Epidemia da Covid-19: le linee guida nella responsabilità penale tra disastro, omissioni e contravvenzioni

Vittorio Nizza
Silvia Gabbai
11 Giugno 2020

Dal mese di febbraio 2020, l'Italia – come ormai praticamente tutto il mondo – si è trovata ad affrontare un'improvvisa situazione di emergenza sanitaria a fronte del diffondersi di un nuovo virus denominato COVID-19. Come noto, si tratta di un virus appartenente alla famiglia dei coronavirus. Tale infezione, che colpisce principalmente le vie aree, si è rivelata di una contagiosità e di una gravità sicuramente inaspettati e inizialmente sottovalutati. Si pensi che solo il 22 marzo L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha qualificato l'epidemia di COVID-19 come “pandemia”. L'acuirsi rapidissimo...
La diffusione del COVID-19: i provvedimenti adottati dalle autorità

Dal mese di febbraio 2020, l'Italia – come ormai praticamente tutto il mondo – si è trovata ad affrontare un'improvvisa situazione di emergenza sanitaria a fronte del diffondersi di un nuovo virus denominato COVID-19. Come noto, si tratta di un virus appartenente alla famiglia dei coronavirus.

Tale infezione, che colpisce principalmente le vie aree, si è rivelata di una contagiosità e di una gravità sicuramente inaspettati e inizialmente sottovalutati. Si pensi che solo il 22 marzo L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha qualificato l'epidemia di COVID-19 come “pandemia”.

L'acuirsi rapidissimo della situazione di crisi sanitaria ha comportato la necessità di una serie di interventi di urgenza dalla parte delle Autorità sia nazionali che locali. Si è già accennato nella prima riflessione elaborata in merito alle possibili conseguenze penali derivanti dalla gestione dell'attuale contesto emergenziale, sono stati emanati non solo i provvedimenti che hanno inciso sulla vita di tutti, circoscrivendo e limitando alcune libertà, ma si è dovuto necessariamente intervenire per riorganizzare in primo luogo l'attività sanitaria, impreparata a un evento di tale portata; poi, con il progressivo allentarsi della diffusione del contagio, per garantire la ripresa di tutte le attività in sicurezza.

In particolare sono state elaborate dal Ministero della Sanità, in conformità con le indicazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e Istituto Superiore di Sanità, nonché dei comitati di esperti nominati, una serie di raccomandazioni per gli operatori sanitari. La diffusione del virus all'interno delle strutture sanitarie e assistenziale, pubbliche e private, con il conseguente contagio non solo degli altri paziente ma anche del personale, infatti, ha rappresentato uno dei problemi più evidenti dell'emergenza.

Tra le molte indicazioni, il 14 marzo 2020 è stata elaborata la prima versione, poi aggiornata il 28 marzo, ad opera del Gruppo di Lavoro ISS Prevenzione e Controllo delle Infezioni delle “indicazioni ad interim per un utilizzo razionale delle protezioni per infezione da SARS-COV-2 nelle attività sanitarie e sociosanitari (assistenza ai soggetti affetti da COVID-19) nell'attuale scenario emergenziale SARS-COV-2”. Il documento contiene indicazioni sull'utilizzo dei dispositivi di protezione individuale durante l'assistenza ai pazienti.

Sono state inoltre emanate una serie di circolari e linee di indirizzo da parte del Ministero della salute relative all'individuazione dei soggetti positivi (definizione di “caso sospetto”, rintraccio dei contatti, effettuazione dei campioni) alla diagnosi ed alla gestione dei pazienti con particolare attenzione ad alcune categorie di soggetti già portatori di particolari patologie.

Tali indicazioni sono state ovviamente oggetto di revisioni e correttivi in considerazione dell'evoluzione della situazione epidemiologica, delle nuove evidenze scientifiche e le indicazioni degli organismi internazionali.

Lo stesso Ministero, inoltre, è intervenuto con delle indicazioni specifiche relative alla rimodulazione delle attività ospedaliere con rinvio di quelle non indifferibili, per far fronte alla necessità di gestire il numero altissimo di casi da contagio da COVID-19 con le risorse sanitarie disponibili sul territorio. In tal senso si è anche rimessa alle singole Regioni, sulla base dei dati epidemiologici, di valutare la necessità di creare strutture deputate esclusivamente alla cura dei pazienti COVID, riadattando risorse già disponibili o creandone di nuove.

Le indicazioni nazionali sono state integrate dagli interventi delle autorità locali, parametrati alle esigenze differenti delle singole realtà territoriali, stante la differente diffusione del virus sul territorio nazionale.

Le autorità classificano tali documenti come “raccomandazioni operative”, “indicazioni ad interim”, “protocolli di intesa”, “linee di indirizzo”. Appare pertanto opportuno approfondire il valore da attribuire alle suddette indicazioni/raccomandazioni.

Le “linee guida” e i “protocolli” in ambito sanitario

Una possibile lettura trasversale può attingere a quanto analizzato nel settore sanitario, in particolare in ambito internazionale, ove vengono da tempo elaborate da soggetti ritenuti accreditati all'interno della comunità scientifica, linee guida o prassi applicative relative alle modalità di trattamento e di cura delle malattie conosciute. Spesso in molti contesti esistono una pluralità di indicazioni con divergenti approcci e soluzioni terapeutiche. Non solo, ma ovviamente si tratta di un sistema in continuo aggiornamento essendo legato all'evoluzione delle conoscenze scientifiche.

Il nostro ordinamento, in realtà, ha introdotto per la prima volta un riferimento al ruolo delle “linee guida” con la Legge Balduzzi del 2012. Come noto, infatti, tale norma aveva previsto un'esimente specifica per gli esercenti le professioni sanitarie. In particolare la norma prevedeva l'esclusione della responsabilità per i soggetti, che nell'esercizio della propria attività medica, avessero comunque operato nel rispetto delle linee guida e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica. Presupposto per l'applicazione della norma era altresì la sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa lieve.

Al di là della problematiche applicative della suddetta norma e del dibattito giurisprudenziale e dottrinale venutosi a creare, si evidenzia, per quel che qui interessa, come non vi sia mai stata nel nostro ordinamento una definizione normativa di “linea guida” o di “buona pratica”, sebbene tali indicazioni comparissero talvolta, anche prima dell'emanazione della Legge Balduzzi, nelle pronunce giurisprudenziali come parametri di riferimento per la valutazione dell'operato dei medici in ordine alla loro responsabilità penale per eventuali eventi infausti causati ai pazienti. Allo stesso modo non vi era un parametro normativo di riferimento per individuare quali dovessero ritenersi linee guida accreditate presso la comunità scientifica.

Secondo una delle definizioni più note, elaborata dall'Institute of Medicine, le “linee guida” sarebbero “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche al fine di aiutare le decisioni del medico professionista e/o del paziente sulle cure mediche più adatte in circostanze specifiche”.

La dottrina, anche nella prospettiva epistemologica, aveva osservato che le linee guida si sostanziano in raccomandazioni di comportamento clinico, con diverso grado di cogenza, e presuppongono l'esistenza e la plausibilità di molteplici comportamenti degli esercenti le professioni sanitarie, a fronte della medesima situazione data e sono volte a ridurre la variabilità e la soggettivazione dei comportamenti clinici. Le buone pratiche avrebbero dovuto, invece, essere intese come dei veri e propri “protocolli”.

La giurisprudenza, a sua volta, ha ritenuto che le linee guida “a differenza dei protocolli e delle check list, non indicano una analitica, automatica successione di adempimenti, ma propongono solo direttive generali, istruzioni di massima, orientamenti” (Cass. Pen. 11493/2013) . Esse non darebbero luogo a norme propriamente cautelari e non configurerebbero, quindi, ipotesi di colpa specifica. Come tali esse andrebbero applicate in concreto senza automatismi, rapportandole alle peculiari specificità di ciascun caso clinico, con la possibilità – anzi in alcuni caso l'obbligo – per il medico di discostarsene ove il caso clinico lo richiedesse. L'osservanza rigorosa delle linee guida, infatti, di per se sola non rappresentava ragione sufficiente di esonero da responsabilità, così come il mancato rispetto delle stesse non era considerato prova automatica di condotta colposa.

Rimaneva, in ogni caso, il problema della fonte di provenienza delle linee guida o delle buone pratiche rispettate dal sanitario. Per giurisprudenza costante l'onere della prova di aver orientato la propria condotta a delle direttive solidamente fondate e come tali validamente riconosciute incombeva sul terapeuta.

Nel tentativo di superare tali problematiche il legislatore è intervenuto con la legge Gelli-Bianco che ha abrogato l'art. 3 della L. 189/2012 ed ha inserito il nuovo art. 590-sexies all'interno del codice penale.

La legge Gelli-Bianco e il nuovo sistema delle linee-guida

La riforma apportata con la Legge n. 24 del 2017 non ha solo modificato l'esimente specifica prevista per i sanitari, ma è intervenuta anche in ambito civile, amministrativo e assicurativo, innovando alcuni aspetti della responsabilità per danni della struttura sanitaria e del singolo medico.

Per ciò che riguarda l'ambito della responsabilità penale, il nuovo articolo 590-sexies c.p. prevede un'ipotesi di esenzione da responsabilità per i reati di lesioni od omicidio colposi commessi dai sanitari nell'esercizio delle proprie funzioni qualora gli stessi abbiano agito per colpa dovuta a imperizia, nel rispetto delle raccomandazioni contenute nelle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge o, in mancanza di queste, delle buone pratiche clinico-assistenziali.

La formulazione della nuova esimente – nel tentativo di superare le precedenti problematiche interpretative – non si riferisce più alle linee guide ed alle buone pratiche accreditate presso la comunità scientifica, bensì a quelle determinate dalla legge.

La Legge n. 24/2017, infatti, ha previsto anche la creazione di un'apposita “banca dati” in cui vengono raccolte le linee guida riconosciute ed approvate. Dovrà infatti essere istituito – sulla base di decreti attuativi - presso il Ministero della Salute un albo di soggetti, pubblici o privati, che a seguito di una procedura di accreditamento verranno riconosciuti idonei e quindi legittimati all'emanazione di linee guida. Solamente le indicazioni mediche codificate attraverso tale procedura e pubblicate nell'apposita banca dati potranno quindi essere fatte valere ai sensi dell'art. 590 sexies c.p.

Al momento, però, tale sistema è ancora in fase di elaborazione. La giurisprudenza si è interrogata sulla portata applicativa attuale dell'art. 590-sexies in mancanza di linee guida “definite e pubblicate ai sensi di legge” e sul valore ancora attribuibile alle linee guida elaborate dalla comunità scientifica, ma non accreditate.

La Cassazione ha recentemente affermato come, in attesa dell'emanazione della banca dati delle linee guida secondo il procedimento previsto dalla L. 24/2017, la portata applicativa dell'art. 590-sexies c.p. sarebbe meramente “virtuale”. L'unica possibilità per riservare alla norma uno spazio applicativo effettivo sarebbe quella di ritenere le linee guida oggi vigenti (quelle elaborate dalla comunità scientifica) alla stregua di buone pratiche clinico-assistenziali. Tale opzione ermeneutica risulta però molto difficile. Le linee guida, infatti, differiscono notevolmente, sotto il profilo concettuale, prima ancora che tecnico-operativo, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, sostanziandosi in raccomandazioni di comportamento clinico, sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione concettuale, volto a offrire indicazioni utili ai medici nel decidere quale sia il percorso diagnostico-terapeutico più appropriato in specifiche circostanza cliniche (Cass. pen. 28102/2018).

Le linee guida elaborate in tempo di COVID-19: indicazioni in ambito sanitario e datoriale

Ci si interroga a questo punto sul valore che potrebbe essere attribuito a quelle indicazioni di carattere organizzativo e terapeutico emanate dalla comunità scientifica e approvate dal Ministero della Sanità per fronteggiare la diffusione del COVID-19.

Come già anticipato le stesse non vengono mai classificate come linee guida, si parla di “linee di indirizzo” o “raccomandazioni operative”. Tuttavia è indubbio che le stesse siano state elaborate da soggetti maggiormente accreditati a livello scientifico nazionale nel rispetto delle indicazioni degli organismi internazionali e che in qualche modo siano state riconosciute dallo stesso Mistero della Salute che le ha approvate e pubblicate sul proprio sito.

Potrebbe forse ipotizzarsi che un sistema così elaborato possa essere equiparato a quello previsto dalla legge Gelli – Bianco ancora in fase di completamento. In tal caso il rispetto di tali protocolli potrebbe incidere in un eventuale giudizio di responsabilità non solo in capo ai singoli sanitari, ma anche alle strutture, per i contagi verificatisi all'interno delle stesse. Giudizio, che in ogni caso non potrebbe prescindere dalla verifica della sussistenza degli elementi costitutivi di un ipotizzabile reato, con le conseguenti problematiche probatorie in merito all'elemento soggettivo ed al nesso di causa già evidenziate nel precedente elaborato.

I protocolli elaborati per fronteggiare la situazione emergenziale non hanno ad oggetto solo raccomandazioni operative di carattere terapeutico per la gestione e la cura del soggetto risultato positivo, ma, come si è anticipato, anche indicazioni comportamentali e disposizioni strutturali per garantire lo svolgimento dell'attività lavorativa all'interno delle strutture sanitarie e assistenziali in sicurezza e per prevenire il contagio e contenere la diffusione del virus all'interno delle stesse.

In realtà, le indicazioni per consentire lo svolgimento dell'attività lavorativa in sicurezza e prevenire la diffusione del COVID-19 all'interno degli ambienti di lavoro non hanno riguardato solo l'ambito sanitario, ma in quasi tutti i settori lavorativi si è addivenuto ad un accordo condiviso tra le imprese, i sindacati ed il Governo per elaborare un protocollo per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori dal possibile contagio da nuovo coronavirus e garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro (allegato 12 al DPCM del 17 maggio 2020).

Si è discusso dal valore da attribuire al rispetto di tali indicazioni di sicurezza all'interno dei luoghi di lavoro.

L'INAIL, infatti, ha riconosciuto il contagio da coronavirus come un infortunio sul lavoro. In una sua circolare del 13 aprile, l'istituto ha precisato come la tutela riguardi in primo luogo quelle categorie di lavoratori ritenute a maggior rischio di contagio, quali in primo luogo il personale sanitario, ma anche quelle categorie che operano in constante contatto con l'utenza. In questi casi sembrerebbe valere una sorta di presunzione della correlazione tra lo svolgimento dell'attività lavorativa e il contagio. La tutela assicurativa si estende anche ai casi in cui l'identificazione delle precise cause e modalità lavorative del contagio si presenti più difficoltosa. In tali casi si dovrà fare ricorso agli elementi epidemiologici, clinici, anamnestici e circostanziali, al fine di garantire la piena tutela.

È stato però escluso che tali presunzioni possano essere fatte valere a fronte di un'eventuale responsabilità civile o penale del datore di lavoro. In questo caso occorrerà provare il nesso di causa tra lo svolgimento dell'attività lavorativa e la contrazione della malattia, ossia che il contagio avvenuto proprio sul luogo di lavoro o in occasione dello svolgimento dello stesso. Di contro sarà onere dell'imprenditore dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare l'evento, che forse, potrebbero anche essere ulteriori o diverse rispetto a quelle minime concordate nei protocolli di accordi condivisi. Oltre alle misure specifiche previste delle norme di settore, infatti, incombe sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. un obbligo di attuare nell'esercizio dell'impresa tutte le misure che secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, risultino necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Secondo la giurisprudenza è pacifico che rientri in tale obbligo che l'adozione di tutte le misure idonee ad a prevenire ed evitare il diffondersi di malattie correlate al lavoro stesso.

L'eventuale responsabilità del datore di lavoro non potrà che essere valutata in relazione alle peculiarità del singolo caso concreto. In ogni caso, per ciò riguarda possibili risvolti penali, l'ipotizzabilità di una responsabilità per i reati di omicidio o lesioni colpose non potrà prescindere dall'accertamento nel nesso di causa e della sussistenza dell'elemento soggettivo della colpa. Elementi le cui prova non risulta così agevole – come si è già più approfonditamente evidenziato nel precedente lavoro).

Sotto il primo profilo, infatti, occorre provare che lo svolgimento dell'attività lavorativa sia stato proprio l'occasione del contagio. Il COVID-19 ha dimostrato, sulla base di quanto riferito degli esperti epidemiologi, una grande capacità di diffusione ed un altissimo tasso di contagiosità, con un tasso di circolazione nella cittadinanza, quanto meno per tutto il mese di marzo, elevatissimo. Pertanto, a parere di chi scrive, appare non immediata la prova che il contagio sia avvenuto proprio sul luogo di lavoro, escludendo qualsiasi altro tipo di contatto con il virus.

Il secondo profilo, invece, quello dell'elemento soggettivo, richiede comunque che il soggetto abbia potuto prevede ed evitare l'evento. Occorre pertanto verificare ce la condotta alternativa lecita – l'adozione delle misure di sicurezza non effettuate – fosse concretamente esigibile.

Occorrerebbe forse distinguere tra il periodo di c.d. lockdown e la fase della riapertura. La prima fase dell'emergenza è stata caratterizzate da un'incertezza e dalla ancora scarsa conoscenza delle caratteristiche del virus, nonché, ovviamente, dalla necessità di intervenire in maniera molto rapida con adeguamenti repentini. Le attività che sono rimaste aperte hanno dovuto provvedere in tempi rapidissimi a far fronte ad un rischio nuovo e non conosciuto, tra l'altro in un momento in cui anche i dispositivi di sicurezza consigliati non erano praticamente più reperibili sul mercato. Si sono già evidenziate le difficoltà e le carenze sotto questo profilo riscontrate dalle autorità deputate (in primo luogo la protezione civile) in ambito pubblico e sanitario. Ancor più evidente tale problematica nei settori provati.

Diverso, invece, la valutazione da effettuarsi per possibili ipotesi delittuose verificatesi dopo la c.d. “fase 2” della ripartenza, con la presenza di una serie di indicazioni, elaborate con l'accordo delle parti interessate, sulle misure minime da adottare per mettere in sicurezza i luoghi di lavoro.

Ulteriori ipotesi delittuose: il reato di disastro innominato

Effettuate le brevi considerazioni precedenti sul possibile valore da attribuire alle indicazioni emanate dalla autorità nazionali e locali per fronteggiare l'emergenza sanitaria in atto, appare opportuno, a completamento delle riflessioni già prospettate nel precedente elaborato, analizzare ancora alcune fattispecie penali che potrebbero venire in rilievo a fronte delle ipotizzate mancanze organizzative e gestionali verificatesi a diversi livelli.

In tale prospettiva può essere ancora interessante analizzare il reato di disastro colposo innominato punito dall'art. 449 c.p. La norma sanziona a titolo colposo quelle fattispecie previste dagli articoli 422 e ss. c.p. rubricate come “delitti contro l'incolumità pubblica”. Il bene tutelato dalla norma, infatti, è l'interesse pubblico. Il delitto di disastro colposo richiede che la condotta – che deve integrare uno degli eventi di cui agli artt. 422 e ss. – sia tale da determinare un pericolo per la vita e l'incolumità di un numero collettivamente non individuabile di persone, anche se appartenenti ad una determinata categoria. Secondo la giurisprudenza occorre che si verifichi un accadimento macroscopico, dirompente, tale da poter destare un senso di allarme per la capacità diffusiva del nocumento (Cass. pen. 45836/2017). L'attuale diffusione del virus – in effetti - potrebbe ricadere in questa tipologia di accadimenti.

Si tratta in ogni caso di un reato punito a titolo di colpa. Per la sua configurazione, pertanto, si richiede che il soggetto abbia agito in violazione di una regola cautelare di origine sociale (colpa generica) o di una regola espressamente prevista da una fonte formale (colpa specifica) cha abbia lo scopo di evitare eventi disastrosi del tipo di quello verificatosi. Occorre, quindi, che anche in tali casi venga accertata, oltre alla prevedibilità e l'evitabilità dell'evento, anche l'esigibilità della condotta conforme alla regola cautela violata.

Secondo la giurisprudenza il soggetto titolare della posizione di garanzia deve adottare il sistema di prevenzione che garantisca il maggior livello di sicurezza possibile, tenuto conto del livello della scienza e della tecnica raggiunti, soprattutto quando i beni da tutelare siano la vita e l'incolumità pubblica. Tuttavia, anche con riferimento a tale tipologia di reato, bisognerebbe accertare se la mancata adozione dei sistemi di prevenzione adeguati volti prevenire un evento dannoso quale quello verificato in concreto fosse, in concreto attuabile, secondo una valutazione ex ante, in considerazione della situazione emergenziale ancora in atto. In tal caso si ripropongono le considerazioni già svolte in merito alla incerta e spesso congettuale ricostruzione probatoria della sussistenza dell'elemento soggettivo in un eventuale giudizio di colpevolezza.

La configurabilità del reato di morte o lesioni come conseguenza di un altro delitto a seguito di omissione di atti d'ufficio

Si ritiene, infine, opportuno svolgere alcune considerazioni su un'ultima ipotesi delittuosa che potrebbe essere ipotizzabile in relazione alle lesioni o ai decessi dovuti al contagio da COVID-19. Si tratta del reato previsto dall'art. 586 c.p. rubricato “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”.

L'art. 586 c.p. disciplina un'ipotesi peculiare di aberratio delicti. Nei casi in cui la condotta delittuosa del soggetto agente determini anche, come conseguenza non voluta, la morte o le lesioni di una persona, il soggetto risponderà oltre che del reato-base anche dei reati di omicidio o lesioni colpose.

Per la configurabilità del reato in questione – come noto - sono necessari due elementi: la realizzazione del delitto-base ed il verificarsi della morte o della lesione di una persona come conseguenza non dovuta del reato base. Non è necessario che la vittima dell'omicidio o delle lesioni coincida con il soggetto passivo del reato base. Occorre però che le lesioni o la morte come conseguenza non voluta siano legate al delitto-base da un nesso di derivazione causale.

Secondo la giurisprudenza, inoltre, il reato in oggetto non rappresenta una forma di responsabilità oggettiva con riferimento all'evento lesivo o letale non voluto, ma occorre comunque che in capo all'agente sussista una responsabilità a titolo di colpa per avere, col proprio comportamento doloso, posto una delle condizioni idonee a cagionare, su un piano di concreta prevedibilità, l'evento dannoso o letale. Si tratterebbe di “una responsabilità per colpa in concreto, ossia ancorata ad una violazione di regole cautelari di condotta e ad un coefficiente di prevedibilità ed evitabilità, in concreto e non in astratto, del rischio connesso alla carica di pericolosità per i beni della vita e dell'incolumità personale, intrinseca alla consumazione del reato doloso di base” (Cass. Pen. SS.UU. 22676/2009).

Il delitto base che potrebbe venire in rilievo potrebbe essere identificato nel reato di omissioni di atti d'ufficio di cui all'art. 328 c.p. Tale fattispecie potrebbe essere ipotizzata in considerazione al verificarsi dei contagi COVID-19 infra-ospedalieri in cui potrebbe essere ipotizzata una responsabilità da parte dell'amministrazione della struttura sanitaria o assistenziale per la mancata adozione di misure di prevenzione e contenimento della diffusione del virus all'interno della struttura stessa (problematica già meglio analizzata nel precedente elaborato).

La norma, infatti, punisce il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che non abbia provveduto indebitamente a compiere un atto del proprio ufficio che avrebbe dovuto essere effettuato senza ritardo per ragioni di giustizia, sicurezza pubblica, sicurezza pubblica, ordine pubblico o di igiene e sanità.

Si potrebbe far rientrare in tale fattispecie le condotte dei dirigenti delle strutture sanitarie o assistenziale che non abbiano tempestivamente provveduto a compiere tutti quegli atti necessari, di loro competenza, per adeguarsi alle linee guida e alle direttive ministeriali e regionali così da mettere in sicurezza la propria struttura al fine di prevenire od evitare la diffusione del contagio all'interno delle stesse del COVID-19. È indubbio che i tali soggetti rivestano la qualifica di incaricati di pubblico servizio. Gli atti di adeguamento, inoltre, rientrerebbero nel novero degli “atti di ufficio” propri delle attività amministrative e gestionali che contraddistinguono i suddetti ruoli, qualificabili come “indifferibili” ossia da compiersi senza ritardo così come richiesto dalla norma. Gli stessi infatti, non solo sono atti “qualificati” in quanto giustificati da ragioni di sicurezza pubblica e di igiene e sanità, ma avrebbero dovuto essere adottati a fronte di specifiche indicazioni nazionali e regionali.

Come si è esposto precedentemente, il Ministero della sanità, infatti, oltre alle prescrizioni già previste nei decreti emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri, ha pubblicato, con alcuni aggiornamenti dovuti all'evolversi delle situazioni, delle specifiche raccomandazioni, elaborate di concerto con l'Istituto Superiore di Sanità e il Gruppo di esperti nominato del Governo, per gli operatori sanitari, con indicazioni sia sull'uso dei dispositivi sia sulla gestione dei pazienti, e per le strutture assistenziali. Linee guida spesso integrate con ulteriori protocolli elaborati a livello territoriale.

Occorre, però, sottolineare un aspetto che può far dubitare in ordine alla configurabilità di tale reato. L'omissione di atti d'ufficio, infatti, è punito a titolo di dolo, che può anche configurarsi nella forma del dolo eventuale. Occorre pertanto che il soggetto abbia la consapevolezza di agire in violazione di doveri imposti. “È necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento "contra ius", senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione” (Cass. Pen. 36674/2015). Secondo la giurisprudenza, però, il compimento di un atto diverso, sorretto da idonea giustificazione, contraddice l'omissione dell'atto specificatamente richiesto (Cass. pen. 51149/2014).

Nella situazione contingente legata alla pandemia del COVID-19 così come analizzata sinora appare difficile ipotizzare – quanto meno in via generale ed astratta - che la mancata attivazione da parte dei soggetti che rivestono ruoli dirigenziali all'interno del sistema sanitario alle indicazioni ricevute dalle Autorità e dalla comunità scientifica sia stata conseguenza di scelte consapevoli, quanto meno sotto il profilo dell'accettazione del rischio. Sembrerebbe più probabile ritenere, anche in questo caso, che i ritardi o le omissioni degli atti necessari siano stati determinati dalle urgenze e dalle necessità contingenti, magari dando priorità ad alcune scelte piuttosto che ad altre, nonché alla oggettiva impossibilità, per carenza di mezzi, personale e risorse economiche, di fronteggiare tutte le situazioni. Ovviamente si tratta di una valutazione che non può che essere fatta caso per caso, alla luce delle risultanze delle attività degli inquirenti.

In ogni caso, qualora non risultasse configurabile il reato di omissione di atto di ufficio per assenza dell'elemento soggettivo, inteso come “delitto – base” verrebbe ovviamente meno anche ogni possibile contestazione di conseguenti lesioni o decessi ai sensi dell'art. 586 c.p.

Un'ultima considerazione sulle sanzioni specifiche per violazione delle disposizioni anti-covid-19

A conclusione delle valutazioni sin qui effettuate sui possibili risvolti penali legali alla gestione dell'emergenza sanitaria in corso, si rileva come lo stesso Governo abbia disposto delle sanzioni specifiche per la violazione delle disposizioni anti-covid.

In particolare, la legge 35/2020 ha previsto che l'inosservanza delle misure di contenimento previste dall'art. 1 della legge stessa, non integri la contravvenzione di cui all'art. 650 c.p. (come inizialmente previsto dal d.l. 6/2020) ma costituisca illecito amministrativo, salvo che il fatto costituisca reato. È prevista una sanzione pecuniaria da 400 a 1000 euro.

Per alcune ipotesi (legate ai divieti di riapertura di alcune attività, nonché di eventi o competizioni sportive) si applica altresì la sanzione amministrativa accessoria della chiusura dell'esercizio o dell'attività da 5 a 30 giorni. In tali ipotesi l'autorità, all'atto dell'accertamento, può disporre la chiusura provvisoria dell'attività o dell'esercizio per un massimo di 5 giorni, per impedire la prosecuzione o la reiterazione della violazione.

Il procedimento che regola l'accertamento di tali violazioni è quello previsto dalla legge 689/1981, salvo che per ciò che riguarda il pagamento in misura ridotta, stante il richiamo all'art. 202 cod. strada.

Per il solo caso della violazione della quarantena obbligatoria (art. 1, comma 2, lett. e)) si applicano le pene previste dall'art. 260 del r.d. 1265/1934 (arresto da 3 mesi a 18 mesi e con l'ammenda da euro 500 ad euro 5.000) salvo che il fatto non integri il più grave reato di epidemia colposa di cui all'art. 452 c.p.

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