Il Gip investito della richiesta di emettere un mandato d'arresto europeo non può pro-cedere d'ufficio alla revoca o alla modifica della misura cautelare

12 Maggio 2020

Il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta del P.M. di emettere un mandato d'arresto europeo, non può
Massima

Il giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta del P.M. di emettere un mandato d'arresto europeo, non può procedere d'ufficio alla revoca o alla sostituzione della misura cautelare in corso di esecuzione.

Il caso

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Brindisi, investito della richiesta del P.M. di emettere un mandato d'arresto europeo, la rigettava e, contestualmente, sostituiva la misura cautelare degli arresti domiciliari in corso di esecuzione con l'obbligo di dimora.

Il P.M., tuttavia, proponeva appello cautelare avverso tale decisione e il Tribunale del riesame di Lecce lo accoglieva, ripristinando la misura custodiale.

A questo punto, l'imputato, per tramite del suo difensore, ricorreva per cassazione sostenendo che il giudice per le indagini preliminari aveva fatto buon uso delle previsioni normative, e invocava, perciò, l'annullamento della decisione del tribunale della libertà.

La Suprema Corte, dal canto suo, dichiarava inammissibile il ricorso: dopo aver evidenziato la finalità del mandato d'arresto europeo, delineava i poteri di intervento ex officio del giudice per le indagini preliminari e sottolineava che il codice di rito - segnatamente l'art. 299 - non consente un sindacato ufficioso sulla misura cautelare quando il giudice è sollecitato dal P.M. a emettere un euromandato. In questa ottica, secondo la Corte, si deve accedere a un'interpretazione rigorosa delle ipotesi contemplate dal terzo comma dell'art. 299 c.p.p. che consentono di prescindere da un impulso di parte. Il giudice per le indagini preliminari, infatti, è un “giudice senza processo”, che, nella fase precedente all'esercizio dell'azione penale, non dispone degli atti di indagine e non è a conoscenza dello sviluppo del procedimento.

La questione

La questione esaminata dalla Suprema Corte si inserisce in un quadro più ampio che concerne l'individuazione del giudice competente all'emissione del mandato d'arresto europeo e la delimitazione dei suoi poteri e, in linea teorica, intercetta il tema della natura del mandato d'arresto europeo e del suo collegamento con il provvedimento interno (ordinanza cautelare ovvero sentenza di condanna).

I quesiti che originano dalla vicenda processuale attengono, quindi, alla possibilità per il giudice di dissentire dalla richiesta inoltrata dal P.M. e di negare l'emissione del mandato d'arresto europeo, e alla sussistenza, in tale frangente, del potere di rivalutare la persistenza dei presupposti per il mantenimento del vincolo cautelare.

La questione riguarda in via esclusiva il mandato d'arresto europeo c.d. processuale - emesso per l'esecuzione di un'ordinanza cautelare - e non quello esecutivo - emesso per l'esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna - per due motivi. In primo luogo, perchè la competenza all'emissione dell'euromandato esecutivo è affidata al P.M. e, quindi, non è necessaria un'interlocuzione con il giudice; in secondo luogo, perchè in tale ultima declinazione non possono verificarsi mutamenti che incidano sul titolo coercitivo, precludendo l'emissione dell'euromandato. Diversamente dall'ordinanza cautelare, che, fisiologicamente, è destinata a mutare con l'evolvere del procedimento, in una sentenza di condanna la limitazione della libertà personale è già cristallizzata in ogni suo aspetto e soltanto eventi di carattere straordinario possono determinarne la modifica o la rimozione.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte orienta il suo discorso intorno al rapporto tra il mandato d'arresto europeo e la misura cautelare per poi delimitare i poteri di intervento del giudice per le indagini preliminari.

Il mandato d'arresto europeo - secondo la definizione che, coerentemente con l'art. 1 della decisione quadro 584/2002/GAI ne dà l'art. 1 della l. 22 aprile 2005, n. 69 - è una decisione giudiziaria emessa da uno Stato membro dell'Unione europea - “Stato membro di emissione” - in vista dell'arresto e della consegna da parte di un altro Stato membro - “Stato membro di esecuzione” - di una persona, al fine dell'esercizio di azioni giudiziarie in materia penale o dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale. In altre parole, è una decisione giudiziaria di uno Stato membro cui è riconosciuta efficacia esecutiva in un altro Stato membro nel quale si trova il soggetto ricercato. L'estrema semplificazione del meccanismo di consegna si basa sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, cardine del nuovo corso della cooperazione tra Stati membri dell'Unione Europea. Si ritiene, infatti, che la condivisione di un comune patrimonio giuridico consenta di dismettere le cautele e gli appesantimenti procedurali tipici dell'estradizione per sostituirli con un nuovo sistema nel quale il controllo sia meno intrusivo (di un “controllo sufficiente” parla il considerando n. 8 della decisione quadro) perchè limitato a verificare esclusivamente la natura del titolo e la sua consonanza con il modello predisposto dalla decisione quadro.

L'emissione di un mandato di arresto europeo, dunque, consente di proiettare il titolo coercitivo nazionale nel territorio di un altro Stato dell'Unione Europea che provvederà ad arrestare la persona ricercata e - sussistendo le condizioni - a consegnarla allo Stato richiedente al termine di una procedura esclusivamente giudiziaria.

Emerge, da una pluralità di indici normativi, il nesso di strumentalità che collega l'euromandato al titolo interno, in assenza del quale non è possibile attivare i canali della cooperazione giudiziaria.

Questo rapporto è scolpito nell'art. 31 della legge italiana, in forza del quale il mandato d'arresto europeo perde efficacia quando il provvedimento che lo supporta è stato revocato o annullato ovvero è divenuto inefficace. Evidente la ratio della previsione: poichè l'esecuzione dell'euromandato comporta la restrizione della persona nello Stato membro nel quale viene catturata e poichè tale restrizione si basa sul titolo nazionale, ogni effetto deve cessare nel momento in cui quest'ultimo perde vigore.

Ancora nella medesima direzione muove l'art. 33, che impone di considerare il periodo di custodia cautelare sofferto all'estero in esecuzione di un euromandato non soltanto ai sensi dell'art. 657 c.p.p., ma anche ai fini del computo dei termini di durata della misura cautelare. Come dire che il legislatore, traducendo nell'ordinamento interno la previsione contenuta nell'art. 26 della decisione quadro, ha inteso ribadire che la privazione della libertà personale sofferta all'estero discende dal titolo adottato nel procedimento penale nazionale.

Il nesso di strumentalità, poi, si percepisce anche nelle regole che, nella declinazione attiva dell'istituto, disciplinano l'emissione del mandato d'arresto europeo.

Il legislatore, nel dare attuazione alla decisione quadro, si è discostato dal modello estradizionale - nel quale la competenza all'emissione della richiesta (rectius: la competenza a sollecitare l'inoltro della richiesta da parte del Ministro della giustizia) è concentrata in capo al procuratore generale presso la corte d'appello, ai sensi dell'art. 720 c.p.p. - per adottare un diverso meccanismo che coinvolge una pluralità di soggetti.

Nel caso di euromandato esecutivo, l'art. 28, comma 1, lett. b) e lett. c) affida la competenza al P.M. incaricato dell'esecuzione della pena detentiva ovvero della misura di sicurezza detentiva. Chiara, qui, è l'intenzione di replicare nel segmento cooperativo l'assetto codicistico in forza del quale il pubblico ministero, ai sensi dell'art. 655 c.p.p., è l'organo che cura l'esecuzione dei provvedimenti.

Nel caso di euromandato processuale, la competenza è affidata al giudice che ha applicato la misura cautelare della custodia in carcere o degli arresti domiciliari (art. 28, comma 1, lett. a)).

Questa innovazione, tuttavia, ha determinato particolari difficoltà interpretative soprattutto per quanto concerne la declinazione processuale dell'istituto. Stando a una interpretazione rigorosamente letterale della formula normativa, infatti, la competenza all'emissione dell'euromandato sarebbe attribuita al giudice che ha emesso la misura cautelare anche qualora il provvedimento si sia successivamente sviluppato per ulteriori fasi e gradi ovvero, per ragioni di competenza, sia stato trasferito ad altro ufficio giudiziario. Una lettura simile avrebbe determinato notevoli complicazioni, poichè nel caso di ulteriori progressioni del procedimento il giudice che ha adottato il provvedimento cautelare non sarebbe più in possesso dei dati necessari per decidere. Il ricorso al canale di cooperazione giudiziaria impone, tra l'altro, una verifica circa la persistente frustrazione della pretesa cautelare e la natura custodiale del vincolo e tali controlli non possono essere esperiti dal giudice che ha emesso la misura, il quale, nell'ipotesi in cui il procedimento abbia conosciuto ulteriori sviluppi, non avrà più la materiale disponibilità del fascicolo (sul punto, più dettagliatamente, nel paragrafo che segue).

A risolvere il problema sono intervenute le Sezioni unite che hanno adottato un criterio logico-sistematico, e, pertanto, hanno stabilito che l'art. 28 deve essere interpretato nel senso che la competenza all'emissione dell'euromandato, coerentemente con la previsione generale in materia di misure cautelari, contenuta nell'art. 279 c.p.p., è affidata al giudice che procede (Cass. pen., sez. un., 28 novembre 2013, n. 2850, in Cass. pen., 2015, p. 3990). Anche in questa decisione si coglie il legame tra titolo coercitivo interno e mandato di arresto europeo. La Corte, infatti, ha affermato che l'attribuzione della competenza al giudice che procede si impone alla luce della necessità di consentire una verifica circa i presupposti per l'emissione e, quindi, sull'attualità della coercizione e sulla sua conformità alle disposizioni che regolano la cooperazione.

Dal punto di vista strutturale, tuttavia, si deve rimarcare la perfetta autonomia dei due atti, anche sotto il profilo procedimentale. In questo senso, è stata chiarissima la Corte di giustizia dell'Unione Europea: chiamata a verificare la conformità alle previsioni della decisioni quadro delle norme che la hanno recepita nell'ordinamento ungherese, ha escluso che nell'euromandato possano cumularsi sia la misura cautelare interna sia la richiesta di cooperazione, affermando, invece, che i due provvedimenti devono essere ben distinti soprattutto nella prospettiva della tutela del diritto di difesa della persona richiesta in consegna (C. giust. UE, 1 giugno 2016, C-241/15, in Cass. pen., 2016, p. 3478)

L'emissione dell'euromandato, dunque, avviene all'esito di un procedimento incidentale che ha quale presupposto un provvedimento coercitivo domestico e trae origine dalla impossibilità di catturare il ricercato sul territorio nazionale. Questo segmento si caratterizza anche per il suo contenuto: in tale frangente, infatti, il thema decidendum non riguarda più il titolo interno e, quindi, la persistenza dei presupposti per l'applicazione della misura. Piuttosto, il giudice è chiamato a valutare la differente questione circa la sussistenza dei requisiti per invocare l'intervento delle autorità degli Stati membri nell'attuazione della pretesa cautelare. Un simile assetto si coniuga perfettamente con l'esclusione di un potere di modifica o revoca della misura cautelare in capo al giudice chiamato a emettere l'euromandato.

Osservazioni

La questione appena esaminata offre lo spunto per approfondire il diverso ma collegato tema del rapporto tra P.M. e giudice nell'emissione del mandato d'arresto europeo. Nella sentenza in rassegna, infatti, si legge che la questione sottoposta alla Suprema Corte è scaturita proprio dall'iniziativa del P.M. che aveva sollecitato il giudice a spiccare un euromandato.

L'assetto normativo non contempla alcun intervento del P.M. in tale segmento e la rigida ripartizione segnata dall'art. 28 induce a concludere che ciascun organo sia assolutamente autonomo nella propria sfera di attribuzioni e che, pertanto, l'euromandato processuale sia affare del solo giudice.

In capo all'organo d'accusa, quindi, si potrebbe configurare soltanto la possibilità di sollecitare il giudice ad emettere il mandato d'arresto europeo dopo che, sul territorio nazionale, le ricerche finalizzate all'esecuzione dell'ordinanza cautelare si siano rivelate infruttuose ovvero qualora, sin dall'adozione della misura, si abbia contezza del fatto che l'imputato si trovi all'estero.

L'attribuzione, in via interpretativa, di una simile funzione di stimolo si rivela fondamentale. Il giudice che procede, pur essendo a conoscenza della vicenda cautelare, potrebbe avere difficoltà nel reperire le ulteriori informazioni necessarie per assumere le proprie determinazioni. La localizzazione del soggetto ricercato sul territorio di uno Stato membro e altre notizie simili, infatti, derivano dal compimento di attività investigative di carattere poliziesco che, per il tramite della polizia giudiziaria, trovano il loro terminale proprio nel pubblico ministero. In altre parole, il giudice, benchè abbia a disposizione il fascicolo processuale, potrebbe incontrare serie difficoltà nell'individuazione del momento nel quale procedere e, conseguentemente, anche nella scelta tra le alternative modalità di trasmissione previste dal primo e dal secondo comma dell'art. 29 (trasmissione diretta dell'euromandato ovvero inserimento di una segnalazione nel Sistema informativo Schengen). In quest'ottica, allora, è imprescindibile un ruolo di sollecitazione del P.M. che, ottenuta la notizia, più o meno precisa, circa la presenza del ricercato in un altro Stato membro, può traferire le informazioni al giudice e invitarlo a emettere un mandato d'arresto europeo.

A questo punto, tuttavia, sorge l'ulteriore quesito circa la natura - vincolante o meno - della richiesta inoltrata dal p.m e, poi, dei rimedi esperibili avverso un eventuale diniego.

Si ritiene che dall'attribuzione al P.M. di un ruolo di sostegno informativo non discenda nè un obbligo per il giudice di emettere il mandato d'arresto europeo per il solo fatto che il P.M. lo abbia richiesto, nè che quest'ultimo possa dolersi del rigetto.

Di diverso avviso è, invece, la Suprema Corte secondo la quale il giudice investito dalla richiesta del P.M. è tenuto a darle corso, realizzando altrimenti un atto abnorme (Cass. pen.,Sez.VI, 4 giugno 2012, n. 21470, Cesano, in C.E.D. Cass., n. 252722; successivamente, in senso conforme, Cass. pen., Sez. VI, 12 gennaio 2016, n. 8209, ivi, n. 266113). Dalla trama argomentativa delle decisioni che compongono questo consolidato indirizzo, si evince che al giudice è attribuito un potere di controllo assai limitato poichè il vaglio consisterebbe nella sola verifica circa l'esistenza del provvedimento custodiale e la localizzazione del ricercato nel territorio europeo. Il giudice, stando alle parole della Suprema Corte, godrebbe di una “discrezionalità vincolata”, posto che l'art. 28 stabilisce una sorta di “automaticità” della emissione dell'euromandato.

Un approccio simile, a prima vista, sembra coerente con l'assetto legislativo e con l'elaborazione giurisprudenziale tratteggiati nel paragrafo precedente: se l'euromandato è geneticamente collegato al provvedimento cautelare interno, dalla mancata esecuzione del secondo non può che conseguire l'emissione del primo.

Un esame più approfondito, invece, rivela che il sindacato del giudice non può essere compresso in tal modo e che, allo stesso tempo, l'eventuale provvedimento negativo non è riconducibile nel paradigma dell'atto abnorme.

Il dissenso rispetto alla interpretazione del Giudice di legittimità scaturisce dalle motivazioni della decisione con la quale le Sezioni unite hanno risolto il contrasto sulla individuazione del giudice competente all'emissione dell'euromandato processuale. In tale occasione, infatti, la Suprema Corte ha espressamente ricusato la tesi che intravede nell'emissione del mandato di arresto europeo «un'attività di carattere certificativo-amministrativo-strumentale» (sostenuta, tra le altre, da Sez. I, 16 aprile 2009, n.18569, in C.E.D. Cass., n. 243652) per affermare, invece, che il vaglio del giudice «poggia su un apprezzamento largamente discrezionale, oggettivamente ricollegabile ad un'attenta ponderazione del complesso degli elementi storico-fattuali e probatori a disposizione dell'autorità giudiziaria che procede nella fattispecie concreta».

Il vaglio giudiziale, infatti, deve tener conto di una pluralità di elementi, rilevanti tanto nella dimensione domestica che in quella internazionale. Quanto alla prima, si dovrà tener conto di una serie di elementi indicativi, tra i quali figurano, a titolo esemplificativo, la gravità del reato, la personalità dell'autore, l'entità della pena e della durata della misura cautelare, anche in considerazione della scadenza dei termini di fase. Quanto alla seconda, si dovrà considerare che dall'emissione del mandato d'arresto europeo scaturisce una complessa attività di cooperazione internazionale tra organi di polizia e autorità giudiziarie, e che l'esecuzione dell'euromandato comporta l'arresto e la detenzione del ricercato, nel territorio di un altro Stato membro, per un lungo periodo di tempo, sollecitando l'instaurazione di un continuo interscambio informativo tra le autorità giudiziarie interessate e, talora, tra queste ultime ed Eurojust.

Si tratta, a ben vedere, di indici che, in una più ampia prospettiva, richiamano il principio di proporzionalità, che, secondo le istituzioni europee, deve guidare le autorità degli Stati membri nell'assumere la decisione circa l'opportunità di ricorrere alla cooperazione giudiziaria e che impone di desistere dall'attivazione di simili strumenti qualora i fatti non siano espressione di particolare gravità.

Un approfondimento in questo senso - che sicuramente esula dal perimetro tracciato dall'indirizzo che vincola il giudice alla pretesa del P.M. - è imposto sia dalla volontà di limitare il ricorso alla cooperazione giudiziaria ai soli casi in cui sia realmente necessario proiettare oltreconfine la pretesa coercitiva, anche alla luce dei costi della cooperazione, sia dalla volontà di impedire che le persone coinvolte nella procedura di consegna subiscano limitazioni della libertà personale eccessive rispetto alle finalità perseguite.

A sottolineare la delicatezza della questione è intervenuto anche il Parlamento europeo: la Risoluzione del 27 febbraio 2014, infatti, ha censurato un uso sproporzionato del mandato d'arresto europeo, spiccato anche per reati minori e in circostanze in cui potrebbero essere utilizzate alternative meno invasive, e ha sottolineato come la conseguenza di un simile atteggiamento siano arresti ingiustificati e inutili o attese eccessive, in stato di custodia cautelare, con un sacrificio sproporzionato della libertà personale del ricercato.

Al lume di tale impostazione, emerge che il giudice - anche nel momento in cui è chiamato a emettere il mandato d'arresto europeo - svolge una irrinunciabile funzione di garante della libertà personale che non può essere compressa nei termini di una adesione obbligata alla richiesta del P.M. Ciò significa, per tornare al caso trattato nella sentenza in rassegna, che il giudice, pur non potendo intervenire sul titolo cautelare domestico, per la mancanza di poteri ex art. 299 c.p.p., può, comunque, sindacare l'opportunità di sottoporre la persona a limitazioni ulteriori della libertà personale collegate all'esecuzione dell'euromandato.

A questo punto, si deve volgere l'attenzione al secondo profilo, che attiene ai rimedi concessi al P.M. per dolersi del rigetto.

In termini generali, è stata esclusa la possibilità di impugnare un mandato d'arresto europeo da parte del suo destinatario, in ossequio al principio di tassatività che governa la materia (Cass. pen., Sez. un., 21 giugno 2012, n. 30769, in Cass. pen., 2013, p. 3847). Una simile conclusione dovrebbe valere anche per la decisione di non emetterlo, non rinvenendosi nel dato normativo elementi che, anche implicitamente, conferiscano al P.M. il diritto di insorgere avverso il diniego.

Ciò posto, l'ampiezza del potere del giudice descritta dalle Sezioni unite impedisce, per un duplice ordine di ragioni, di configurare come abnorme il provvedimento che rigetta la richiesta del P.M. e, quindi, di aprire la via al ricorso per cassazione.

In primo luogo, il giudice fa uso, ancorchè erroneamente, di un potere che gli è conferito dalla legge e il cui prodotto, pertanto, non può essere qualificato alla stregua di un atto avulso dall'ordinamento processuale. Tale decisione, peraltro, non determina una stasi del procedimento, ben potendo essere spiccato l'euromandato in un momento successivo, eventualmente all'esito di una nuova sollecitazione del P.M. (sul punto, tra le tante decisioni attraverso le quali la Suprema Corte ha descritto il concetto di abnormità, è dirimente il richiamo a Cass. pen., Sez. un., 22 giugno 2009, n. 25957, Toni, in Cass. pen., 2009, p. 4549).

In secondo luogo, a impedire tale configurazione dell'atto è anche la circostanza che la richiesta del P.M. non è contemplata dall'ordinamento, ma, come si è detto, è ricavata in via interpretativa alla luce delle esigenze della prassi. Ne consegue che la pretesa del pubblico accusatore non merita una tutela tanto estesa da esplicarsi fino a prevalere sulle prerogative che la legge conferisce al giudice.

Guida all'approfondimento

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