Sospensione condizionale subordinata a obblighi risarcitori: la Cassazione fa chiarezza sul termine per adempiere

Michele Sbezzi
21 Maggio 2020

La sospensione condizionale della pena assolve, quantomeno nel suo progetto originario, alla finalità special-preventiva di indurre il condannato a resipiscenza. Essa si basa sulla previsione che…
Abstract

La sospensione condizionale della pena assolve, quantomeno nel suo progetto originario, alla finalità special-preventiva di indurre il condannato a resipiscenza. Essa si basa sulla previsione che il condannato non commetterà altri reati e che, per questo, merita tanto di non scontare la pena quanto di ottenere la dichiarazione di estinzione del reato commesso. La costante, quasi acritica concessione del beneficio in parola, ha però trasformato l'istituto da strumento utile al recupero sociale di chi ha infranto la legge penale a sostanziale, generalizzata garanzia di non scontare le pene rientranti nei limiti fissati dalla legge. Ciò ha condotto il Legislatore, negli anni, a modificare la disciplina, restringendo vieppiù l'ambito di discrezionalità nel quale il giudice si muoveva da troppo tempo. In tal contesto si inquadra, la possibilità che la sospensione sia sempre più spesso obbligatoriamente subordinata a prestazioni che il Giudice deve scegliere dall'elenco chiuso indicato dalla legge, da eseguirsi entro un termine che il codice vuole sia sempre indicato dal Giudice della condanna. Cosa accade se il Giudice omette di indicarlo?

La sospensione condizionale della pena

Com'è noto, l'art. 163 del codice penale conferisce al Giudice il potere di ordinare che l'esecuzione della pena irrogata rimanga sospesa per due o cinque anni, a seconda che il reato cui è conseguita condanna fosse una contravvenzione o un delitto. La sospensione può riguardare la sola pena detentiva, o comprendere anche quella pecuniaria, eventualmente congiunta e sommata alla prima secondo i criteri di conversione, a seconda che si superi o meno il tetto di due anni, oltre il quale l'istituto non può trovare applicazione se non in favore di minorenni, di infra-diciottenni o di ultrasettantenni, in maggior favore dei quali il limite è stato innalzato a tre anni complessivi.

L'art. 164 c.p. dispone, poi, che il beneficio può concedersi solo nel caso in cui il Giudice, avuto riguardo ai generici, ma tassativi, criteri elencati all'art. 133 c.p. (gravità del reato: valutazione agli effetti della pena), possa esprimere una prognosi favorevole al condannato: possa cioè presumere che non commetterà più reati.

L'istituto, di indubbio favore per chi subisce la prima (e financo la seconda) condanna, ha istituito una sorta di seconda chance in favore di chi sembri dare assicurazione di immediato ravvedimento. E ciò al punto tale da divenire una sorta di clausola immancabile delle condanne a pena inferiore a quei limiti di legge che, di fatto, ne limitano l'applicabilità a chi si sia macchiato di eventi delittuosi di non particolare gravità, cui conseguono, secondo i criteri di cui all'art. 133 c.p., pene contenute.

Già l'espressione letterale che emerge dall'art. 164 c.p. rende assai ampio il margine di evidente discrezionalità che la norma riconosce al giudicante. Egli non è chiamato a trarre dai fatti elementi certi che dimostrino il difetto di ogni pericolo di reiterazione. Presumere significa, infatti, assumere prima di sapere per certo, supporre, congetturare.

Di non poco momento, per valutare quanto discrezionale sia il potere conferito ex lege al giudice, è la giurisprudenza prevalente (tra le molte Cass. pen., Sez.II, n. 37670/2015) secondo cui il giudice non ha obbligo alcuno di valutare tutti gli elementi richiamati nell'art. 133 c.p., potendo egli limitarsi a indicare in motivazione quelli che abbia ritenuto prevalenti in senso ostativo alla concessione della sospensione. A maggior ragione, quindi, deve ritenersi che il Giudice possa valutare, e ritenere prevalenti, solo alcuni tra i richiamati elementi utili a fondare una prognosi favorevole al condannato.

La genericità, astrattezza e indeterminatezza della previsione normativa, che certo rispondono all'esigenza che la legge penale sia applicabile a un numero indeterminato di casi, aprono però le porte all'arbitrio, involontario ma inevitabile, in cui il giudice, emessa sentenza di condanna, dovrà necessariamente ricorrere usando dei propri, personalissimi criteri di scelta per decidere se, e per quali motivi, concedere la sospensione della pena. Così, a fatti di reato della stessa specie e intensità, potranno corrispondere pene sospese e pene esecutive; fosse anche solo sulla scorta di spinte di politica giudiziaria che individuino, in zone determinate, una maggiore diffusione e quindi una maggiore pericolosità di certi fatti rispetto ad altre zone.

La discrezionalità, mirata a soddisfare finalità special-preventive, è sottolineata dall'incensurabilità in sede di legittimità della sentenza, se congruamente motivata, che si limiti a dare semplicemente atto del criterio utilizzato per la scelta, in un percorso scevro da vizi logici (Cass. pen., Sez.VI, 16017/2013).

Perfino la contraddittorietà del testo normativo sembra poter alimentare confusioni e, soprattutto, decisioni contrastanti. Sempre l'art. 164 dispone, infatti, che la sospensione non può concedersi a chi abbia già subito una precedente condanna per delitto; dettata la regola, però, ecco la sua eccezione: lo stesso articolo dispone che il beneficio può concedersi una seconda volta a chi sia già stato condannato per delitto, a patto che la durata complessiva delle due pene non superi i limiti di due o tre anni sopra indicati. Anche in questo caso, la norma non impone l'obbligo di concessione della seconda sospensione, ma si limita a conferire una facoltà discrezionalmente apprezzabile dal giudice. Anche in tal caso, dunque, è il giudice a stabilire se e perchè concedere o non concedere il beneficio. E ciò dovrà necessariamente fare adottando criteri che ciascun decidente ha ben chiari nella propria esperienza e nella propria logica; ma che spesso differiscono da ufficio a ufficio, quando non anche da giudice a giudice.

È l'inevitabile effetto dell'indispensabile discrezionalità in un sistema in cui la cristallizzazione del precetto normativo, o una sua previsione troppo particolareggiata, renderebbe immediatamente inapplicabile, o subito obsoleta, qualsiasi norma.

Tutto è affidato, quindi, alla libera valutazione del giudice, che è cosa parecchio diversa da quel libero convincimento che, fin quando non introdurremo l'algoritmo anche nell'amministrazione della giustizia, continuerà a governare trattazione ed esiti del procedimento penale, costituendo, con la motivazione, immancabile tutela dell'imputato e garanzia di imparzialità del giudicante.

La regola del libero convincimento, infatti, limitata solo dall'obbligo di motivare, autorizza il giudice a valutare i fatti esposti a dibattimento secondo un'ottica necessariamente personale, mediata, però, dalle regole ermeneutiche dell'art. 192 c.p.p. circa la valutazione della prova, degli indizi, delle dichiarazioni di imputati e coimputati; diversamente, la libera valutazione dei presupposti di una prognosi favorevole ex art. 164 c.p., pur sottoposta anch'essa a un obbligo motivazionale che non conosce eccezioni, appare ancorata a schemi più liberi, di natura special-preventiva, come il timore del condannato che una seconda condanna debba trovare esecuzione; criteri che il giudice applica, anche, secondo la valutazione -di competenza del legislatore- del vantaggio che può conseguirsi evitando di far eseguire una pena rispetto al vantaggio conseguibile con l'esecuzione.

Gli obblighi del condannato

Anche la normativa per la quale il giudice può subordinare la sospensione condizionale della pena all'adempimento di obblighi da parte del condannato è sostanzialmente ispirata a discrezionalità; quest'ultima, però, nell'evoluzione dell'istituto, è stata sempre più vincolata da novelle che si sono succedute per tentare di rendere effettivamente applicabile il principio ispiratore di prevenzione della sospensione stessa. La sua concessione massiccia, spesso motivata solo sull'incensuratezza del condannato, ha negli anni almeno in parte modificato la concezione che dell'istituto era stato valido fondamento: una finalità special-preventiva e rieducativa, da attuarsi tanto grazie all'effetto estintivo del reato di cui all'art. 167 c.p., quanto grazie alla prospettazione di una pena che, in caso di commissione di altri reati, non potrebbe più essere sospesa e dovrebbe quindi essere scontata. A ciò il Legislatore ha reagito, mostrando crescente sfiducia nella capacità del giudice di uniformarsi al principio che la sospensione va concessa ove ne siano verificati i presupposti, inserendo condizioni sempre più stringenti

Così, se da principio la norma in esame prevedeva una scelta discrezionale del giudice, finalizzata ad adeguare la risposta dell'ordinamento al fatto di reato, nell'ottica del recupero del condannato, già nel 1981, con la legge 689/1981 sulla depenalizzazione, si è introdotta la possibilità di subordinare la sospensione alla eliminazione delle conseguenze dannose e pericolose del reato e si è eliminata ogni possibilità di scelta discrezionale del giudice, il quale fu da allora tenuto a subordinare ad un adempimento la sospensione concessa all'imputato, giunto alla seconda condanna, purché non si trattasse di adempimento inesigibile.

Nel 2004, la legge n. 145/2004 eliminò l'inciso relativo all'inesigibilità dell'adempimento, introducendo però anche un qualche temperamento: l'alternativa, a scelta del condannato in condizioni economiche che non gli consentissero di procedere al risarcimento, di prestare attività non retribuita in favore della collettività, per un tempo non superiore alla durata della sospensione.

Nel 2015, la legge n. 69/2015 rese obbligatorio sottoporre a condizione la sospensione pronunciata a beneficio di pubblici ufficiali, condannati per reati contro la pubblica amministrazione; la norma imponeva il pagamento di “una somma equivalente al profitto del reato ovvero all'ammontare di quanto indebitamente percepito”. Essa è stata modificata dalla più recente legge n. 3/2019, “spazzacorrotti”, che impone oggi che l'adempimento imposto corrisponda al “prezzo o profitto del reato”, concetto di non semplice esemplificazione ma che, comunque, non corrisponde al risarcimento del danno da reato, mirando a riparare il danno criminale e non quello civile.

Con la conseguenza che, a esito di quei processi, il condannato potrà restare esposto al doppio adempimento.

Altra esclusione di facoltà discrezionali del giudice deriva dalla l. 36/2019 sulla legittima difesa, che ha reso doverosa la subordinazione della sospensione, eventualmente concedibile nel corpo di una condanna per furto in appartamento o furto con strappo, “al pagamento integrale dell'importo dovuto per risarcimento del danno alla persona offesa”.

Da ultimo, la l. 69/2019, denominata codice rosso, ha imposto di subordinare la sospensione della pena per maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale, atti persecutori ed altro alla partecipazione del condannato a specifici corsi di recupero, con onere a carico del condannato stesso.

Tutto quanto sopra rende chiaro il percorso evolutivo dell'istituto in commento, che da abituale abito delle sentenze di condanna a pene contenute nei limiti di legge, sta sempre più rivestendosi dell'originaria funzione special-preventiva e rieducativa.

Natura e limiti degli obblighi imposti. L'adempimento impossibile

Posto che a tutti gli obblighi in argomento è comunque riconosciuta una almeno concorrente funzione punitiva, per la quale essi soggiacciono alla riserva di legge, gli obblighi che il giudice può imporre sono solo quelli tassativamente previsti dalla legge.

Circa la loro natura, deve sostenersi che restituzione e risarcimento del danno attengono a una funzione civilistica e risarcitoria, imposta dal codice civile e dal codice penale (art. 185 c.p.) come conseguenza diretta del reato e, quindi, del danno civile. Tanto l'una quanto l'altro, dunque, dovrebbero poter essere imposte solo nel caso in cui vi sia stata azione civile e specifica domanda tesa alla loro liquidazione. Non mancano, tuttavia, decisioni di senso contrario, nelle quali viene sottolineato come il risarcimento adempia a una funzione latamente punitiva e sia, quindi, possibile elemento integratore della condanna. Cass. pen., Sez.II, n. 41376/2010 sostiene che anche l'obbligo di restituzione, imposto al condannato subordinando ad esso la sospensione condizionale, può integrare un diverso modo di essere della “eliminazione delle conseguenze dannose del reato, perseguibili in una prospettiva esclusivamente pubblicistica”.

L'imposizione dell'obbligo di eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato, invece, è funzionale al ristabilimento dello status quo ante, violato dal reato, e ha quindi la finalità di sanare il danno criminale, subito dall'ordinamento come conseguenza dell'azione illecita. Stessa cosa va detta per gli altri adempimenti obbligatori, previsti dalla legge e imposti dal giudice, cui è possibile che sia subordinata la sospensione condizionale della pena.

Anche in considerazione dell'oggettiva, enorme difficoltà di eliminare le conseguenze dannose di certi illeciti, come ad esempio accade per i reati in materia ambientale, appare opportuna una considerazione: nonostante l'impossibilità di adempiere l'obbligo imposto non sia più, dal 1989 come sopra abbiamo visto, argine della doverosità dell'adempimento e, quindi, rischi di apparire come fondamento di una automatica revoca della sospensione concessa e di reviviscenza della pena da eseguire, la condizione economica del condannato e le reali motivazioni per le quali l'adempimento imposto non sia stato osservato vanno comunque valutate dal giudice; dapprima in sede di imposizione e, poi, nell'eventuale corso del giudizio per la revoca della sospensione.

È, infatti, più che opportuno che condizioni e capacità del condannato siano valutate in sede di imposizione di obblighi cui la sospensione venga subordinata, perchè non si tratti di adempimenti che sia già evidente il condannato non potrà rispettare e non sia, quindi, rinunciata l'opzione special-preventiva, o condizionata la risposta dell'ordinamento al censo del condannato.

Già la Corte Costituzionale, con sentenza n. 49 del 6 marzo 1975, affermò che la valutazione discrezionale del giudice, tanto in sede di concessione di sospensione condizionale subordinata quanto nel successivo momento di verifica, deve estendersi alla condizione economica e patrimoniale del condannato; ciò rese non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 165 c.p., in relazione all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui una sospensione condizionale subordinata si prospettava potesse comportare discriminazione a carico del condannato in condizioni economiche disagiate, che non fosse in grado di adempiere all'obbligo risarcitorio.

Ben più di recente, secondo Cass. pen. Sez. III, n. 30402/2016, “l'inadempimento degli obblighi determina la revoca del beneficio, salvo i casi di impossibilità di adempiere dovuta a causa non imputabile al condannato…”.

Cass. pen., Sez.I, n. 58060/2017 ha disposto che “… il giudice deve procedere alla verifica dell'esigibilità della prestazione medesima, potendo, solo successivamente all'esito positivo della stessa, valutare il grado di collaborazione del condannato per soddisfare l'obbligo cui sia stato subordinato il beneficio”. Successivamente, Cass. pen., Sez.VI, n. 11371/2018, annullando parzialmente e senza rinvio in un caso in cui la disagiata condizione economica dell'imputato risultava già provata in atti, ha affermato che, in caso di sospensione subordinata al risarcimento del danno, il giudice “… pur non essendo tenuto a svolgere una preventivo accertamento delle condizioni economiche dell'imputato, deve tuttavia effettuare un motivato apprezzamento di esse”.

Decorrenza del termine per adempiere.

Il sesto comma dell'art. 165 c.p. dispone: «Il giudice nella sentenza stabilisce il termine entro il quale gli obblighi devono essere adempiuti».

Ciò assolve soprattutto a fini di semplificazione, sollevando il giudice, nell'eventuale procedimento per la revoca, dalla necessità di valutare la tempestività dell'adempimento o, addirittura, la perdurante pendenza del termine entro cui soddisfare gli obblighi imposti.

E dando al condannato obbligato e al beneficiario cognizione precisa del momento in cui l'adempimento potrà esser preteso.

Si tratta però di obbligo privo di sanzione, visto che non è prevista nullità in caso di sua omissione. La giurisprudenza, infatti, si è più volte, ma variamente, espressa circa la decorrenza dell'obbligo stesso nel caso in cui la sentenza di condanna non ne rechi indicazione, con ciò indirettamente confermando che nessuna nullità è prevista in casi del genere.

La varietà delle pronunce, però, dà atto di interpretazioni anche assai differenti tra loro.

Cass. pen., sez. IV, n. 4610/1988, ha ritenuto che, in discendenza dell'obbligo espresso nella norma, la sentenza contenga sempre e comunque un termine implicito e che il giudice abbia, quindi, il potere-dovere di colmare l'omissione con un provvedimento che, indicando una data, espliciti una situazione già virtualmente contenuta nella sentenza di condanna.

Cass. pen., Sez.I, n. 47862/2017 ha ritenuto che il termine, entro il quale il condannato deve provvedere all'obbligo risarcitorio che non sia stato indicato in sentenza, corrisponde con il passaggio in giudicato della stessa.

Cass. pen., Sez.V, n. 36154/2018, ha più compiutamente precisato che il termine entro il quale l'imputato deve provvedere all'adempimento dell'obbligo risarcitorio, qualora non sia stato fissato in sentenza, coincide con quello del passaggio in giudicato della stessa, trattandosi di obbligazione pecuniaria immediatamente esigibile.

Cass. pen., Sez.III, nn. 10581/2013 e 22658/2016, avevano invece stabilito che il termine in argomento andasse fissato, ove non indicato dal giudice, in novanta giorni dalla definitività della sentenza.

Cass. pen., Sez.I, nn. 42109/2013 e 24642/2015 avevano indicato che l'adempimento soddisfa l'obbligo imposto purchè intervenga durante la sospensione della pena.

Una ricca ridda di ipotesi, tutte adeguatamente motivate, che hanno contribuito a rendere incerta la definizione del problema. Unico dato comunemente rilevato dalla giurisprudenza di legittimità è la decorrenza iniziale del termine per adempiere: il passaggio in giudicato della sentenza. Un obbligo che decorresse da un momento precedente, infatti, determinerebbe un'indebita anticipazione degli effetti penali di una sentenza che, non ancora definitiva, riguarderebbe ancora un presunto innocente.

La soluzione data da Cass. pen., Sez. I, n. 10867/2020.

Nel caso in questione, la Suprema Corte è stata chiamata a dirimere la questione del termine per l'adempimento nel caso in cui esso non sia stato fissato dal giudice.

La sentenza di condanna conteneva anche una condanna al pagamento di una provvisionale, al cui adempimento veniva subordinata la sospensione condizionale della pena. Nessun termine risultava indicato in sentenza.

Il 15 aprile 2018 la sentenza divenne irrevocabile e il successivo 17 maggio la parte civile notificò precetto al condannato, intimandogli il pagamento della somma liquidata.

Sul rilievo che la somma non era stata pagata, il Pubblico Ministero sedente presso il giudice dell'esecuzione chiedeva quindi la revoca della sospensione condizionale per inadempimento della clausola di subordinazione.

Il giudice dell'esecuzione, evidentemente di diverso avviso, rigettava la domanda chiarendo che il termine per adempiere, ove non indicato in sentenza, va fissato in cinque anni dalla definitività della sentenza.

Il Procuratore della Repubblica, infine, proponeva ricorso alla Suprema Corte per l'annullamento dell'ordinanza denunciando violazione di legge ed esponendo che, in difetto di espressa indicazione in sentenza, il termine per adempiere l'obbligo, cui è subordinata la sospensione condizionale della pena, coincide con il passaggio in giudicato della sentenza.

La Suprema Corte ha fondato la propria decisione sulla disamina della giurisprudenza precedente, parte della quale ha sostenuto – dal 1982 e fino al 2019 – che la mancata indicazione di un termine produce una situazione di obbiettiva incertezza, che non deve pregiudicare i diritti del condannato, il quale può ben sentirsi autorizzato ad attendere fino all'ultimo momento utile per provvedere, fino allo spirare del termine di efficacia della sospensione condizionale, così come aveva indicato la 1° sezione penale della Corte con sentenza 24642/2015 in materia di esecuzione di lavori di pubblica utilità.

Con ciò, però, si finisce per confondere l'istituto regolato dall'art. 163 con quello regolato dal 165, la sospensione condizionale con la possibilità di subordinarla.

Il termine di cui all'art. 163 c.p. riguarda solo il periodo durante il quale vige un regime di osservazione del condannato, finalizzato a rendere definitiva la sospensione ed estinto il reato. Mentre, ben diversamente, il termine di cui all'art. 165 tende invece a rendere esigibile l'adempimento imposto, a favorire condotte riparatorie e risarcitorie lato sensu intese, tanto in funzione della prospettiva di risocializzazione, quanto del ristoro del danneggiato da reato.

Trasporre il termine di un istituto all'altro sarebbe, letteralmente, incongruo.

Rileva, invece, la Corte, che la natura delle prestazioni imposte e qui in argomento è eterogenea e che, pertanto, le soluzioni possono essere diverse con riguardo alle diverse fattispecie.

Se, in materia urbanistica, la giurisprudenza costante si è espressa nel senso di ritenere che il termine per adempiere alla demolizione di un manufatto abusivo, ove non indicato in sentenza, vada riconosciuto in quello di novanta giorni, ciò discende da quella disciplina, in cui l'art. 31 del d.P.R. 380/2001 in tema di ottemperanza all'ordinanza di demolizione di un manufatto edificato in totale difformità dispone, appunto, quello stesso termine in favore dell'ingiunto.

Diversamente, per quanto riguarda il pagamento di una somma di denaro a chi è stato offeso dal reato, o le restituzioni, o anche il risarcimento anche parziale di un danno, anche se non patrimoniale, il termine va indicato in quello derivante dalla legislazione civilistica in tema di adempimento delle obbligazioni pecuniarie; e poiché l'art. 1183 del codice civile dispone che, nel caso in cui non sia indicato un termine per l'esecuzione della prestazione obbligata, il creditore può esigerla immediatamente, altrettanto deve ritenersi per l'adempimento di un'obbligazione pecuniaria disposta in sentenza penale e non sottoposta a termini.

Dunque, ed in ciò la soluzione raggiunta dalla Suprema Corte, se l'adempimento cui è subordinata la sospensione condizionale della pena consiste in una obbligazione pecuniaria, immediatamente esigibile dal creditore secondo il codice civile, il termine per l'adempimento coincide con quello del passaggio in giudicato della sentenza.

Conclusioni

La sentenza analizzata individua in un unico momento – quello del passaggio in giudicato della sentenza di condanna – tanto la decorrenza quanto la scadenza del termine utile per adempiere all'obbligo cui la sospensione condizionale è subordinata.

La decorrenza non può avere inizio in un momento precedente perchè, come unanimemente argomentato dalla giurisprudenza di legittimità, non può certo imporsi al condannato di uniformarsi alla condanna prima ancora che essa entri in cosa giudicata. Fino a quel momento, infatti, l'imputato è un presunto innocente e, con esclusione delle eventuali provvisionali liquidate nei limiti della prova raggiunta, il portato della sentenza non può essergli imposto.

In quella medesima data scade anche il termine finale per l'adempimento dell'obbligazione pecuniaria cui la sospensione sia stata subordinata; ciò in quanto non è possibile individuare un valido motivo per ancorare la scadenza in parola ad altro termine, stante la sopra indicata vigenza della norma civilistica che impone di considerare immediatamente esigibile una prestazione pecuniaria non assoggettata a termine sospensivo. L'adempimento, dunque, può esser preteso da quel momento anche dall'autorità giudiziaria quale prova di ravvedimento e assoggettamento alla condizione che rende esecutiva la sospensione condizionale della pena e richiedibile la dichiarazione di estinzione del reato.

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