L'art. 191 c.p.p. non ostacola il prelievo del DNA per violazione della privacy

Ferdinando Brizzi
08 Giugno 2020

La categoria della inutilizzabilità della prova ex art. 191 c.p.p. – posta a tutela del diritto di difesa dell'imputato: cfr. artt. 193, commi 3 e 7, 197-bis, comma 5, artt. 203, 240, 270, 271, 350, comma 6 e 7, c.p.p. – non è contemplata nell'ordinamento processuale civile, non venendo in rilievo, nei giudizi in cui si controverte di diritti aventi fonte in rapporti di diritto privato...
Massima

La categoria della inutilizzabilità della prova ex art. 191 c.p.p. – posta a tutela del diritto di difesa dell'imputato: cfr. artt. 193, commi 3 e 7, 197-bis, comma 5, artt. 203, 240, 270, 271, 350, comma 6 e 7, c.p.p. – non è contemplata nell'ordinamento processuale civile, non venendo in rilievo, nei giudizi in cui si controverte di diritti aventi fonte in rapporti di diritto privato, le medesime esigenze di garanzia richieste invece dal giudizio penale – cui provvede l'art. 238, comma 1, c.p.p. –, tenuto conto della diversa rilevanza degli interessi che vengono in questione nel giudizio penale (status libertatis) ed in quello civile, nel quale il Giudice non incontra i limiti della "tipicità" del mezzo probatorio.

Il caso

Il principio di diritto sopra enunciato è stato affermato nell'ambito di un procedimento civile in cui la Corte territoriale aveva confermato la decisione di primo grado di accoglimento di una domanda di accertamento dello status di figlio naturale.

Nel caso specifico, il CTU aveva acquisito dei campioni biologici conservati presso due nosocomi al fine di analizzarli: da tale esame era risultata una compatibilità al 99,99%.

Ma la difesa del padre naturale, in chiave contestativa della filiazione, insorgeva contro tale acquisizione non solo perché non autorizzata dal diretto interessato sottoposto ad accertamento giudiziale, ma anche perché – affermava – i dati sanitari non potrebbero essere conservati.

La questione

Una volta deceduto il padre naturale, l'erede soccombente ricorreva in Cassazione per portare avanti l'azione già intrapresa dal genitore, sollevando diversi motivi di doglianza, tra i quali uno merita particolare attenzione.

Si tratta del terzo motivo, con cui si contestava la violazione e la falsa applicazione della normativa interna e comunitaria in materia di privacy, in quanto i dati personali sulla base dei quali è stata redatta la Ctu non possono in realtà utilizzarsi nel processo civile, quando, come nel caso di specie, vengono rilasciati "illecitamente" dalle strutture ospedaliere che li detengono, in palese violazione dell'art. 191 c.p.p, che vieta l'utilizzo di prove acquisite in modo illegittimo.

La questione è assai rilevante in quanto, come si vedrà (v., infra Osservazioni) anche la Cassazione penale ha più volte affrontato il tema del rilievo della normativa privacy rispetto al prelievo di materiali biologici a fini processuali. Tuttavia, la Cassazione civile non si è limitata ad affermare frettolosamente la subvalenza di tale normativa rispetto alle esigenza di giustizia, ma si è confrontata con tale materia anche alla luce della riforma introdotta dal GDPR, individuandone le pertinenti motivazioni giuridiche.

Le soluzioni giuridiche

Per giungere all'affermazione della massima di cui in premessa, il Supremo collegio ha proceduto ad una ricognizione del regime di utilizzabilità della prova nel processo civile, con particolare riferimento a quella acquisita dal procedimento penale.

In sede civile le prove atipiche sono comunque utilizzabili, salvo che il mezzo di prova costituisca ex se – per il suo modo di essere – lesione di un diritto fondamentale della persona. La loro rilevanza dipende esclusivamente dalla maggiore o minore efficacia probatoria ad esse riconosciuta dal Giudice di merito, non sussistendo – né potendo essere censurato in cassazione – alcun vizio invalidante la formazione della prova atipica per essere stata questa assunta nel diverso processo in violazione di regole a quello esclusivamente applicabili. E ciò neppure se tale vizio integri un difetto della garanzia del contraddittorio: nel processo civile il contraddittorio sulla prova viene assicurato dalle forme e modalità "tipizzate" di introduzione della stessa nel giudizio, che trovano disciplina nella fase istruttoria del processo volta ad assicurare la discussione in contraddittorio delle parti sulla efficacia dimostrativa del mezzo atipico in ordine al fatto da provare (cfr. Cass. civ,Sez.III, n. 11555/2013; Cass. civ, Sez. I, Sentenza n. 17392 del 01/09/2015; Cass. civ, Sez.II, n. 1593/2017, con specifico riferimento al verbale di "sommarie informazioni testimoniali").

Tanto premesso, esclusa – in via di principio – un'applicazione diretta o analogica della norma processuale penale al giudizio civile, la censura attiene all'invalido svolgimento della CTU in quanto fondata su elementi probatori (vetrini con campioni biologici del padre naturale conservati presso i nosocomi ove era stato ricoverato) che il ricorrente assumeva essere stati illecitamente acquisiti, in violazione delle norme del d.lgs. 196/2003.

I giudici di legittimità hanno ritenuto corretto il rilievo formulato dal ricorrente in ordine all'erroneità della statuizione della sentenza di appello volta ad affermare l'irrilevanza della censura prospettata, “in mancanza di una espressa previsione normativa che vieti l'impiego nell'ambito processuale di raccolta di materiale in modo illecito”. È stato osservato, al proposito, come la violazione delle prescrizioni dettate dalla legge per “la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati”(cfr. art. 4, comma 1, lett. a, d.lgs. 196/2003, nel testo applicabile ratione temporis, successivamente abrogato dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101 e riformulato dall'art. 4, paragr. 1, n. 1, del regolamento UE 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, che individua ora tra le predette operazioni “la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l'adattamento o la modifica, l'estrazione, la consultazione, l'uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l'interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione”) viene a tradursi nell'illecita acquisizione e disponibilità, ai fini probatori, di informazioni identificative della qualità di una persona fisica che costituiscono oggetto del "diritto assoluto alla protezione dei dati personali", ricompreso tra le “libertà fondamentali della persona” (spettando a chiunque: artt. 1 e 2 d.lgs. 196/2003; art. 1 reg. UE).

L'interessato è titolare di un diritto personalissimo che gli consente non solo di opporsi al trattamento dei dati per motivi legittimi, ma finanche di ottenere la eliminazione definitiva del dato (pur se regolarmente trattato), stante il divieto espresso posto dalla legge alla utilizzabilità di “dati personali trattati in violazione della disciplina” (art. 11, comma 2, d.lgs. 196/2003), con la conseguenza che viene in questione, allora, non la violazione della norma processuale sull'acquisizione della prova, ma "a monte" la condotta illecita per violazione del divieto prescritto dalla norma di diritto sostanziale, venendo a coincidere la vittima dell'illecito civile, che ha subito la lesione del “jus arcendi” sulla informazione identificativa, con la stessa parte processuale contro la quale tale informazione viene fatta valere quale fonte di prova, non potendo quindi trasformarsi in lecita, attraverso le rituali forme di assunzione delle prove nel processo, la condotta illecita relativa alla divulgazione e comunicazione del dato che non poteva essere acquisito o raccolto, atteso che l'utilizzo probatorio del dato integrerebbe proprio quel pregiudizio che la norma di divieto intende impedire a tutela del diritto dello stesso soggetto cui la legge intende apprestare la protezione.

Il principio che stabilisce l'estraneità dalle fonti di prova, anche atipiche, di quelle acquisite con modalità tali da ledere le libertà fondamentali e costituzionalmente garantite, quali la libertà personale, il diritto alla segretezza della corrispondenza, la inviolabilità del domicilio, è stato ripetutamente affermato in diverse sentenze (cfr. Cass. civ., Sez. V, n. 20253/2005, con riferimento, nel giudizio tributario, alle prove acquisite nel corso di una perquisizione domiciliare illegittima, in quanto eseguita in assenza di preventiva autorizzazione del P.M.; Cass. civ., Sez. Unite, n. 3271/2013; Cass. civ., Sez. I, n. 1948/2016; Cass. civ., Sez. lavoro, n. 10017/2016; Cass. civ., Sez. Unite, n. 14552/2017, che affermano tutte l'utilizzabilità, nel procedimento disciplinare, di intercettazioni telefoniche e ambientali, disposte in un diverso procedimento penale, "purché siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali, non ostandovi i limiti previsti dall'art. 270 c.p.p., riferibili al solo procedimento penale"; Cass. civ., Sez. V, n. 2916/2013 che ritiene legittima la utilizzabilità nel giudizio tributario di sommarie informazioni testimoniali ed intercettazioni telefoniche, acquisite nel corso di indagini penali, qualora le modalità di formazione della prova non abbiano determinato lesioni dell'art. 15 e 24 Cost.), dovendo pertanto distinguersi le ipotesi in cui le norme processuali violate, preordinate alle modalità di acquisizione probatoria, abbiano determinato una lesione dei diritti costituzionalmente tutelati del soggetto contro cui la prova s'intende far valere, da quelle in cui non si verifica tale lesione, essendo diretta la norma violata a tutelare un bene diverso non riferibile direttamente alla sfera giuridica dell'interessato (cfr. Cass. civ., Sez. Unite, n. 3727/2016; Cass. civ., Sez. II, n. 28905/2018, con riferimento all'utilizzo probatorio di atti coperti dal segreto istruttorio ed acquisiti in violazione dei limiti imposti dal segreto, in quanto dettati dall'art. 329 c.p.p., non a tutela del "diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti nelle indagini penali, ma delle indagini stesse).

Dunque è stata ritenuta errata l'affermazione della Corte d'appello secondo cui, in assenza di norme espressamente limitative dell'utilizzo, nel giudizio civile, di prove acquisite illecitamente, si ricaverebbe il principio di una generale ammissione di tali fonti di prova: al contrario, i giudici di legittimità hanno affermato il principio secondo cui rimane precluso l'accesso a quelle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione di interessi costituzionalmente tutelati riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata.

Dopo aver in tal modo corretto, in diritto, la motivazione della sentenza, ha osservato il Collegio di legittimità che la pronuncia della Corte di appello secondo cui, nel caso di specie, è difettata del tutto qualsiasi violazione delle norme del d.lgs. 196/2003, deve essere ritenuta esente da censura.

E infatti è la stessa legge conformativa del diritto che ne definisce i limiti, attribuendo prevalenza, rispetto al “jus arcendi” dell'interessato, al trattamento dei dati personali qualora “effettuato per ragioni di giustizia”. Tali devono intendersi “i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e di controversie” (art. 47 d.lgs. 196/2003, nel testo anteriore all'abrogazione disposta con il d.lgs. n. 101/2018). Il regolamento UE n. 679/2016, art. 9, paragr. 1 e 2, lett. f), prevede che il divieto espresso di “trattare dati personali che rivelino l'origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l'appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all'orientamento sessuale della persona”non si applica nei casi in cui il trattamento si renda necessario “per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali”. Analogamente, il potere del soggetto interessato di opporsi al trattamento, cancellare i dati o limitare il trattamento dei dati a taluni utilizzi soltanto, incontra il limite dell'accertamento, dell'esercizio o della difesa di un diritto in sede giudiziaria: art. 18, paragr. 2, art. 17, paragr. 3, lett. e), art. 21, paragr. 1, regolamento UE n. 679/2016. Ed ulteriori limitazioni alle disposizioni della legge possono essere apportate dagli Stati membri nel caso in cui, fatta salva la essenza dei diritti e delle libertà fondamentali, debbano essere adottate “misure necessarie e proporzionate”al fine di salvaguardare “la tutela dell'interessato o dei diritti e delle libertà altrui”od ancora "l'esecuzione delle azioni civili" ( art. 23, paragr. 1, lett. i) e j), reg. UE cit.).

La Corte d'appello si è, dunque, conformata al principio già enunciato da Cass. civ. Sez. Unite, sentenza n. 3034/2011 secondo cui, in tema di protezione dei dati personali, non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale, giacché detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi degli artt. 7, 24 e 46- 47 del d.lgs. 193/2003 (cd. codice della privacy), quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell'ambito di un processo; in esso, infatti, la titolarità del trattamento spetta all'autorità giudiziaria e in tal sede vanno composte le diverse esigenze, rispettivamente, di tutela della riservatezza e di corretta esecuzione del processo, per cui, se non coincidenti, è il codice di rito a regolare le modalità di svolgimento in giudizio del diritto di difesa e dunque, con le sue forme, a prevalere in quanto contenente disposizioni speciali e, benché anteriori, non suscettibili di alcuna integrazione su quelle del predetto codice della privacy.

L'assunto difensivo, secondo cui il CTU non avrebbe potuto acquisire presso le Aziende ospedaliere i vetrini con i campioni biologici (relativi a “washing bronchiale” ed a “agoaspirato polmonare”) in quanto i "dati personali", alla data di cessazione del trattamento, avrebbero dovuto essere distrutti, e non potevano essere “ceduti”dalle strutture sanitarie, è stato ritenuto destituito totalmente di fondamento.

La disposizione invocata (art. 16 d.lgs. n. 196/2003) che, per quanto interessa nel caso di specie, prescrive “in caso di cessazione, per qualsiasi causa, di un trattamento, i dati sono: 1) distrutti” deve, infatti, essere integrata dalla lettura sistematica delle altre ipotesi previste dalla stessa norma del Codice della privacy (il dato può anche essere ceduto ad altro titolare per un trattamento conforme allo scopo per cui è stato raccolto, od anche conservato o ceduto ad altro titolare “per scopi storici, statistici o scientifici, in conformità alla legge, ai regolamenti alla normativa comunitaria ed ai codici di deontologia... ”), nonché dalle altre regole dettate per i soggetti pubblici non economici, per i quali il trattamento dei dati anche sensibili, rectius “particolari”, è consentito “soltanto per lo svolgimento delle funzioni istituzionali”(art. 18, comma 3, d.lgs. 196/2003).

Assume a tal fine particolare rilievo la disposizione dell'art. 22, comma 5, seconda parte, del d.lgs. 196/2003 che demanda ai soggetti pubblici di valutare specificamente il rapporto di indispensabilità tra i dati e la realizzazione degli obblighi e dei compiti ad essi assegnati, disponendo che "i dati che, anche a seguito delle verifiche, risultano eccedenti o non pertinenti o non indispensabili non possono essere utilizzati, salvo che per l'eventuale conservazione, a norma di legge, dell'atto o del documento che li contiene".

Dal complesso normativo sopra indicato emerge che anche la “conservazione” del dato personale (tale dovendo configurarsi anche il vetrino contenente il campione biologico in quanto risulti corredato da indicazioni atte alla identificazione del soggetto cui appartiene) rientra nelle operazioni di trattamento e può, quindi, trovare giustificazione rispetto alle finalità istituzionali dell'ente pubblico, laddove queste prevedano, appunto, forme obbligatorie ex lege di archiviazione dei dati in funzione del perseguimento di interessi pubblici prevalenti, quali – ad esempio – l'impiego giudiziario del campione biologico, ovvero qualora la conservazione venga effettuata per fini scientifici o statistici.

Ne segue che un automatico obbligo di distruzione del dato non è configurabile in capo al titolare del trattamento laddove il termine della conservazione sia correlato alle predette finalità istituzionali, come nel caso in esame in cui il cd. “materiale di archivio campionato” (blocchetti in paraffina e vetrini) venga a costituire oggetto di specifico obbligo, imposto alle Aziende ospedaliere, relativo alla conservazione dei referti e delle cartelle cliniche (cfr. Linee guida sulla “tracciabilità, raccolta, trasporto, conservazione e archiviazione di cellule e tessuti per indagini diagnostiche di anatomia patologica” elaborate dal Ministero della Salute Consiglio Superiore di Sanità - maggio 2015) e sia previsto uno specifico obbligo di legge alla conservazione per dieci anni dei campioni biologici riferibili a pazienti deceduti (cfr. art. 3, comma 1, lett. h), della legge 30 marzo 2001, n. 130 che, fissando i principi direttivi da attuare nella modifica del regolamento di polizia mortuaria, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 settembre 1990, n. 285, prescrive l'"obbligo per il medico necroscopo di raccogliere dal cadavere, e conservare per un periodo minimo di dieci anni, campioni di liquidi biologici ed annessi cutanei, a prescindere dalla pratica funeraria prescelta, per eventuali indagini per causa di giustizia").

L'ipotesi di una "distruzione" automatica dei dati personali al momento della dimissione del paziente o al decesso di questo, trova quindi espresso limite nella stessa legge di protezione dei dati personali, laddove la "conservazione" del dato risulti funzionale all'accesso alla giustizia, come emerge chiaramente anche dalla disciplina introdotta dal regolamento UE n. 679/2016 che limita “il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo”(art. 17 reg. UE), "nella misura in cui il trattamento sia necessario.....e) per l'accertamento, l'esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria", e che reciprocamente limita l'obbligo del titolare del trattamento di procedere immediatamente, ove non più necessari, alla eliminazione dei dati personali, rimettendo all'interessato il potere di richiedere la prosecuzione del trattamento, nella forma della conservazione, quando i dati risultino indispensabili allo stesso interessato “per l'accertamento, l'esercizio la difesa di un diritto in sede giudiziaria” (art. 18, paragr. 1, lett. c), reg. UE cit.).

Se è dunque da ritenere lecita la "conservazione" dei vetrini da parte delle strutture ospedaliere, risulta del tutto infondata anche l'asserita violazione del divieto di "cessione" dei dati personali concernenti il padre naturale, atteso che, a fronte della richiesta dell'ausiliario nominato dal Giudice, formulata in conformità ai compiti ed alle attività a quello demandate, la consegna dei vetrini da parte delle Aziende ospedaliere costituiva atto di adempimento alle prescrizioni del provvedimento giudiziario di conferimento dell'incarico, con il quale il CTU veniva autorizzato anche ad acquisire "informazioni" presso terzi ex art. 194 c.p.c.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione, benché promanante da una Sezione civile, consente di svolgere un duplice ordine di considerazioni: non solo il processo civile conosce la cd. prova atipica, e, in questa sede, tale è considerata la prova biologica, ma anche il processo penale che, viceversa, ne ha tipizzato l'assunzione.

Sotto il primo profilo, l'art. 189 c.p.p. ha introdotto nel sistema processuale penale le prove non previste dalla legge, anche definite innominate o atipiche, individuandone i necessari presupposti sostanziali e processuali.

In tal modo, il legislatore ha escluso di fare ricorso, almeno in termini integrali, al principio di tassatività della prova, disponendo, tuttavia, la previsione di ben specifiche cautele il cui rispetto è ritenuto indispensabile al fine di poter applicare prove diverse da quelle espressamente tipizzate nel codice.

Le prove innominate o atipiche, di cui all'art. 189, sono distinte dalle prove “irrituali”, che sono prove tipiche che, tuttavia, vengono assunte senza il rispetto delle formalità previste dalla disposizione normativa di riferimento.

Mentre in dottrina si sostiene che la ratio della norma è quella di consentire di utilizzare tecniche o strumenti che possano risultare idonei a consentire l'accertamento di fatti e che, invece, erano inesistenti, o addirittura inimmaginabili, nel momento in cui il legislatore ha catalogato una tantum le varie prove tipiche, la giurisprudenza tende ad escludere la possibilità di inquadrare nell'alveo della prova atipica le risultanze probatorie frutto di tecniche scientifiche innovative, soprattutto qualora non si basino su leggi scientifiche nuove od autonome, bensì sull'applicazione di quelle proprie di altre scienze (Cass. pen., Sez. I, 21 maggio 2008, in CP, 2009, 1840, con nota di Caprioli, che riconduce al genus della perizia la "Blood Pattern Analysis").

I due presupposti sostanziali richiesti per l'applicazione di una prova non disciplinata dalla legge sono costituiti dall'idoneità della stessa ad assicurare l'accertamento dei fatti e dal rispetto della libertà morale della persona.

Perché, in primo luogo, una prova risulti idonea ad accertare i fatti, deve essere effettuato uno scrutinio ex ante in ordine all'efficacia del risultato probatorio conseguibile, che non è altrimenti necessario con riguardo alle prove tipiche, in cui tale vaglio è stato compiuto, una volta per tutte, da parte del legislatore.

Il presupposto della necessità di non pregiudicare la libertà morale della persona ribadisce, di fatto, il principio generale stabilito dall'art. 188 c.p.p., che punisce metodi e tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e valutare i fatti.

Le prove atipiche sono, quindi, sempre inutilizzabili allorché siano il frutto di un comportamento illecito, salva sempre la possibilità di acquisire al processo, come prove documentali, dei risultati di attività illecite non destinate sin dall'origine al processo stesso (Cass. pen., Sez.Unite., n. 26795/2006).

Dunque, le prove atipiche, nel processo penale, soggiacciono a principi pressoché identici a quelli enunciati nel processo civile.

Tuttavia, in sede penale, a differenza di quella civile, il prelievo di materiali biologici a fini processuali è stato, invece, tipizzato all'art. 224-bis del codice di rito, Provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, introdotta con la l. 30 giugno 2009, n. 85, che mira a disciplinare i prelievi e gli accertamenti medici coattivi, che si rendano indispensabili nel corso della perizia, allorché la persona da sottoporre a perizia non presti il consenso all'espletamento delle operazioni.

Lo spartiacque fondamentale in materia di prelievo di materiali biologici a fini processuali, è rappresentato dalla prestazione del consenso da parte della persona sottoposta ad esame invasivo in presenza del quale, salvo il limite di cui all' art. 5 c.c. (Atti di disposizione del proprio corpo, non consentibili se comportanti una diminuzione permanente dell'integrità fisica o psichica o se ledano la dignità) gli accertamenti peritali possono svolgersi senza particolari formalità.

Il legislatore, preoccupato di prevedere in ogni dettaglio l'ambito di operatività del prelievo coattivo, ha trascurato la disciplina delle operazioni in caso di prestazione del consenso, attribuendo allo stesso l'idoneità a superare ogni rilievo eccepibile. Infatti, quando la persona vi acconsenta, risulta del tutto superfluo il provvedimento del giudice. Come osservato dalla Cassazione, in tema di perizia o di accertamenti tecnici irripetibili sul DNA, al prelievo genetico (nella specie, di un campione di saliva) effettuato con il consenso dell'indagato non è applicabile la procedura garantita prevista dal combinato disposto degli artt. 224-bis, 349 e 359-bis e c.p.p. neppure vi è necessità dell'assistenza di un difensore (Cass. pen.,Sez. V, n. 12800/2017).

La l. 30 giugno 2009, n. 85, peraltro, segue le linee guida tracciate dalla Corte costituzionale, con la dichiarazione di illegittimità dell'art. 224, comma 2,c.p.p. nella parte in cui consentiva al giudice di ordinare coattivamente la sottoposizione dell'indagato o di terzi allo svolgimento di attività peritali, idonee ad incidere sulla libertà personale del periziando, senza prevederne i casi e i modi (Cortecost. 9 luglio 1996, n. 238, in DPP, 1996, 1091). In tale sentenza, infatti, la Consulta, nel contemperamento dell'interesse alla repressione dei reati con il diritto alla vita, all'integrità fisica ed alla salute della persona sottoposta a perizia, richiedeva una determinazione tassativa dei presupposti e delle modalità per disporre trattamenti coattivi.

Un primo limite oggettivo all'esecuzione coattiva degli accertamenti è dato dalla tipologia dei reati: la perizia coattiva è consentita per i delitti dolosi o preterintenzionali, consumati o tentati, per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni e negli altri casi espressamente stabiliti dalla legge.

La norma pone, poi, un presupposto di natura processuale: la perizia coattiva deve essere assolutamente indispensabile per la prova dei fatti, requisito la cui sussistenza deve necessariamente essere contemplata nella motivazione dell'ordinanza dispositiva (comma 2, lett. c): tra le indicazioni che l'ordinanza deve contenere, a pena di nullità, vi è, per l'appunto, la «indicazione specifica del prelievo o dell'accertamento da effettuare e delle ragioni che lo rendono assolutamente indispensabile per la prova dei fatti»).

Il primo comma, inoltre, indica le attività che possono essere compiute, nel novero degli «atti idonei ad incidere sulla libertà personale», indicando a titolo esemplificativo, ma evidentemente non esaustivo, il «prelievo di capelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici».

Sussistendo i presupposti oggettivi e probatori analizzati, e difettando il consenso della persona da sottoporre all'esame del perito, il giudice, anche d'ufficio, dispone l'esecuzione coattiva con ordinanza motivata, che deve contenere, a pena di nullità, le indicazioni riportate nel secondo comma, lett. a) – f).

Tutte le operazioni ex art. 224-bis, comma 4, c.p.p. non possono, comunque, contrastare con espressi divieti posti dalla legge; «mettere in pericolo la vita, l'integrità fisica o la salute della persona o del nascituro»; né provocare «sofferenze di non lieve entità», secondo la scienza.

Ai sensi del comma 5, infine, le operazioni devono essere comunque eseguite «nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto» e, «a parità di risultato, sono prescelte le forme meno invasive».

La procedura sopra descritta non deve essere seguita, e non si applicano le suddette sanzioni: in caso di attività di raccolta di tracce biologiche riferibili all'indagato eseguita dalla polizia giudiziaria senza ricorrere ad alcun prelievo coattivo, ancorché posta in essere all'insaputa dello stesso (Cass. pen., Sez. I, 20 novembre 2013, Costantino, in Gdir, 2014, 6, 83); quando si proceda ad accertamento sull'identità̀ dell'indagato compiuto mediante ricorso ai dati relativi al DNA contenuti in un archivio informatico che si trovi presso la Polizia giudiziaria, finanche in violazione dalle cautele previste dal codice sulla privacy (Cass. pen., Sez. II, 21 settembre 2017, n. 43433).

Il prelievo del DNA della persona indagata, attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici alla stessa attribuibili, non é qualificabile quale atto invasivo o costrittivo, e, essendo prodromico all'effettuazione di accertamenti tecnici, non richiede l'osservanza delle garanzie difensive, che devono, invece, essere garantite nelle successive operazioni di comparazione del consulente tecnico (Cass. pen., Sez. II, n. 2087/2012).

Allo stesso modo, non è inutilizzabile, in mancanza della violazione di un divieto di legge, l'accertamento sulla identità dell'indagato compiuto mediante ricorso ai dati relativi al DNA contenuti in un archivio informatico che la Polizia giudiziaria abbia istituito prescindendo dalle cautele previste dal codice sulla privacy (Cass. pen., Sez. V, n. 4430/2007).

La S.C. ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 13, 15, 24, 30 e 32 Cost. – del combinato disposto degli artt. 269 c.c. e artt. 116 e 118 c.p.c., ove interpretato nel senso della possibilità di dedurre argomenti di prova dal rifiuto del preteso padre di sottoporsi a prelievi ematici al fine dell'espletamento dell'esame del DNA. E' stato a riguardo evidenziato che, difatti, dall'art. 269 c.c. non deriva una restrizione della libertà personale, avendo il soggetto piena facoltà di determinazione in merito all'assoggettamento o meno ai prelievi, mentre il trarre argomenti di prova dai comportamenti della parte costituisce applicazione del principio della libera valutazione della prova da parte del giudice, senza che ne resti pregiudicato il diritto di difesa, e, inoltre, il rifiuto aprioristico della parte di sottoporsi ai prelievi non può ritenersi giustificato nemmeno con esigenze di tutela della riservatezza, tenuto conto sia del fatto che l'uso dei dati nell'ambito del giudizio non può che essere rivolto a fini di giustizia, sia del fatto che il sanitario chiamato dal giudice a compiere l'accertamento è tenuto tanto al segreto professionale che al rispetto della l. 31 dicembre 1996, n. 675 (Cass. pen., n. 14458/2018).

Infine, è stata di recente esclusa, in mancanza di violazione di legge, l'inutilizzabilità dei profili del DNA tipizzati da reperti biologici acquisiti nel corso di procedimenti penali per la mancata trasmissione del nulla osta del pubblico ministero di cui all'art. 10 della legge 85/2009, atteso che esso attiene solo alla modalità di trasmissione alla banca dati nazionale del DNA per la raccolta ed i confronti, e dunque ad un adempimento meramente formale attinente alla trasmissione di un risultato legittimamente acquisito (Cass. pen., II, n. 11622/2020).

Pare potersi affermare che, indipendentemente dalla qualificazione in termini di tipicità, o meno, della prova biologica, i principi affermati tanto dalla Cassazione civile che da quella penale sono accomunati da una sostanziale “comunità di intenti e di principi”.

La sentenza in commento, per altro, dimostra che non esiste una subvalenza delle esigenze di tutela della riservatezza rispetto all'attività processuale, quanto piuttosto che l'utilizzo dei dati personali in tale ambito viene appositamente garantito dalla stessa normativa privacy. Sebbene gli artt. 16, 18 e 22 del d.lgs. 196/2003, citati dalla Cassazione civile, siano stati abrogati, alle medesime considerazioni si può giungere alla luce del nuovo art. 2-sexies (Trattamento di categorie particolari di dati personali necessario per motivi di interesse pubblico rilevante), introdotto dal d.lgs. 101/2018, che considera rilevante l'interesse pubblico relativo a trattamenti effettuati da soggetti che svolgono compiti di interesse pubblico o connessi all'esercizio di pubblici poteri, tra gli altri, in caso di attività sanzionatorie e di tutela in sede amministrativa o giudiziaria. Il medesimo d.lgs. 101/2018 ha poi provveduto a sostituire l'art 99 del d.lgs. n. 196/2003 (Durata del trattamento) che, nella nuova formulazione, viene a prevedere che il trattamento di dati personali a fini di archiviazione nel pubblico interesse, può essere effettuato anche oltre il periodo di tempo necessario per conseguire i diversi scopi per i quali i dati sono stati in precedenza raccolti o trattati. Inoltre, a fini di archiviazione nel pubblico interesse, possono comunque essere conservati o ceduti ad altro titolare i dati personali dei quali, per qualsiasi causa, è cessato il trattamento.

Sicché non pare opportuno parlare di violazione delle esigenze di tutela della riservatezza se i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell'ambito di un processo, in conformità alle pertinenti disposizioni normative.

Importante appare, però, la successiva precisazione operata dai giudici di legittimità: in questo caso, la titolarità del trattamento spetta all'autorità giudiziaria. Non si tratta di affermazione di poco momento sol ove si pensi a quanto disposto dal considerando (74) del GDPR: È opportuno stabilire la responsabilità generale del titolare del trattamento per qualsiasi trattamento di dati personali che quest'ultimo abbia effettuato direttamente o che altri abbiano effettuato per suo conto. In particolare, il titolare del trattamento dovrebbe essere tenuto a mettere in atto misure adeguate ed efficaci ed essere in grado di dimostrare la conformità delle attività di trattamento con il presente regolamento, compresa l'efficacia delle misure. Tali misure dovrebbero tener conto della natura, dell'ambito di applicazione, del contesto e delle finalità del trattamento, nonché del rischio per i diritti e le libertà delle persone fisiche.

Se, dunque, l'autorità giudiziaria è titolare del trattamento, le incombono tutte le relative responsabilità, e ciò non solo con riferimento al prelievo dei campioni biologici, ma più in generale in ogni caso di trattamento di dati personali sia in ambito civile che penale.

Ulteriori approfondimenti

Codice di procedura penale commentato, Giuffrè, Art. 189 Codice di Procedura Penale - Prove non disciplinate dalla legge, e bibliografia ivi richiamata

Codice di procedura penale commentato, Giuffrè, Art. 224 bis Codice di Procedura Penale - Provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale, e bibliografia ivi richiamata

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