Il danno da diffamazione e la responsabilità civile

Ilenia Alagna
11 Giugno 2020

La diffamazione attraverso il web, dato l'evidente carattere di diffusività delle notizie pubblicate tramite strumenti informatici, è qualificabile come diffamazione aggravata e, pertanto, qualsiasi immissione di contenuti di carattere diffamatorio che colpisca l'immagine e la reputazione di una persona è punita dal nostro ordinamento. La diffamazione consumata sui Social Network, mediante la condotta di postare un commento su Facebook, realizza la pubblicizzazione e la diffusione del post originario ad un numero elevato di soggetti sia perché tale piattaforma racchiude un numero apprezzabile di persone, sia perché l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità mediante le quali gruppi di soggetti raccontano le proprie esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per lo strumento utilizzato, si estende ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.
La diffamazione on line

La comunicazione globale, oggi accessibile alla maggioranza della popolazione grazie a una notevole diffusione delle nuove tecnologie, ha portato alla luce, insieme a evidenti vantaggi, anche alcune perplessità. A differenza dei media tradizionali, infatti, Internet ha aperto le frontiere dell'informazione a chiunque, rendendo in tal modo la circolazione delle notizie molto veloce e spesso, incontrollabile. Ci si domanda, da un lato, quale ruolo affidare all'informazione nell'era della comunicazione digitale e quali confini di liceità attribuirle. E, dall'altro, come impedire l'offesa all'altrui reputazione in un mondo in cui il principio della libertà di espressione ha un ruolo predominante.

Mediante i social network e il web in generale sono sempre più diffusi i reati che ledono e offendono l'altrui reputazione. In particolare, il reato di diffamazione ex art. 595 c.p., prevede che chiunque comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a 2.065 euro. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro.

Per la configurabilità del predetto reato, la Suprema Corte ha manifestato, nella propria giurisprudenza, la convinzione di poter includere nel riferimento a «qualsiasi altro mezzo di pubblicità» (come si legge nel comma 3 dell'art. 595 c.p.), anche gli strumenti telematici, qualificando pertanto come «aggravata» la diffamazione avvenuta tramite Internet.

La diffamazione attraverso il web, dunque, posto l'evidente carattere di diffusività delle notizie pubblicate tramite strumenti informatici, è qualificabile come diffamazione aggravata e, pertanto, qualsiasi immissione di contenuti di carattere diffamatorio che colpisca l'immagine e la reputazione di una persona è punita con la reclusione da sei mesi a tre anni o con la multa non inferiore a 516 euro.

Con la sentenza n. 396 del 2 ottobre 2017 i giudici di primo grado hanno stabilito che la pubblicazione di un post offensivo sul profilo Facebook di un utente integra il reato di diffamazione aggravata, in quanto l'utilizzo del social network consente di diffondere e rendere pubblica l'espressione denigratoria tra un gruppo di persone indeterminato. Tale provvedimento, deciso dal Tribunale di Campobasso, ha fatto proprio l'orientamento della Corte di cassazione del 2004 in tema di diffamazione il quale affermava che, mediante lo strumento del social network, «la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica».

Per quanto concerne l'accertamento del contenuto diffamatorio via Internet, valgono le stesse regole generali predisposte per la diffamazione a mezzo stampa e, tra queste, suscitano particolare interesse le scriminanti del diritto di cronaca, di critica e di satira, oltre al riferimento ai canoni della verità, della continenza e della pertinenza della notizia. Il diritto alla libertà d'espressione dev'essere, quindi, mitigato con altri diritti, anch'essi di rango costituzionale, quali quello all'onore e alla reputazione, nel rispetto dei parametri di correttezza dell'informazione dettati per la diffusione di notizie a mezzo stampa.

La diffamazione rientra nel novero dei “reati di evento” e si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa. Inoltre, come stabilito in una recente pronuncia della Corte di cassazione, n. 25420/2017, il post si considera diffamatorio anche quando non indica esplicitamente il nome della vittima ma è sufficiente che questa sia facilmente riconoscibile e individuabile dalla collettività. Tuttavia è fondamentale che la persona offesa sia precisa nelle accuse così come la frase offensiva, l'autore e gli estremi del profilo dal quale è avvenuta la pubblicazione.

Ai sensi della direttiva sul commercio elettronico dell'Unione europea 2000/31/CE (d.lgs. n. 70/2003), le società fornitrici di servizi di comunicazione elettronica (provider) non sono responsabili dei contenuti, offensivi e diffamatori, immessi sui loro server; questi, infatti, sono ritenuti meri soggetti passivi e neutrali. Non altrettanto i gestori dei siti, che devono prestare la massima attenzione per evitare di essere ritenuti responsabili. I portali traggono profitto anche dalla pluralità dei commenti, dovendo impedire che gli stessi, specie se anonimi, si moltiplichino ingiustificatamente.

Il prestatore dei servizi è civilmente responsabile del contenuto di questi nel caso in cui, su richiesta dall'autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l'accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l'accesso, non ha provveduto ad informarne l'Autorità competente.

Infine, pare opportuno citare la sentenza Cedu, Grande Camera 16 giugno 2015, Delfi AS c. Estonia, secondo la quale il quotidiano online può essere responsabile per i post offensivi inseriti dai lettori; le sanzioni pecuniarie comminate sono considerate di modesto importo rispetto ai commenti gravemente offensivi apparsi sulle sue pagine.

Il giudice competente

Come già evidenziato, la diffamazione online configura un'ipotesi di diffamazione aggravata. È utile, a tal proposito, capire davanti a quale giudice l'imputato si troverà a difendersi. In particolare, due sono le ipotesi che si prospettano:

- giudice territorialmente competente è quello del luogo ove è avvenuto il reato: in questa circostanza, il processo si celebrerebbe nel luogo ove si trovava il reo al momento del fatto, cioè quando ha posto in essere l'offesa, digitandola sul web o altro sistema elettronico;

- giudice territorialmente competente è quello del luogo ove si trovava la vittima nel momento in cui ha avuto percezione dell'offesa, cioè quando ha letto gli insulti a lui pubblicamente diretti.

La giurisprudenza oscilla tra i due orientamenti suddetti. A rigore, la tesi da accogliere sarebbe la seconda, in quanto il reato di diffamazione si intende consumato (cioè, perfezionato), solamente nel momento in cui la vittima ne ha percezione. Poiché, tuttavia, è difficile capire quando concretamente si realizza la lesione all'onore, la Corte di Cassazione preferisce adottare il criterio più sicuro del luogo ove il contenuto offensivo è stato caricato: prevale quindi in giurisprudenza la tesi che individua il giudice competente del reato di diffamazione online in quello del luogo in cui la condotta lesiva si è realizzata, ovvero il posto dove si trovava il colpevole al momento del fatto.

Il risarcimento del danno da diffamazione e la sua prova

Una recente pronuncia della Cassazione (Ordinanza n. 4543, del 15 febbraio 2019), ha stabilito che: “in tema di risarcimento del danno a causa di diffamazione a mezzo stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, la considerazione di circostanze oggetto di altri provvedimenti giudiziali (anche non costituenti cosa giudicata), l'apprezzamento, in concreto, delle espressioni usate come lesive dell'altrui reputazione, l'esclusione dell'esimente dell'esercizio del diritto di cronaca e di critica costituiscono accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità, se sorretti da adeguata motivazione, esente da vizi logici e da errori di diritto.”

Secondo il suddetto provvedimento, l'elemento cardine del processo di risarcimento rileva elementi che normativamente non risultano così specifici ed oggettivi ma rimessi alla libera valutazione del giudice di merito il quale, secondo il proprio convincimento (insindacabile), è tenuto ad “apprezzare”, in concreto, le espressioni usate come lesive dell'altrui reputazione, e a motivarlo.

In questo caso non vi è nulla di prescrittivo, essendo la qualificazione insindacabile (alla stregua delle valutazioni di merito). Quindi, se gli elementi per la qualifica della espressioni lesive sono insindacabili, meno insindacabili sono gli elementi che quantificano la misura della lesione, fino ad arrivare all'apprezzabile sforzo dell'Osservatorio sulla Giustizia civile di Milano che, nel 2018, oltre alle note Tabelle, ha pubblicato nuovi parametri riguardanti la quantificazione di voci di danno non patrimoniale come:

a) da premorienza prima che un danno venga risarcito e senza nesso causale con la ragione della morte;

b) terminale per lesioni mortale;

c) da diffamazione a mezzo stampa e con altri mezzi di comunicazione di massa;

d) ex art. 96 c.p.c. per responsabilità aggravata della parte in un giudizio.

L'Osservatorio ha ripartito in cinque categorie (tipologie) proporzionate su una scala (tenue, modesta, media, elevata, eccezionale) da modularsi sui già noti criteri della notorietà (già ampiamente trattata dalla Giurisprudenza). Così, ad esempio, per un soggetto non noto la quantificazione minima per la lesione di questo tipo potrà oscillare da € 1.000,00 a € 10.000,00). Le tabelle, create sulla base della diffamazione a mezzo stampa, sono coerenti con il tema del mezzo telematico.

Recentemente la Cassazione Sez.V, con l'ordinanza n. 20795/2018, ha contribuito alla definizione della quantificazione della lesione de qua. Nella stessa si denota l'elemento della sofferenza morale e dinamico relazionale, aspetti soggettivi di disagio personale che dovranno essere valutati distintamente. Palese il richiamo, da un lato, della nota pronuncia della Corte Costituzionale, sentenza n. 235/2014, unito alla recente modifica degli artt. 138 e 139 del codice delle assicurazioni. Quindi i primi due aspetti per la quantificazione sono legati da un lato all'aspetto interiore del danno patito (danno morale, vergogna, carenza di stima, depressione e disperazione ecc.) relazionato a quello stesso aspetto, ma destinato ad incidere sul dinamismo relazionale peggiorativo, e dall'altro su tutte le relazioni di vita esterne alla sfera intima e soggettiva (disagio, imbarazzo, goffaggine).

L'innovazione della predetta ordinanza consiste oltre alla misurazione standard prevista dalla legge o dal criterio equitativo tabellare sopra detto, dall'incremento (c.d. personalizzazione) in presenza di condizioni anomale ed eccezionali (innovazione relativa poiché anche nelle Tabelle, peraltro, si concepisce).

Il danno da diffamazione è un danno ingiusto ex art. 2043 c.c., non giustificato e non previsto dall'ordinamento e contra ius (lesivo di un interesse riconosciuto e tutelato). Tale danno deve essere provato dall'interessato che sostiene la lesione.

Nelle fattispecie diffamatorie le due categorie di danno possono così essere esaminate, anche alla luce della sentenza a Sezioni unite della Corte di Cassazione dell'11 novembre 2008, n. 26972: il danno patrimoniale esistente in concreto ma di difficile dimostrazione. Infatti, il danno emergente o il lucro cessante collegato alla diffusione della notizia diffamatoria, sfuggono alla semplice verifica. Questo si spiega poiché la diffamazione, tranne per esplicite ammissioni, non può essere certamente collegata alla perdita di una chance o alla vanificazione di una possibilità che si sarebbe avverata. Sicuramente è possibile, ma la casistica ci fa sostenere che ne è difficile la relativa prova.

Il danno non patrimoniale riguarda il danno alla persona ed il più riconosciuto è quello legato al turbamento, al disagio intesi, genericamente, come quelli legati alla sofferenza interiore patita ed eziologicamente legata alla notizia. La relativa prova si raggiunge con la dimostrazione dell'esistenza di un fatto potenzialmente lesivo e della sua effettiva ripercussione nociva nella vita del soggetto. La prima è legata al fatto e la seconda al suo risultato. Nella prima ci sarà la dimostrazione dell'avvenimento e nella seconda i suoi collegati effetti.

Certamente i progressi e l'evoluzione probatoria digitale contribuiranno alla dimostrazione di ogni elemento legato alla diffamazione. In questa analisi, è stato constatato come l'utilizzo del web e delle piattaforme on line abbiano ampliato di gran lunga i casi di diffamazione fino alla propagazione di espressioni d'odio riscontrabili, oramai, in ciascuno di tali piattaforme e o social network.

Diffamazione aggravata su Facebook: rischi estesi a chi commenta il post

Il Tribunale di Campobasso, con la Sentenza n. 396 del 2 ottobre 2017, ha stabilito che la pubblicazione di un post offensivo sul proprio profilo Facebook integra il reato di diffamazione aggravata, in quanto l'utilizzo del Social network consente di diffondere e rendere pubblica l'espressione denigratoria tra un gruppo di persone indeterminato. La sentenza de qua ha richiamato l'orientamento della Corte di Cassazione del 2004, in tema di diffamazione mediante lo strumento del social network, secondo la quale “la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica”.

Il Tribunale abruzzese ha ritenuto responsabili per diffamazione aggravata sia l'autore del post che due dei suoi amici virtuali, colpevoli di aver commentato in maniera offensiva un post altrui poiché in tal modo si determina una maggior diminuzione della reputazione della persona offesa nella considerazione dei consociati.

La condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione del post originario ad un numero elevato di soggetti, sia perché tale piattaforma racchiude un numero apprezzabile di persone, sia perché l'utilizzo di Facebook integra una delle modalità mediante le quali gruppi di soggetti raccontano le proprie esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per lo strumento utilizzato, si estende ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione. Il Tribunale di Campobasso, una volta accertata la riferibilità soggettiva dei profili Facebook agli imputati, ha dichiarato la loro responsabilità penale per il reato di cui all'articolo 595 c.p., aggravato dall'aver commesso il fatto tramite Internet e, solo per il teste, per aver offeso anche il corpo giudiziario, come previsto rispettivamente dai commi 3 e 4 della predetta norma penale.

Il giudice della sentenza qui analizzata sottolinea come in giurisprudenza si ritiene che "la condotta di postare un commento sulla bacheca Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo realizzato, a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone", sicché è configurabile il reato di diffamazione qualora lo stesso commento sia offensivo o lesivo della reputazione di taluno. La diffamazione è il reato che scatta quando un soggetto comunicando con più persone, offende la reputazione di un altrui soggetto determinato o determinabile agevolmente.

Nel caso di specie, come ha affermato il Tribunale abruzzese, è certa la riferibilità delle espressioni denigratorie al giudice del processo nel quale l'autore del post era chiamato a testimoniare. Per quanto concerne la posizione dei due imputati che si sono "limitati" a commentare il post del teste, il giudice ricorda che "la reputazione di una persona che per taluni aspetti sia già stata compromessa può divenire oggetto di ulteriori illecite lesioni in quanto elementi diffamatori aggiunti possono comportare una maggior diminuzione della reputazione della nella considerazione dei consociati". Per il giudice nulla cambia sul piano dell'offesa al bene giuridico tutelato se l'espressione diffamatoria sia contenuta nel post principale o nei commenti ad esso sottostante: la nitidezza, la volgarità e la disinvoltura delle frasi utilizzate da tutti gli imputati nell'esprimere le proprie considerazioni nei confronti del giudice e della sua categoria professionale, nonché la pubblicazione delle stesse frasi sul social network, con ampia portata diffusiva, sono elementi che confermano la volontà degli stessi imputati di "denigrare agli occhi dell'intera platea virtuale di utenti Facebook la reputazione del magistrato. Nel Provvedimento qui analizzato si legge che la libertà di pensiero, seppur garantita dall'art. 21 della Costituzione, trova dei limiti nel rispetto altrui e nella tutela dell'ordine pubblico e del buon costume, nonché nel diritto di ogni cittadino all'integrità dell'onore, del decoro, della reputazione. La libertà di pensiero, in sostanza, trova un limite nella legge penale, essendo la diffamazione un atto illecito e non una manifestazione della libertà di pensiero.

Il giudice ha condannato i tre soggetti dopo aver accertato sia che i profili fossero effettivamente associabili agli autori dei commenti sia che le espressioni denigratorie fossero riferite al giudice del processo nel quale l'autore del post era chiamato a testimoniare. L'ipotesi di reato in questione presuppone un'offesa a una persona determinata e individuabile. Per la condanna non è sufficiente attribuire rilievo alla provenienza del post da un profilo Facebook intestato ad un utente qualsiasi bensì accertare l'indirizzo IP dell'autore di un post. Secondo la Corte di Cassazione, se manca l'accertamento dell'indirizzo Ip (codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico al momento della connessione ad una determinata postazione del servizio telefonico, consentendo di individuare la linea di provenienza di un soggetto) non può scattare la condanna per diffamazione sul web. Inoltre l'autore del post aveva fatto riferimento alla vicenda giudiziaria ed esplicitato il nome ed il cognome della persona offesa. Nel caso di specie, il Tribunale ha riconosciuto nei confronti di tutti gli imputati l'aggravante prevista dal terzo comma dell'art. 595 c.p., posto che la diffamazione tramite Internet costituisce un'ipotesi di diffamazione aggravata in quanto commessa con ulteriore mezzo di pubblicità rispetto alla stampa. La rilevanza penale della condotta dei due “amici” non poteva escludersi dalla circostanza che questi si erano “limitati” ad aggiungere al post da altri pubblicato un mero commento successivo poi subito rimosso; il reato, infatti, era già stato consumato. La diffamazione rientra, quindi, nel novero dei “reati di evento” e si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa. Inoltre, come stabilito in una pronuncia della Corte di Cassazione”, n. 25420/2017, il post si considera diffamatorio anche quando non indica esplicitamente il nome della vittima ma è sufficiente che questa sia facilmente riconoscibile e individuabile dalla collettività. Tuttavia è fondamentale che la persona offesa sia precisa nelle accuse così come la frase offensiva e l'autore nonché gli estremi del profilo dal quale è avvenuta la pubblicazione.

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