Riciclaggio e dichiarazione fraudolenta. Un falso arresto giurisprudenziale da parte della Cassazione

Marina Smeralda Caini
11 Maggio 2020

La Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, con la sentenza in commento, ha affrontato, ancora una volta, una fattispecie riguardante il sequestro preventivo per equivalente riconducibile al rapporto tra il delitto (presupposto) di dichiarazione fraudolenta mediante l'uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e i delitti di riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.
Abstract

La Corte di Cassazione, Seconda Sezione Penale, con la sentenza in commento, ha affrontato, ancora una volta, una fattispecie riguardante il sequestro preventivo per equivalente riconducibile al rapporto tra il delitto (presupposto) di dichiarazione fraudolenta mediante l'uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti e i delitti di riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.

Più precisamente il sequestro preventivo per equivalente ha colpito un compendio immobiliare formalmente conferito in un ‘trust', ritenuto tuttavia nella disponibilità di due coniugi: il marito risulta indagato per il reato di frode fiscale (art. 2 d.lgs. 74/2000), la moglie di riciclaggio e di reimpiego dei denari sottratti all'imposizione fiscale, in parte compiendo operazioni tali da ostacolarne l'identificazione, ed in parte impiegandoli in attività economiche a sé riconducibili (artt. 648-bis e 648-ter c.p.) per una somma totale sostanzialmente coincidente con quella derivante dall'evasione contestata al coniuge. L'importo del sequestro finalizzato alla confisca riguardava entrambi i profitti: quello di frode fiscale e quello di riciclaggio e di reimpiego.

Decidendo sul ricorso dell'indagata che osservava come il Tribunale del Riesame avesse finalizzato alla confisca lo stesso identico profitto (ossia quello derivato dal reato presupposto anche a titolo dei reati di riciclaggio e di reimpiego), compiendo così un'illegittima duplicazione, la Corte di Cassazione confermava la legittimità della decisione in punto di possibilità di confisca dei “duplici profitti”, ossia della “sommatoria” dei proventi del reato presupposto e del riciclaggio.

La complessa vicenda sottostante

Il procedimento penale dal quale trae origine il sequestro e quindi la decisione è pendente nei confronti di 4 indagati – legati da vincoli familiari e, per quanto interessa, dal rapporto di coniugio evidenziato poc'anzi - tra i quali ovviamente la ricorrente.

Quest'ultima, come detto in precedenza, è coinvolta nel procedimento, nella sua qualità di moglie di altro indagato, per l'asserita sussistenza del reato di riciclaggio e del reato di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita.

È significativo notare:

  • come, nell'ambito del reato di riciclaggio venga contestato l'utilizzo di denaro, derivante da false fatturazioni intercorse tra altri soggetti e utilizzate nella dichiarazione dal marito, per alcuni pagamenti e per versamenti su conti correnti personali e su conti correnti del trust;
  • mentre, nell'ambito del reimpiego, venga contestato l'utilizzo di denaro in attività economiche alla medesima riconducibili di capitali di conosciuta provenienza illecita, derivanti dal pagamento a favore di imprese compiacenti riconducibili a familiari a fronte delle false fatturazioni richiamate nella contestazione di riciclaggio.

Sino dalla prima istanza della ricorrente al Giudice per le Indagini Preliminari territorialmente competente, volta a ottenere la modifica del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, era stataevidenziata la ritenuta sproporzione tra il valore dei beni sottoposti a sequestro e l'ammontare del profitto individuato in relazione ai reati contestati alla stessa nella richiesta di misura cautelare.

A seguito di un accoglimento parziale la ricorrente ebbe a proporre appello ex art. 322-bis c.p.p. al Tribunale del Riesame.

Anche in questa fase la lamentela riguarda soprattutto, se non esclusivamente, la questione della sproporzione tra profitto quantificato in relazione alle imputazioni contestate ed il valore dell'intero compendio immobiliare sottoposto a sequestro.

L'accoglimento, parziale, dell'appello induce quindi la ricorrente a proporre ricorso dinanzi alla Suprema Corte.

L'impugnazione si fonda su un unico motivo: l'erronea interpretazione e applicazione dell'art. 648-quater c.p. con riferimento alla nozione di profitto del reato.

In particolare l'attenzione della ricorrente si focalizza sull'errore compiuto sino dal decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, sostanzialmente ripetuto anche dal Tribunale del Riesame: il profitto sequestrato è stato infatti individuato sommando gli importi ricevuti dalla ricorrente dalle imprese coinvolte nell'emissione e utilizzo di fatture false agli importi utilizzati dalla ricorrente stessa in proprie attività economiche e ricevuti dalle suddette imprese.

Errore tanto più evidente se si pensa che, contestualmente, nei confronti del marito, indagato, come detto, per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture false, era stato disposto il sequestro del profitto del reato fiscale presupposto del riciclaggio.

Prova ne sia che il profitto sequestrato alla ricorrente risulta essere di pari importo alle somme di conosciuta provenienza illecita ovverosia il profitto del reato fiscale.

Ne consegue che, sempre secondo la ricorrente, il profitto dei reati di riciclaggio e reimpiego sia stato individuato, violando la disposizione di cui all'art. 648-quater c.p., avendo riguardo all'oggetto dei reati suddetti anziché al vantaggio ottenuto attraverso le condotte di sostituzione, trasferimento o impiego in attività economiche o finanziarie, contestate alla ricorrente stessa.

In altre parole il sequestro operato nei confronti dell'indagata sarebbe illegittimo in quanto tale somma non corrisponde alla nozione di profitto contemplata nel più volte citato art. 648-quater c.p.

La sentenza in esame: arresto giurisprudenziale o altro?

La sentenza di cui trattasi, stando al rigetto del ricorso proposto e alla motivazione certamente stringata (forse troppo?), pare segnare una battuta d'arresto rispetto alla giurisprudenza recentemente formatasi in argomento.

Tant'è vero che la stessa seconda sezione penale, con la nota decisione Cass. pen., n. 30401/2018 (Presidente Davigo, Estensore Rago) in tema di autoriciclaggio, ebbe ad affermare un principio giuridico condivisibile e di ben diverso orientamento:

“Il profitto del delitto di autoriciclaggio non può coincidere con quello del reato presupposto proprio perché di quest'ultimo profitto l'agente ne ha già goduto. Quindi, il prodotto, profitto, prezzo del reato di autoriciclaggio non può che essere un qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al provento del reato presupposto”.

Vero è che la suddetta decisione riguarda il delitto di autoriciclaggio il cui delitto presupposto – nel caso suddetto del 2018 - è sempre e comunque un reato fiscale, ma è altresì vero che il principio, pienamente condivisibile, peraltro, parrebbe applicabile anche al caso di specie.

Si consideri inoltre che la ricorrente nel ricorso ha espressamente citato il precedente di cui sopra ed anzi ha ricordato che il principio, importante e corretto, è stato ribadito anche da una successiva pronuncia sempre della seconda sezione penale ovverosia la Cass. pen., n. 22020/2019 (Presidente De Crescienzo, Relatore Pardo).

A parere di chi scrive non può, tuttavia, parlarsi di arresto giurisprudenziale.

La decisione in commento riguarda, senza alcun dubbio, la legittimità, in linea di principio, della confisca che colpisca sia il profitto a monte, ovverosia quello derivante dal reato presupposto, che quello a valle, ovverosia quello derivante dal riciclaggio e reimpiego delle somme di provenienza delittuosa.

È altresì innegabile tuttavia che la Corte, reputando non devoluto con adeguata puntualità al Giudice dell'Appello il tema specifico della composizione di questi ultimi profitti, ritiene di non doversi pronunciare sulla questione in quanto ciò implicherebbe accertamenti in fatto non consentiti dinanzi al Giudice di legittimità con la conseguenza di rigettare il ricorso perché “infondato se non inammissibile”.

È quindi logico ritenere che la decisione in commento poteva essere diversa qualora non avesse censurato il ricorso nei termini suddetti tant'è vero che, nella motivazione, si legge che la doglianza, specificatamente sollevata nel ricorso, della eventuale identità-unicità del profitto dei due reati e, quindi, della pretesa duplicazione del valore di sequestro pare dunque preclusa ai sensi e per gli effetti dell'art. 606, comma 3, c.p.p.

La sensazione che non si tratti di un arresto giurisprudenziale ma soltanto di una decisione cosiddetta ‘di fattispecie' emerge ancora di più dalla premessa, contenuta nella decisione, sulla natura della confisca per equivalente in forza della quale si legge “… invero, non dubita il Collegio sul fatto che la confisca per equivalente abbia ad oggetto il valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dal reato, assolvendo in tal modo ad una sostanziale funzione ripristinatoria della situazione economica, modificata a seguito della commissione del reato medesimo (cfr., sez. II, n. 50982 del 20/9/2016, r.v. 268729); né può dubitarsi sul fatto che la confisca di valore, avendo natura sanzionatoria, partecipa del regime delle sanzioni penali e quindi non può essere applicata per un valore superiore al profitto del reato travalicando, in caso contrario, il confine della pena illegale (cfr., sez. II, n. 37590 del 30/4/2019, r.v. 277083)”.

Il valore dei precedenti: i criteri di corretta individuazione del profitto sequestrabile ai fini di confisca

Come ben noto il tema dell'individuazione del profitto sequestrabile ai fini della confisca per equivalente si pone con particolare riferimento ai reati di riciclaggio, reimpiego ed autoriciclaggio (previsti e puniti dagli artt. 648-bis, 648-ter, e 648-ter.1 c.p.).

Si tratta infatti di delitti connotati dall'avere come presupposto la commissione di un delitto dal quale si possa trarre un ulteriore illecito vantaggio o del quale si ripuliscano le tracce economiche.

L'art. 648-quater c.p. prevede la confisca obbligatoria per un valore equivalente al profitto, prodotto o prezzo del reato, nel caso in cui non sia possibile la confisca diretta.

Come già riferito in precedenza giova senz'altro ribadire che, con riferimento al reato di autoriciclaggio, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il dato fattuale dal quale occorre partire è che il delitto in questione si alimenta con il provento del delitto presupposto, dal che “deriva un'ovvia conseguenza sul piano giuridico: il profitto del delitto di autoriciclaggio non può coincidere con quello del reato presupposto proprio perché di quest'ultimo profitto l'agente ne ha già goduto. Quindi, il prodotto, profitto o prezzo del reato di autoriciclaggio non può che essere qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al provento del reato presupposto” (cfr., Cass. Sez. II, 7/06/2018, n. 30401).

Occorre, cioè, individuare quel “quid pluris” che costituisca la specifica utilità conseguita dalle attività economiche poste in essere con i denari o beni di provenienza delittuosa.

Diversamente, l'art. 648-quater c.p. non troverebbe alcuno spazio applicativo poiché il provento del reato presupposto è già di per sé confiscabile, a meno di non violare il principio fondamentale secondo il quale “si può sequestrare (e confiscare) solo il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale da ogni reato commesso” come correttamente osserva la Corte nella sentenza sopra citata.

In assenza di uno specifico profitto derivante dal reato di autoriciclaggio non si può operare una duplicazione della somma confiscabile senza violare il principio del ne bis in idem, sanzionando due volte il medesimo fatto, attesa la natura puramente punitiva di tale misura.

L'impostazione sopra richiamata pare ormai consolidata nella giurisprudenza di legittimità.

Il principio espresso è riassunto con estrema chiarezza dalla recente sentenza n. 37590 della II sezione penale della Corte di Cassazione dell'11/09/2019 laddove afferma (richiamando anche precedenti a Sezioni Unite e decisioni della Corte Europea) che sia “sicura la natura di sanzione penale propria della confisca per equivalente” e in coerenza con tale qualifica ne sia stata ritenuta l'irretroattività, la preclusione di interpretazioni estensive o analogiche e l'inapplicabilità qualora sia dichiarata la prescrizione del reato. Inoltre, la circostanza che essa non possa essere disposta per un valore superiore al profitto del reato, configurando in tal caso “l'irrogazione di una pena illegale”.

La decisione pare davvero interessante se è vero, com'è vero, che, nel caso di specie, la Corte ha ridotto ex officio l'importo della “porzione di confisca per equivalente applicata in più rispetto al profitto, al prodotto o al prezzo del reato di riciclaggio”, ritenendo trattarsi dell'irrogazione di una pena illegale, e come tale non necessariamente collegata ad una specifica censura contenuta nel ricorso di parte, purché tempestivo.

Peraltro nella motivazione si legge espressamente che: “Il carattere illegale della pena sta nel fatto, prima ricordato, che una cosa è il prodotto, il profitto o il prezzo che l'autore del riciclaggio trae dal reato, che ha commesso, e altra e differente cosa è il bene riciclato. Nei confronti del “riciclatore” può essere disposta la confisca esclusivamente del prodotto, del profitto o del prezzo che egli ha tratto dal reato di riciclaggio che ha consumato, mentre nei confronti del “riciclante” può essere disposta la confisca del bene riciclato, sempre che ne sussistano i presupposti”.

A proposito di precedenti significativi non si può dimenticare quanto già evidenziato in precedenza con riferimento alla decisione, sempre della II Sezione Penale n. 22020/2019.

In conclusione

Su un piano generale la sentenza, davvero molto stringata, non può condividersi ed anzi, come detto, rischia di assumere il ruolo di decisione in contrasto con i precedenti: mentre così non è.

Incide nella decisione, senza dubbio alcuno, la questione processuale già tratteggiata, ovverosia quella di una mancata impugnazione nella fase di riesame di un punto decisivo della controversia, questione sollevata in maniera specifica per la prima volta di fronte ai Giudici di Piazza Cavour (anche se, a voler esser precisi, parrebbe di poter dire che la questione era stata sollevata di fronte al GIP ma non ripetuta dinanzi al riesame).

L'impatto della decisione di cui trattasi è quindi da valutarsi con criterio di prudenza proprio per l'evidente singolarità della fattispecie processuale.

Semmai merita una sottolineatura (di mancata condivisione) il passaggio della sentenza e precisamente quello nel quale si afferma che: “Tuttavia, dal provvedimento impugnato emerge con chiarezza che il profitto dei reati presupposto (le dichiarazioni fraudolente) deve individuarsi nelle somme di denaro che il coindagato … ha sottratto all'Erario e distratto dalle imprese … in favore della moglie …; e che il profitto del riciclaggio a quest'ultima ascritto, consiste invece in quanto alla stessa derivato dall'impiego delle somme predette nelle proprie attività economiche. Evidente è dunque il profilo dell'esistenza di duplici profitti confiscabili e, dunque, della piena legittimità della sommatoria operata dal TDL”.

A dire il vero dagli atti tale situazione non pare essersi verificata ed anzi appare, semmai, evidente che il quantum del sequestro azionato nei confronti della ricorrente non è correlato alla quantificazione del prodotto, prezzo o profitto dei reati contestati, quanto semmai alla quantificazione delle somme oggetto di riciclaggio e reimpiego, ovverosia delle somme provenienti dalla commissione del reato presupposto e cioè il provento del reato tributario.

Difficile negare che nel caso di specie vi sia stata una vera e propria duplicazione del sequestro con la logica conseguenza di violare il disposto del più volte richiamato art. 648-quater c.p. che, come detto, disciplina la confisca delle somme di denaro, beni o altre utilità per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato e non certo equivalente all'oggetto del reato.

In conclusione, anche volendo ammettere la non completa deduzione nel ricorso per Cassazione del problema che ci occupa, non sembrano mancare in atti quegli elementi in forza dei quali il ricorso avrebbe meritato miglior sorte.

Guida all'approfondimento

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