La “variabile culturale” non scrimina la lesione di diritti inviolabili né inficia l'attendibilità della parte lesa

11 Giugno 2020

La sentenza che si annota tocca uno degli argomenti più attuali e suggestivi in tema di dolo e di cause di sua esclusione, invocato plurime volte nelle aule di giustizia (e lì condiviso invero molto di rado) concernente credo religiosi e convinzioni socio-culturali, quando portatori di valori o concessivi di diritti confliggenti con quelli protetti dal nostro ordinamento giuridico.
Massima

La “difesa culturale” deve essere ritenuta recessiva nei casi in cui il bene giuridico leso o messo in pericolo sia oggetto di tutela quale diritto fondamentale dell'individuo, ai sensi dell'art. 2 Cost., ed inidonea a esonerare l'imputato dalle responsabilità e ciò in quanto la tutela dei diritti fondamentali dell'uomo costituisce un limite anche per chi ha scelto di stabilirsi in questo Paese.

Il caso

La Cassazione esamina il ricorso di un imputato di maltrattamenti, violenza sessuale, lesioni e sottrazione di minori, condannato in continuazione rispetto ai fatti di cui ad altra pronuncia irrevocabile per tentato omicidio, il quale chiede l'annullamento della sentenza lamentando la violazione di legge sostanziale e processuale sia in ordine alla valutazione di attendibilità della principale accusatrice (la moglie), sia con riferimento ad elementi costitutivi dei vari delitti di cui accusato (consenso ai rapporti sessuali, in primis), ed infine circa alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

Il tema portante, che in sostanza informa di sé tutte le doglianze della difesa, può riassumersi nella c.d. variabile culturale, ossia nel compendio di usi, credenze, abitudini e regole in auge in Pakistan – paese di origine del nucleo famigliare interessato dalla vicenda – all'evidenza molto diversi da quelli osservati qui.

Mentre le conclusioni della Corte ricalcano ed impreziosiscono una giurisprudenza italiana che ormai può definirsi consolidata, la leva logica su cui si fonda il ricorso appare concettualmente più sottile e ricercata rispetto all'usuale argomento consistente, in sintesi, nella diversità non solo tra mores, ma vieppiù fra sistemi giuridici rispettivamente del Paese di nazionalità e di quello di approdo – l'Italia.

La questione

La difesa dell'imputato svolge cinque motivi di ricorso, avvolgendo di spunti critici le decisioni assunte in primo grado ed in appello sia su questioni processuali sia in ordine alla legge sostanziale applicabile, il cui fil rouge si dipana coerentemente attorno all'assunto di base che porta anche la pronuncia in esame nel solco di quelle dedicate al tema (con approssimazione lessicale) del c.d. reato culturale.

Lo sforzo difensivo spazia su vari aspetti della vicenda processuale, costruendo una architettura destinata ad autosorreggersi su di un unico pilastro: inevitabile quindi che la mancata condivisione della premessa da parte dei giudici di legittimità abbia condannato al rigetto l'intero atto.

Sovvertendo l'ordine in cui presentati dal Collega redigente, dei motivi di ricorso affronterei subito il punto più tecnico, alla cui soluzione la Cassazione perviene senza dover (ancora) “scomodare” le concezioni con cui poi va a tessere la motivazione nel suo sostanziale complesso: qual è la legge applicabile alla valutazione di quella porzione di condotta, contemplata nelle imputazioni sub art. 574 c.p.?

Viene dedotta la violazione dell'art. 606 comma 1 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all'art. 36, legge 31 maggio 1995 n. 218 – norma di diritto internazionale secondo cui i rapporti personali e patrimoniali tra genitori e figli, ivi compresa la responsabilità genitoriale, sono regolate dalla legge nazionale del figlio (pakistana nel caso di specie) – a mente della quale il padre ha piena facoltà di trasferire la prole nel paese di origine.

Ecco come anche su questo specifico reato, ascritto al condannato, la difesa punta non solo sulle convinzioni o le abitudini tradizionalmente in voga in Patria, ma addirittura sulle norme nazionali, però non coglie l'obiettivo avendolo mirato attraverso la tacca sbagliata. A parere della Corte, infatti, la norma di diritto internazionale privato richiamata dal difensore regola – o meglio, individua la legge regolatrice dei rapporti tra i privati, mentre nel caso in esame deve trovare applicazione la Convenzione dell'Aja del 25 ottobre 1980, dettata proprio allo scopo di disciplinare la sottrazione internazionale di minori. La legge di ratifica – n. 64 del 1994 – all'art. 3 fa ponte verso la legislazione dello Stato di residenza abituale del minore, immediatamente prima del suo trasferimento o del suo mancato rientro ogni qual volta questi siano illeciti, ossia violino i diritti di custodia assegnati a persona, ente o istituzione che li esercitavano sul bambino stesso.

I figli dell'imputato risiedevano a Ferrara (o comunque nella zona di competenza territoriale di quel Tribunale) quindi era loro applicabile la legge italiana che, in assenza di pronunce giudiziali di segno contrario, attribuisce responsabilità genitoriale ad ambedue i genitori, di tal che l'avvenuto trasferimento – deciso unilateralmente ed operato in clandestinità – dei piccoli in Pakistan andava qualificato come sottrazione internazionale, punita dal codice penale italiano ex art. 574-bis c.p.

Detto questo, gli altri quattro motivi di ricorso giostrano attorno al tema del c.d. reato culturale: il matrimonio tra imputato e parte lesa era stato combinato – come di prammatica nel Paese di origine – di modo che questo assunto di partenza, questa sorta di accordo contrattuale risaputo e condiviso, doveva andare a influire su tutti gli aspetti della convivenza e dei comportamenti reciproci. In quest'ottica, pertanto, la donna doveva aver accettata la premessa (assolutamente pacifica, per quanto può ricavarsi dal tenore dell'atto per come riportato nelle motivazioni della Suprema Corte) - per così dire “culturale” - della supremazia assoluta del volere del marito sui bisogni, i desideri e le necessità della moglie e dei figli, dal che doveva specularmente discendere l'obbligo di sottomissione in capo alla sedicente parte lesa ed il sostanziale esonero per l'uomo da qualsiasi eventuale verifica di condivisione e consenso ai comportamenti da questi posti in essere, ivi compresi in principalità quelli afferenti l'area degli appetiti sessuali.

Sul punto la Cassazione risponde in modo assolutamente congruente alla giurisprudenza ormai ventennale in tema, come vedremo, ma non affronta (o forse si limita ad aderire implicitamente alle affermazioni di cui alle sentenze di merito, di cui purtroppo io non dispongo) lo spunto più critico e, se vogliamo, più interessante tra quelli sollevati dal difensore, concernente la possibilità che la donna avesse calcato la mano con le accuse, avesse colorito il suo racconto lambendo la calunnia, allo scopo di accelerare o, quanto meno, consentire la propria emancipazione dal compagno, una volta resasi conto che il sistema del paese dove trasferitasi gliela avrebbe permessa nonostante l'eventuale dissenso del coniuge allo scioglimento del loro legame.

Nelle motivazioni si riscontrano certamente argomenti anche in tema di attendibilità della signora, che forse peccano di genericità limitandosi ad un pur corretto richiamo ad altre sentenze che sanciscono la idoneità delle dichiarazioni della sola parte lesa a sostenere l'accusa, soprattutto in quegli ambiti – come quello dei delitti intrafamigliari – solitamente privi di testimoni oculari ma, come detto, non mi pare di aver riscontrato giustificazioni più specifiche sul dubbio sollevato dalla difesa.

Le soluzioni giuridiche

La sentenza che si annota tocca uno degli argomenti più attuali e suggestivi in tema di dolo e di cause di sua esclusione, invocato plurime volte nelle aule di giustizia (e lì condiviso invero molto di rado) concernente credo religiosi e convinzioni socio-culturali, quando portatori di valori o concessivi di diritti confliggenti con quelli protetti dal nostro ordinamento giuridico.

Il tema – generalmente noto come quello dei c.d. "reati culturali" - torna frequentemente quando si invoca, sotto l'aspetto storico-sociale, l'incidenza del multiculturalismo dei moderni sistemi, quindi il terreno di confronto attiene al rapporto intercorrente tra diritto penale, ed in particolare il principio di colpevolezza, e fenomeni come l'immigrazione, anche clandestina, e la tratta nel nostro Paese.

Man mano che gli stranieri hanno messo radici sul territorio e qui si sono stanziati, sempre maggiore è diventato l'interesse dell'interprete nei confronti dei portati delle loro tradizioni soprattutto quando usati in senso difensivo. Spesso i retaggi di usi e credenze condivisi nei Paesi di origine si sono però scontrati coi nostri e – nei casi più gravi - si sono posti in aperto contrasto con i principi, anche fondamentali, del nostro ordinamento giuridico.

Questo conflitto si riscontra anche nella vicenda che ci occupa e, come d'uopo, anche in questo caso l'interprete italiano, forte di principi-base quali quello di obbligatorietà della legge penale e inescusabilità della sua ignoranza, non tollera smagliature giustificate dai mores di patria quando integrano vere e proprie violazioni dei divieti imposti dal nostro sistema penale.

Sin dalle sentenze più risalenti si registra l'unanimità interpretativa con cui si nega qualsiasi valore a ideologie religiose, sociali o di costume, se contrastanti con principi cardine quali libertà, uguaglianza e sottoposizione alla legge.

Che si verta in tema di tratta, riduzione in schiavitù, abuso di mezzi di correzione o maltrattamenti familiari, a seconda del contesto della imputazione evidentemente la materia si atteggerà in modo diverso ma, pressochè invariabilmente, la difesa dell'accusato si duole che i giudici di merito abbiano applicato schemi valutativi, tipici della cultura occidentale, senza rispettare le esigenze di integrazione razziale e senza pesare, nella condotta del reo, la diversità culturale e religiosa che ha improntato ed informato, finalisticamente, le azioni da lui compiute.

In altre parole, secondo l'argomentare del ricorrente nella sentenza che si sta commentando, il vizio "culturale" ha finito con invalidare la decisione sulla scorta di valutazioni assiologiche, aventi a fondamento sostanziale un pregiudizio etnocentrico, privo di motivazione in punto di soggettività dei delitti ascritti all'imputato.

Scorrendo le rassegne giurisprudenziali, si ritrova frequentemente – come nell'arresto che ci impegna - il richiamo ai diritti inviolabili della persona che rappresentano uno "sbarramento invalicabile" contro l'introduzione di consuetudini, prassi e costumi "antistorici", contrastanti (sino a risultare assolutamente incompatibili) con le garanzie riconosciute dalla Costituzione (Cass. pen., Sez. VI, 28 marzo 2012, n. 12089, in Foro it. 2012, 10, II, 533) sia al singolo, sia nelle formazioni sociali - cui è certamente da ascrivere la famiglia - (art. 2 cost.), in particolare il principio di eguaglianza e di pari dignità sociale (art. 3, commi 1 e 2, cost.) (Cass. pen., Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 55, in Guida al dir. 2012, 20, 75).

In una dimensione ampia, si può affermare che relativamente ai cosiddetti reati culturali, qualificati dal fatto che la norma penale va applicata nei confronti di cittadini di cultura ed etnia diversa, i quali risultino portatori di tradizioni sociologiche e abitudini antropologiche confliggenti con la norma penale, il giudice non può sottrarsi al suo compito di rendere imparziale giustizia applicando le norme vigenti, non potendosi ammettere qualsivoglia soluzione interpretativa che pretenda di escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, invocando le convinzioni religiose e il retaggio culturale dell'imputato, perché tale interpretazione finirebbe col porsi in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell'ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali.

Da queste premesse, più nello specifico dei reati di maltrattamenti in famiglia, sequestro di persona, violenza sessuale in danno della moglie e violazione degli obblighi di assistenza familiare, la Corte di Cassazione ha spesso avuto modo di rigettare i ricorsi escludendo che potesse ammettersi la rilevanza - con riferimento all'elemento soggettivo delle imputazioni - della diversità culturale e religiosa dell'imputato che, secondo l'impostazione difensiva, avrebbe dovuto portare a giustificare il comportamento tenuto in ragione di una pretesa sua particolare concezione della famiglia e dei rapporti inter-familiari (Cass. pen., sez. VI, 26 novembre 2008, n. 46300, in Guida al dir. 2009, 11, 63; Cass. pen., Sez. VI, 26 marzo 2009, n. 32824, in CED Cass. pen. 2009, rv 245185).

I giudici di legittimità hanno sempre bollato come erronea la considerazione per cui l'applicabilità delle norme penali ai cittadini di cultura ed etnia diversa, in quanto portatori di tradizioni sociologiche o abitudini antropologiche confliggenti con la norma penale, debba essere filtrata da tali variabili comportamentali, con una risposta giudiziaria che dovrebbe scriminare l'azione penalmente illecita, introducendo una sorta di generalizzato difetto dell'elemento soggettivo. Sotto tale suggestivo profilo, e secondo l'assunto (anche nella vicenda in esame) del ricorrente, l'azione vietata e contra legem dello straniero andrebbe inquadrata e giustificata nei "profili di soglia" della concezione della famiglia tipica del gruppo sociale di appartenenza, che tali condotte appunto consente e, come nel caso della moglie che rifiuta "il debito coniugale", talora impone.

I concetti testè esposti trovano ulteriore richiamo in altri contesti processuali, ove l'imputazione concerna fattispecie gravissime quali quella di tratta e riduzione e mantenimento in servitù (art. 600 c.p.). Anche nelle sentenze ove la Cassazione se ne occupa si ribadisce come non sia invocabile dagli autori della condotta - per es. sostanziatasi nell'aver costretto minori all'accattonaggio - la causa di giustificazione dell'esercizio del diritto, per richiamo alle consuetudini delle popolazioni di provenienza, e si precisa un importante principio a carattere generale tale per cui la consuetudine può avere efficacia scriminante solo in quanto sia stata richiamata da una legge, secondo il principio di gerarchia delle fonti di cui all'art. 8 delle disposizioni preliminari al codice civile. Da ciò deriva che il richiamo alla propria mozione culturale o di costume non esclude l'elemento psicologico del reato (Cass. pen., Sez. V, 15 giugno 2012, n. 37638 in Guida al diritto 2012, 49-50, 56).

Un'altra area egualmente interessata dall'esigenza – che da sociologica quindi si fa giuridica – di adeguarsi ai tempi e di non trincerarsi dietro ai mores in auge in passato, è quella dei comportamenti ascritti alle insegnanti, in particolare di scuola primaria. Non è infrequente imbattersi in sentenze ove il giudice deve disattendere ogni portata scriminante alle impostazioni educative frutto di retaggi ormai superati: concetti come “insegnante vecchio stampo”, piuttosto che idea di pedagogia meno sensibile alle nuove più recenti e moderne teorie di insegnamento, non sono giudicati idonei neppure ad attenuare il disvalore di condotte connotate da uso sistematico di comportamenti violenti, obiettivamente non leciti, insuscettibili di essere qualificati come espressivi di metodi educativi, quali schiaffi ripetuti, tirate di orecchio e di capelli, sottoposizione a vessazioni morali e fisiche consistite nell'apostrofare i bambini in malo modo, nello strappare i loro disegni, nel sottrarre loro l'acqua, allontanarli dagli spazi di condivisione comune per lasciarli da soli in bagno ovvero in una stanza poco illuminata "per riflettere". Sul piano della qualificazione giuridica si ribadisce che integra il reato di maltrattamenti e non quello di abuso di mezzi di correzione la reiterazione di atti di violenza fisica e morale, anche qualora gli stessi possano ritenersi compatibili con l'intento correttivo ed educativo proprio della concezione culturale di cui l'agente è portatore (Cass. pen. Sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 5205).

Osservazioni

La dottrina ha definito il fenomeno dei "reati culturali" che come il frutto di un conflitto normativo, suggestivamente espresso con il termine di "inter-legalità" intesa come condizione di chi, dovendo operare una scelta, è costretto a fare riferimento a un quadro articolato di norme, contemporaneamente vigenti ed interagenti tra sistemi giuridici diversi. Siffatta realtà ha determinato nei vari Stati, interessati da massicci flussi migratori, due diversificate prospettive di multiculturalismo. La prima, di tipo "assimilazionista", persegue l'inserimento dello straniero nel tessuto nazionale ed esige come contropartita una sostanziale rinuncia alle sue radici etnico - culturali; la seconda invece, orientata su protocolli di "integrazione-inclusione" (simbolica e pratica), è tendenzialmente disposta ad accettare le richieste identitarie ed è sensibile alle specificità culturali "altre". In tale ultimo modello, si mira alla realizzazione di una società politica priva di una sola identità culturale dominante o maggioritaria ma costituita da molte con eguale diritto di riconoscimento.

È del tutto evidente che entrambe le prospettive, nel nostro sistema penale, in tanto possono attuarsi se e nella misura in cui non contrastino con i principi cardine del nostro ordinamento, anche di rango costituzionale, in tema di famiglia, rapporti interpersonali ed interazione sessuale né il giudice può sottrarsi al suo compito naturale di rendere imparziale giustizia con le norme positive vigenti, pur svolgendo il ruolo di mediatore culturale che la dottrina attribuisce al giudice penale, non può mai attuarsi - come richiesto nel ricorso - al di fuori o contro le regole che, nel nostro sistema, fissano i limiti della condotta consentita ed i profili soggettivi che presiedono ai comportamenti, che integrano ipotesi di reato, nella cornice della irrilevanza della ignorantia juris, pur letta nell'alveo interpretativo della Corte delle leggi.

Il retaggio religioso e culturale spesso non arriva a giustificare neppure una riduzione di pena, tant'è che si rinvengono pronunce che gli negano rilevanza persino al fine della concessione delle attenuanti generiche (Cass. pen., Sez. VI, 28 gennaio 2009, n. 22700): l'art. 3 c.p. sancisce il principio dell'obbligatorietà della legge penale per cui tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato sono tenuti ad osservarla. La rilevanza della disciplina e le ragioni di carattere generale su cui si fonda escludono che possa esservi apportata qualsiasi deroga non espressamente prevista dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale e implicano che le tradizioni etico-sociali di coloro che sono presenti nel territorio dello Stato, di natura essenzialmente consuetudinaria benché nel complesso di indiscusso valore culturale, possano essere praticate solo fuori dall'ambito di operatività della norma penale. Il principio assume particolare valore morale e sociale allorché - come nella specie - la tutela penale riguardi materie di rilevanza costituzionale, come la famiglia, che la legge fondamentale dello Stato riconosce quale società naturale, ordinata sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi (art. 29 Cost.), uguaglianza che costituisce pertanto un valore garantito, in quanto inserito in un ordinamento incentrato sulla dignità della persona umana e sul rispetto e la garanzia dei diritti insopprimibili a lei spettanti.

Tuttavia, in altri casi, la cognizione processuale circa aspetti afferenti alla dimensione culturale e religiosa del reo è servita a ricostruire più accuratamente i fatti e l'elemento psicologico, così da pervenire ad una determinazione della pena ex art. 133 c.p. più rispondente alle peculiarità del fatto concreto.

Guida all'approfondimento

F. Basile; Premesse per uno studio sui rapporti tra diritto penale e società multiculturale. Uno sguardo alla giurisprudenza europea sui reati c.d. culturalmente motivati, in Riv. It. Dir. e proc. pen., fasc. 1, 2008, pag. 149

E. Ceccarelli, L'obbligatorietà della legge penale italiana investe anche lo straniero residente nel nostro Paese nei suoi rapporti familiari, in Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2009, pag. 73

M. LoGiudice, Maltrattamenti in famiglia condizionati e motivati dalla componente subculturale del reo, in Diritto di famiglia e delle persone (II) 2015, pag. 1376, fasc. 04

F. Piquè, La subcultura del marito non elide l'elemento soggettivo del reato di maltrattamenti né esclude l'imputabilità del reo, in Cass. pen., fasc.9, 2012, pag. 2962

A. Sorgato, Reati famigliari e contro i soggetti deboli, voce Credo religioso sub Maltrattamenti, Giappichelli, 2014, pag. 55

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