto storico, essi possono concorrere al convincimento del giudice»(Cass. civ., Sez. III, 22 aprile 2009, n. 9526, relativamente allo stato scivoloso di un pavimento), soprattutto allorquando gli apprezzamenti riguardano situazioni «difficilmente riproducibili e verificabili sul piano sperimentale» (Cass. civ., Sez. II, 31 gennaio 2006, n. 2166, in tema di immissioni).

In evidenza

Il principio secondo cui la prova testimoniale deve avere ad oggetto non apprezzamenti o giudizi, ma fatti obiettivi, non comporta che il testimone non possa riferire anche il convincimento sul fatto e le sue modalità derivatogli dalla sua stessa percezione ed esprimere gli apprezzamenti che non sia possibile scindere dalla deposizione dei fatti.

In cosa consiste il giudizio di rilevanza della prova?

Il giudizio di rilevanza ha invece natura logico-ipotetica ed è volto a verificare a priori se il mezzo di prova, alla luce del brocardo latino frustra probatur quod probatur non relevat, sia potenzialmente utile per l'accertamento dei fatti controversi, cioè se sia tecnicamente idoneo a dimostrare l'esistenza o l'inesistenza dei fatti allegati in causa.

In tutta evidenza, non si può mai definire irrilevante una prova che mira a contrastare l'esito di altre prove e comunque fornire una diversa versione dei fatti che debbono essere provati: una prova diventa superflua solo quando ciò che essa intende dimostrare è già altrimenti dimostrato.

Si è quindi osservato, per fissare la distinzione tra ammissibilità e rilevanza, che il giudizio di ammissibilità della prova riguarda un profilo esterno di rispondenza allo schema legale, mentre il giudizio di rilevanza riguarda un profilo interno di conducenza della prova ai fini della decisione, ed è escluso quindi con riferimento a fatti pacifici, già provati o non utili ai fini della decisione. Pertanto, l'ammissibilità attiene al rispetto delle norme che stabiliscono modalità e limiti di deduzione del singolo mezzo di prova, mentre il giudizio di rilevanza va svolto verificando la sussistenza del nesso tra i fatti da provare ed il riconoscimento della fondatezza della domanda o dell'eccezione.

Ciò posto, muovendo dal presupposto che anche la mancanza di uno solo tra i due requisiti di ammissibilità e rilevanza impedisce l'ammissione della prova, la Cassazione ha chiarito che non vi è gerarchia tra i due giudizi, nel senso che il giudice può indifferentemente procedere prima alla valutazione dell'ammissibilità e poi della rilevanza, ovvero prima alla valutazione della rilevanza e poi dell'ammissibilità (cfr. Cass. civ., Sez. I., 15 giugno2000, n. 8164).

Fondamentale è poi chiarire che la rilevanza va valutata con riferimento all'astratta idoneità del mezzo a provare una circostanza utile ai fini della decisione, senza alcuna preventiva prognosi circa l'esito dell'assunzione o la verosimiglianza delle circostanze dedotte (cfr. Cass. civ., Sez. III, 21 dicembre 1999, n. 14386).

Pertanto, relativamente alla richiesta di interpello, è pacifico come la stessa non possa essere disattesa per il solo fatto che la parte interroganda abbia, in atti processuali pregressi, smentito quanto dedotto in sede di interrogatorio; pur se è invece inammissibile allorché sia da escludere la possibilità che l'interpellato possa avere diretta conoscenza delle circostanze per le quali è interrogato, ovvero quando la richiesta di interpello appaia dilatoria e defatigatoria in quanto in contrasto con altre risultanze già acquisite o con il comportamento processuale delle parti (cfr. Cass. civ., Sez. II, 28 maggio 2006, n. 3188).

Sono rilevabili d'ufficio le preclusioni istruttorie?

La questione di maggiore spessore pratico in tema di ammissione istruttoria è quella relativa al fatto se le preclusioni siano rilevabili unicamente ad istanza di parte, ovvero anche d'ufficio.

In tutta evidenza, solo nel primo caso esse potrebbero essere superate in virtù di un atto di disposizione (tacito nel senso della mancata formulazione dell'eccezione, od esplicito nel senso della manifestata rinuncia ad eccepire), della parte a cui favore le preclusioni stesse sono maturate.

Dal punto di vista strettamente teorico di dottrina generale, la questione si risolve tramite lo stabilire unicamente se le preclusioni siano previste nel solo interesse delle parti, con la necessitata conseguenza che in tal caso la rilevabilità non potrebbe che essere a sola istanza di parte; ovvero siano previste anche nell'interesse pubblico, con l'altrettanto necessitata conseguenza che diverrebbero rilevabili anche d'ufficio.

Ciò posto, deve essere prescelta la tesi della rilevabilità d'ufficio, e questo per almeno una duplicità di ragioni.

Infatti, sotto un profilo giuridico, non dubitandosi della natura perentoria del termine posto a presidio delle preclusioni istruttorie, risulta incongruo ipotizzare la derogabilità, sull'accordo delle parti, di un termine avente appunto natura perentoria, in violazione dell'articolo 153, comma 1, c.p.c. Da altra angolazione e comunque, non è revocabile in dubbio il fatto che il rito processualcivilistico sia stato negli anni modificato al dichiarato ed evidente scopo di rendere più celere, ordinato, razionale e spedito, l'iter processuale: se così è, pare evidente che l'effettività delle preclusioni non possa essere rimessa alla volontà delle parti, a pena di ritenere che una generale scelta dell'ordinamento processuale possa essere vanificata nel caso concreto dalla volontà di un singolo soggetto processuale.

Le sopra esposte conclusioni circa la rilevabilità d'ufficio delle preclusioni istruttorie sono state accolte anche dalla Suprema Corte. La Cassazione ha infatti affermato che il regime di preclusioni introdotto nel rito civile ordinario deve ritenersi inteso non solo nell'interesse di parte, ma anche nell'interesse pubblico all'ordinato e celere andamento del processo, con la conseguenza che la tardività delle domande, eccezioni, allegazioni e richieste, deve essere rilevata d'ufficio dal giudice indipendentemente dall'atteggiamento processuale della controparte al riguardo e dall'eventuale accettazione del contraddittorio (principio sancito per la prima volta da Cass. civ., Sez. I, 7 aprile 2000, n. 4376 e mai contraddetto; tra le più recenti, cfr. Cass. civ., Sez. III, 26 giugno 2018, n. 16800).

In evidenza

Le norme che prevedono preclusioni assertive ed istruttorie nel processo civile sono preordinate a tutelare interessi generali e la loro violazione è sempre rilevabile d'ufficio, anche in presenza di acquiescenza della parte legittimata a dolersene.

Quali sono le preclusioni nel caso di intervento del terzo?

L'articolo 268, comma 1, c.p.c., legittima l'intervento in causa sino al momento della precisazione delle conclusioni, pur se, ai sensi del secondo comma, «il terzo non può più compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte»,eccetto il caso del litisconsorzio necessario.

Pertanto, fermo restando che in caso di litisconsorzio necessario il processo deve regredire alla sua fase iniziale, onde consentire al terzo di esplicare appieno le sue prerogative difensive, si è discusso circa l'atteggiarsi delle preclusioni nel caso di intervento adesivo dipendente (ove ci si limita a sostenere le conclusioni di una parte), principale (ove si fanno valere propri e specifici diritti soggettivi in contrasto con tutte le parti), litisconsortile o adesivo autonomo (ove si fanno valere propri e specifici diritti soggettivi verso alcuni soltanto dei soggetti originari del processo). Evidentemente, la problematica riguarda le sole preclusioni istruttorie nel caso di intervento adesivo dipendente, ove non vengono spiegate domande; mentre riguarda sia le preclusioni istruttorie, sia quelle relative alle domande giurisdizionali, nel caso di intervento principale o litisconsortile.

Quattro, in particolare, sono le tesi che sono state sul punto formulate.

La prima ricostruzione, che aveva inizialmente incontrato il maggiore consenso in giurisprudenza di merito, riteneva che la proposizione di domande, anche da parte del terzo interveniente, fosse possibile, ex artt. 166-167 c.p.c., solo fino a venti giorni prima dell'udienza di prima comparizione.

Una seconda ed opposta ricostruzione, seguita da parte della giurisprudenza e della dottrina, non vedeva invece limitazioni temporali alla possibilità per il terzo di formulare domande giurisdizionali e richieste istruttorie, ritenendo che il sistema delle preclusioni valesse solo per le parti originarie del processo, non anche per gli intervenienti.

Una terza tesi, seguita da una minoritaria giurisprudenza di merito e sostanzialmente mediana tra le due sopra riportate, sosteneva invece che il limite temporale massimo entro il quale operare l'intervento fosse quello dello spirare delle preclusioni assertive posto ora dal vigente art. 183, comma 6, n. 1 c.p.c., con la conseguenza che un tempestivo intervento rendeva altresì possibile l'eventuale richiesta dei termini istruttori.

La Corte di cassazione ha però optato per una quarta tesi, distinguendo le preclusioni in tema di domande giurisdizionali da quelle in tema di istanze probatorie, e ritenendo che non vi siano limiti temporali all'attività assertiva, ma che il terzo debba invece rispettare le preclusioni istruttorie eventualmente già maturate al momento dell'intervento.

In particolare, la Suprema Corte ha affrontato ex professo la tematica per la prima volta con la pronuncia di Cass. civ., Sez. III, 28 luglio 2005, n. 15787, e poi ha sempre confermato la propria posizione (più di recente, cfr. Cass. civ., Sez. III, 14 dicembre 2016, n. 25620).

Si è così da un lato chiarito che non vi sono limitazioni temporali alla possibilità per il terzo di formulare domande giurisdizionali, atteso che la proposizione di domande costituisce l'essenza stessa dell'intervento; dall'altro lato, però, anche sulla base dell'insegnamento di Corte Cost., 31 maggio 2005, n. 215, si è statuito che pure per l'interveniente volontario principale valgono le preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie, e che conseguentemente la domanda dell'interveniente, pur se ammissibile, deve essere rigettata nel merito se non supportata da adeguata prova.

In evidenza

La formulazione della domanda costituisce l'essenza stessa dell'intervento principale e litisconsortile, sicché la preclusione sancita dall'art. 268 c.p.c. non si estende all'attività assertiva del volontario interveniente, nei cui confronti non è perciò operante il divieto di proporre domande nuove ed autonome in seno al procedimento fino all'udienza di precisazione delle conclusioni; tuttavia, resto l'obbligo, per l'interventore, avuto riguardo al momento della sua costituzione, di accettare lo stato del processo in relazione alle preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie.

Quali sono i limiti di ammissibilità delle prove testimoniali?

È del tutto evidente che il Legislatore non guarda con favore, e guarda anzi con grande diffidenza, alla prova testimoniale, la quale vede limiti di ammissibilità posti sia in via generale (cfr. artt. 2721 e ss. c.c.), sia con specifico riferimento a determinate situazioni (cfr. artt. 239 e 241 c.c. in tema di filiazione legittima, art. 1417 c.c. in tema di simulazione, art. 2735 comma 2 c.c. in tema di confessione stragiudiziale, art. 621 c.p.c. in tema di opposizione del terzo ad esecuzione mobiliare). Tale sfavore deriva sia da ragioni ricollegate alle necessarie lungaggini dell'assunzione della prova, sia soprattutto dalla ritenuta ontologica inaffidabilità del mezzo di prova stesso, per i naturali limiti della capacità di percezione e di memoria delle persone, che ben può essere imprecisa, fuorviata od influenzata: significativamente, quindi, le limitazioni legali all'ingresso nel processo della prova testimoniale trovano un precedente storico sin dall'art. 1341 del Codice Napoleonico.

Detto del disfavore legislativo nei confronti della prova testimoniale, va osservato che, per i pacifici principi processualcivilistici, una volta che il mezzo probatorio abbia superato il vaglio dell'ammissibilità, il medesimo fatto può essere dimostrato sia con prova documentale, sia con prova testimoniale. I principi costituzionali di uguaglianza delle parti, di rispetto del contraddittorio e di diritto alla prova, infatti, impongono la piena equiparazione dei mezzi di prova sul piano strettamente processuale, posto che tanto la prova costituita, quanto la prova costituenda, sono espressione del diritto di difesa codificato dagli artt. 24 e 111 Cost.

Consegue che, mentre è più che doverosa un'oculata e ragionata valutazione circa l'ingresso nel processo di prove testimoniali realmente ammissibili e rilevanti ai fini della decisione, dovendosi invece evitare ordinanze di ammissione delle prove ‘così come dedotte' con riserva di ulteriore valutazione; d'altro canto, è del tutto priva di spessore giuridico la formula, troppo spesso utilizzata, per la quale un capo testimoniale sarebbe inammissibile in quanto relativo a circostanza che ‘ben potrebbe essere provata per iscritto'.

In realtà, tale assunto sembra piuttosto volto a censurare come inattendibile la deposizione, mentre l'inattendibilità della deposizione deve necessariamente essere statuita successivamente all'espletamento della prova ed in sede di valutazione della stessa, non già in sede preventiva rispetto all'assunzione: solo infatti il profilo giuridico dell'inammissibilità, diverso da quello fattuale dell'inattendibilità, può impedire in via preventiva l'ingresso della prova testimoniale nel processo.

Una questione certamente complessa sotto il profilo teorico-dogmatico e molto rilevante sotto il profilo pratico è quella del regime di rilevabilità, d'ufficio o ad istanza di parte, dei limiti sostanziali di ammissibilità della prova testimoniale sopra visti.

Sul punto, in giurisprudenza si è formato un orientamento oramai tralatizio, per il quale i limiti di ammissibilità della prova testimoniale posti dagli articoli 2721-2724 e 1417 c.c., non sono rilevabili d'ufficio ma solo ad istanza di parte, dovendosi rinvenire il loro fondamento non già in un principio d'ordine pubblico, ma in un principio posto nell'interesse delle parti: discende che la parte potrebbe rinunciare ad eccepire l'inammissibilità o fare acquiescenza all'ammissione, con la conseguenza che l'assunzione della prova testimoniale in violazione dei limiti sostanziali integra una forma di nullità relativa, come tale sanata ex art. 157 c.p.c. laddove non eccepita nella prima istanza o difesa successiva, e sanata altresì laddove l'eccezione di inammissibilità non sia seguita da quella di nullità della deposizione, poiché la prima opera ex ante per impedire un atto invalido, mentre la seconda agisce ex post per evitare che i suoi effetti si consolidino (per tutte, cfr. da ultimo Cass. civ., Sez. VI-III, 15 febbraio 2018, n. 3763).

Unica eccezione ai principi esposti è quella relativa alla violazione del divieto di prova testimoniale per i casi di contratti aventi forma scritta ex art. 2725 c.c., atteso che è comunque pacifica la rilevabilità d'ufficio dell'inammissibilità di una prova testimoniale, o per presunzioni, in relazione ai contratti aventi forma scritta ad substantiam, e per parte della giurisprudenza anche nei contratti aventi forma scritta ad probationem (nel tradizionale senso della non rilevabilità officiosa dell'inammissibilità della prova testimoniale con riferimento ai contratti aventi forma scritta ad probationem, cfr. Cass. civ., Sez. I, 25 giugno 2014, n. 14470; nel senso invece della rilevabilità officiosa, cfr. Cass. civ., Sez. III, 14 agosto 2014, n. 17986).

Anche l'eccezione di incapacità a testimoniare deve essere sollevata nella prima difesa successiva all'assunzione, o al più tardi al momento della acquisita conoscenza ove successiva, altrimenti la nullità è sanata ex art. 157, comma 2, c.p.c., sul presupposto che i divieti di cui agli artt. 246 e 247 c.p.c. sono dettati nell'esclusivo interesse delle parti (per tutte, cfr. Cass. civ., Sez. Un., 23 settembre 2013 n. 21670); e la sanatoria opera anche laddove la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare non sia seguita dalla successiva eccezione di nullità della deposizione, poiché, come già argomentato, la prima non è comprensiva della seconda (giurisprudenza pacifica: tra le più recenti, cfr. Cass. civ., Sez. VI-III, 12 marzo 2019, n. 7095).

Ai sensi dell'art. 157, comma 3, c.p.c., poi, la nullità non potrebbe essere eccepita da chi ha concorso a darvi luogo, come nel caso di chi si è associato alla richiesta di assunzione del teste incapace indotto da controparte od abbia essa stessa citato il teste.

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