Formazione progressiva del giudicato e retrodatazione del termine massimo di custodia cautelare. La decisione del Riesame di Roma sul caso Carminati

Gennaro Iannotti
06 Luglio 2020

Con l'ordinanza che si annota, il Tribunale del Riesame di Roma – in sede di appello ex art. 310, c.p.p., ha dichiarato la scadenza del termine massimo complessivo della misura cautelare in atto nei confronti di Massimo Carminati. I giudici del riesame – facendo buon governo di due questioni ampiamente chiarite dalla giurisprudenza di legittimità in tema di formazione progressiva...
Massima

Nell'ipotesi di annullamento con rinvio della sentenza da parte della Corte di Cassazione – anche solo in ordine alla determinazione della pena relativa al reato costituente titolo cautelare - la posizione dell'imputato non muta da soggetto cautelato a condannato definitivo.

In caso di due o più ordinanze cautelari, emesse in distinti procedimenti nati per gemmazione da un unico procedimento, la retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure applicate con la successiva o le successive ordinanze opera solo se i fatti oggetto di tali provvedimenti erano desumibili dagli atti già prima del momento in cui è intervenuto il decreto di giudizio immediato per i fatti oggetto della prima ordinanza.

Il caso

Con l'ordinanza che si annota, il Tribunale del Riesame di Roma – in sede di appello ex art. 310, c.p.p. – ha dichiarato la scadenza del termine massimo complessivo della misura cautelare in atto nei confronti di Massimo Carminati. I giudici del riesame – facendo buon governo di due questioni ampiamente chiarite dalla giurisprudenza di legittimità in tema di formazione progressiva del giudicato e in tema di riconoscimento dell'ipotesi di retrodatazione dei termini di custodia cautelare – hanno annullato la pronuncia della Corte d'Appello di Roma, secondo la quale – in relazione alla posizione dell'imputato - il termine di fase di cui all'art. 304, comma 6, c.p.p. è a tutt'oggi pendente. In particolare, la Corte d'appello capitolina – rigettando ben due istanze proposte dalla difesa - riteneva non decorso il termine massimo della misura coercitiva della seconda ordinanza da cui era stato attinto l'appellante, poiché il termine di fase relativo ai titoli cautelari di corruzione propria non circostanziata dall'aggravante dell'art. 416-bis.1 c.p., esclusa in sede di legittimità, non poteva retrodatarsi al 2/12/2014 (data di esecuzione della prima ordinanza relativa al delitto associativo mafioso), ma al 4 giugno 2015, data di esecuzione della seconda ordinanza (relativa ad ulteriori ipotesi corruttive e di turbativa d'asta a carico dei medesimi indagati), stante l'insussistenza di uno dei presupposti caratterizzanti la retrodatazione, vale a dire la desumibilità dei gravi indizi in relazione ai reati contestati con la nuova ordinanza dagli atti relativi alla prima. E ciò, al netto della circostanza che, secondo la Corte d'Appello romana, la valutazione operata dal Gip, in sede di emissione della seconda ordinanza (4/6/2015), non poteva considerarsi vincolante in punto di retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare alla data di esecuzione della prima ordinanza (2/12/2014).

Appellando la decisione della Corte del secondo grado di merito, la difesa dell'imputato denunziava la violazione dell'304, coMMA 6 e 7, in quanto, al momento della richiesta de libertate, Carminati aveva sofferto anni cinque e mesi quattro di detenzione, corrispondente ai due terzi del massimo della pena edittale (anni otto di reclusione) prevista - all'epoca di commissione dei reati - per il delitto di corruzione propria, unico titolo cautelare ancora sussistente. E ciò in quanto, secondo le SS.UU. Mammoliti del 1997, il calcolo del tetto massimo previsto dall'art. 304, comma 6, c.p.p. va effettuato in relazione ai reati per i quali la custodia cautelare è in corso e non in relazione a tutti i reati, avvinti dal vincolo della continuazione, per i quali vi è stata condanna. Quanto alla decorrenza del trattamento cautelare, la difesa dell'appellante faceva riferimento all'istituto della retrodatazione automatica, osservando come sussistessero i presupposti di cui all'art. 297, comma 3, c.p.p., trattandosi di provvedimenti cautelari emessi nell'ambito dello stesso procedimento, aventi ad oggetto fattispecie di reato connesse e poste in essere in epoca precedente all'emissione (28/11/2014) della prima ordinanza.

In definitiva, per la difesa il termine massimo di custodia cautelare era, ex art. 304, comma 6, c.p.p., decorso dal 30 marzo 2020. Viceversa, per la Corte d'Appello, il termine sarebbe spirato al 6 settembre 2020, in applicazione dell'art. 303, comma 4, lett. b), c.p.p. sulla base del più grave dei reati attribuiti in sentenza, aumentato della metà ex art. 304, comma 6, c.p.p. (vale a dire: quattro anni cui vanno aggiunte le sospensioni nel limite massimo di anni due) alla luce delle plurime sospensioni intervenute nel corso del processo.

La questione

La prima questione involge il tema del giudicato progressivo e i termini di custodia cautelare. La Corte di Cassazione ha validato la responsabilità di Carminati in relazione ad alcuni reati, mentre con riferimento ad altri ha disposto l'annullamento della sentenza di secondo grado, sicché la questione che si è posta il Riesame è se, avuto riguardo al tipo di pronuncia della S.C. di Cassazione in relazione alla posizione di Carminati, esistono statuizioni non attinte dalla pronuncia di legittimità che abbiano acquisito autorità di cosa giudicata nelle parti non connesse a quelle annullate, atteso che, nel caso di specie, l'annullamento ha riguardato solo la statuizione sulla determinazione della pena per effetto della esclusione dell'aggravante mafiosa.

Ulteriore questione collegata a quella principale:

La seconda questione riguarda il se ricorre, nel caso di Carminati, l'ipotesi di “retrodatazione automatica”in presenza di due titoli cautelari emessi nel medesimo procedimento per fatti connessi per i quali, però, all'atto della emissione della seconda ordinanza, interviene il decreto di giudizio immediato per fatti compendiati nella prima ordinanza. Con l'ordinanza in commento, il Tribunale del Riesame di Roma afferma che è applicabile la retrodatazione dei termini di custodia cautelare, in ragione del fatto che il procedimento è il medesimo, i fatti sono connessi, ex 12 lett. b) c.p.p. e sono stati commessi prima della esecuzione del primo titolo cautelare.

Le soluzioni giuridiche

Non sembra che possano nutrirsi dubbi seri sulla correttezza del provvedimento qui analizzato; anzi, si potrebbe anche dire, spostando lievemente la prospettiva, che dall'udienza camerale (tenutasi il 22 maggio) al deposito delle motivazioni (15 giugno 2020) sia trascorso anche troppo tempo, stante la natura compilativa del contenuto delle motivazioni.

Invero, a scanso di equivoci, non si può negare che, dalla narrativa del provvedimento in commento, tutti i capi relativi a Carminati - ove vi è stata affermazione di penale responsabilità irrevocabile - sono stati annullati con rinvio in riferimento al trattamento sanzionatorio, in un contesto che ha visto riconosciuta la continuazione in sede di merito, aspetto confermato in sede di legittimità. Ciò impedisce, e la conferma logica è data dall'assenza di una iniziativa della Procura Generale di Roma (che non ha emesso un ordine di esecuzione parziale), di individuare uno o più capi già integralmente giudicati e dunque una frazione di pena eseguibile in pendenza del giudizio di rinvio, anche in virtù della necessaria individuazione in concreto della pena per il reato più grave e dei singoli aumenti per continuazione; compiti ormai affidati – per giurisprudenza oramai assestata - al giudice del rinvio. Ed è significativo che, nel dispositivo della decisione rescindente, non si individua una statuizione sulla pena minima eseguibile.

D'altro canto, riallargando la visuale, va notato come, nel caso concreto, una pena minima certa non ci sia, posto che, se fosse stata riconoscibile una quota di pena minima certa, si sarebbe potuto emettere un ordine di esecuzione parziale per la pena base relativa al reato più grave, vale a dire per quella quota di pena minima certa rispetto alla quale non potrebbero in alcun modo incidere i poteri del giudice del rinvio.

Pertanto, in assenza di una pena minima certa da eseguire, il Tribunale del Riesame non si è trovato di fronte ad un giudicato (né è stato notiziato di una iniziativa esecutiva da parte della Procura Generale presso la Corte d'Appello di Roma) e, quindi, bene ha fatto a ritenere ancora aperti i termini di custodia cautelare.

Una volta inquadrata la posizione detentiva dell'appellante, l'applicazione della disciplina della durata massima dei termini di custodia cautelare è divenuta un fatto necessitato.

In tale contesto, il Tribunale, seguendo il percorso argomentativo fissato dalle Sezioni Unite con due decisioni rispettivamente del 2005 e del 2006 (Cass. pen., Sez. Unite, 19 dicembre 2006 - dep. 10 aprile 2007, n. 14535, Librato, Rv. 235909-11; Cass. pen., Sez. Unite, 22 marzo 2005 - dep. 10/6/2005, n. 21957, Rahulia, Rv. 231057-9) e ribadito da una pronuncia della I Sezione (nr. 26093/2018), tutte riportate – in parte qua - nel corpo della motivazione (con inevitabile appesantimento della stessa), non ha fatto altro che applicare la regula iuris del secondo periodo dell'art. 297, comma 3, c.p.p.: quando nei confronti di un imputato siano emesse più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata (concorso formale, continuazione o connessione teleologica), opera la retrodatazione prevista dall'art. 297, comma 3, c.p.p. anche rispetto ai fatti oggetto di un "diverso" procedimento, se questi erano desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio per il fatto o i fatti oggetto della prima ordinanza. Né sembra ragionevole dubitare che – nel caso che ci occupa – ci si trovi in presenza di una connessione qualificata, sia in base alla lettura dei capi di imputazione, ove i fatti delittuosi vengono collocati tra il 2013 e il 2014, sia in base alla lettura della motivazione dell'ordinanza cautelare, da cui si ricava che i reati scopo dell'associazione a delinquere (all'epoca della contestazione qualificata come di stampo mafioso) si fermano temporalmente sino in epoca prossima all'emissione della prima ordinanza cautelare. Ma l'argomento più suggestivamente convincente dell'ordinanza in commento poggia sulla circostanza che, nella richiesta cautelare relativa al secondo titolo custodiale, persino il P.M. ha chiesto l'applicazione della misura cautelare facendola decorrere dal 2/12/2014, vale a dire dalla data di esecuzione del primo titolo cautelare, come ad ammettere implicitamente che gli elementi indizianti dei fatti di reato contestati con la seconda ordinanza erano già noti e desumibili all'ufficio di Procura.

In sintesi, il Riesame ha applicato la regola della retrodatazione di cui all'art. 297, comma 3, c.p.p., determinando l'efficacia del secondo titolo alla data di esecuzione del primo. Ciò in rapporto alla esistenza di una connessione qualificata, già riconosciuta in sede di merito, tra i diversi fatti – reato contestati, emersi prima della emissione del primo decreto di giudizio immediato.

Il termine massimo viene computato in maniera corretta in riferimento al limite dei due terzi (anni cinque e mesi 4) della pena edittale massima prevista – all'epoca del commesso reato - per la corruzione propria (anni otto).

Dunque, al netto degli effetti extraprocessuali del provvedimento, nihil sub sole novi dal punto di vista giuridico.

Osservazione

L'indagine ora consiglia, dopo aver fissato il necessario quadro referente degli antecedenti giurisprudenziali della decisione, di spostare velocemente lo sguardo sul tema del giudicato progressivo; tema rispetto al quale, dal 1990 ad oggi, sono intervenute ben sei sentenze delle Sezioni Unite

Il fenomeno del giudicato progressivo nel processo penale è stato autorevolmente spiegato molti anni addietro da Cass. pen., Sez. Unite, n. 373 del 23 novembre 1990, dep. 1991, P.G. in proc. Agnese, Rv. 186165.

Quella importante pronuncia precisò che, quando la legge disciplina lo sviluppo processuale e attribuisce autorità di cosa giudicata ad una parte della sentenza, proprio quel che fa l'art. 624 c.p.p., non fa certo riferimento al giudicato in senso sostanziale e alla idoneità della decisione a essere posta in esecuzione, perché soltanto l'esaurimento del giudizio attribuisce alla decisione il carattere e gli effetti del giudicato.

Con la formula contenuta nell'art. 624 c.p.p. si è delineato – appunto - il fenomeno della formazione progressiva del giudicato, che si verifica sia quando nel processo confluiscono più azioni penali sia quando il procedimento abbia ad oggetto un solo reato nei confronti di un solo soggetto. Pur quando la decisione interviene in relazione ad uno e più punti concernenti la singola accusa l'irrevocabilità della decisione rappresenta l'effetto conseguente all'esaurimento del giudizio. Non è un caso, infatti, che il legislatore faccia riferimento alle parti della sentenza, e non utilizzi in questa disposizione i termini capi e punti: se avesse inteso riferire il fenomeno del giudicato parziale soltanto ai capi autonomi della sentenza, la norma sarebbe stata del tutto superflua, non essendo contestabile l'autonomia delle azioni penali confluenti nel processo cumulativo.

Pertanto, i limiti oggettivi del giudizio di rinvio sono diretta conseguenza dell'irrevocabilità della pronuncia della Corte di cassazione in relazione a tutte le parti diverse da quelle annullate e non necessariamente connesse.

Le Sezioni unite, in quel contesto, chiarirono che non deve essere confusa l'eseguibilità di una sentenza di condanna con l'autorità di cosa giudicata attribuibile ad una o più statuizioni in essa contenute, perché l'irrevocabilità della pronuncia in relazione allo sviluppo del rapporto processuale è cosa ben diversa dalla possibilità di attuazione delle definitive decisioni contenute in una sentenza.

All'osservazione critica contro la tesi del giudicato progressivo, espressa nella considerazione della inaccettabilità della dicotomia tra definitività ed eseguibilità del giudicato, per l'impossibilità che possa darsi l'esistenza di una sentenza irrevocabile eppure non eseguibile se non condizionatamente all'esaurimento complessivo del processo, le Sezioni Unite Cellerini(Cass. pen., Sez. Unite, n. 4460 del 19 gennaio 1994, Cellerini ed altri, Rv. 196888) opposero «che l'autorità di cosa giudicata, come già avvertito in dottrina, non va scambiata con la esecutorietà di una decisione, perché l'esecutorietà non è sufficiente ad attribuire ad un provvedimento l'autorità di cui si tratta e, talvolta, neppure il carattere della irrevocabilità mentre vi possono essere decisioni aventi autorità di cosa giudicata senza essere in tutto o in parte eseguibili. Come nel caso della condanna a pena condizionalmente sospesa o che fruisca di indulto revocabile o condizionato ovvero nei casi di differimento della esecuzione della pena previsti dagli artt. 146 e 147 del codice penale e, comunque, della sentenza di condanna nel periodo di tempo intercorrente tra il momento in cui la stessa è stata pronunciata e quello della sua messa in esecuzione».

Ad ogni modo, anche sotto i differenti singoli profili, la tematica generale affrontata dalle Sezioni Unite, dal 1990 ad oggi, in tema di formazione progressiva del giudicato appare essenzialmente pacifica per la precisa ragione che la loro ratio decidendi risiede nella specialità della forza precettiva dell'art. 624, comma 1, c.p.p., a norma della quale se l'annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata.

L'art. 624, comma 1, che indubbiamente riconosce l'autorità del giudicato sia ai capi che ai punti della sentenza, non rappresenta, tuttavia, l'espressione di un principio applicabile al di fuori della specifica situazione dell'annullamento parziale, dato che la disposizione detta una regolamentazione particolare, attinente unicamente ai limiti obiettivi del giudizio di rinvio, e, dunque, è legata indissolubilmente alle peculiari connotazioni delle sentenze della Corte di cassazione ed alla intrinseca irrevocabilità connaturata alle statuizioni dell'organo posto al vertice del sistema giurisdizionale, onde è da escludere che la disposizione stessa possa essere utilmente richiamata per sovvertire i principi generali desumibili dalle linee fondanti dell'ordinamento processuale relativo alle impugnazioni penali.

Una evoluzione delle posizioni elaborate dalle Sezioni unite si è avuta ad opera delle sezioni semplici che, in apparente continuità con gli arresti in punto di formazione progressiva del giudicato, hanno affermato innovativamente che l'esecuzione della sentenza oggetto di annullamento può aversi pur quando il capo sia unico e sia divenuto irrevocabile il punto sulla responsabilità, a condizione però, ancora una volta, che la sentenza abbia determinato la pena in un minimo che non sia suscettibile di ulteriore diminuzione nel giudizio di rinvio.

Pertanto, il requisito indispensabile è che il punto sulla determinazione della pena contenga l'indicazione di una pena minima, non modificabile verso il basso nel giudizio di rinvio (si veda:

Cass. pen., Sez. I, n. 12904 del 10/11/2017, dep. 2018, Centonze, Rv. 272610, nonché Cass. pen., Sez. I, n. 43824 del 12/04/2018, Milito, Rv. 274639).

Secondo altro filone giurisprudenziale, l'irrevocabilità della statuizione in punto di responsabilità non si pone come premessa inesorabile per l'immediata esecutorietà, trovando un ambito di incidenza sul terreno ancora del processo di cognizione, in specie su quello della restrizione cautelare.

Va rilevato, per proseguire nell'intrapreso raffronto, che la Cassazione (Cass. pen., Sez. I,n. 22293 del 05/05/2004, De Finis, Rv. 228199) stabilì il principio per il quale «qualora venga rimessa dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la questione relativa alla determinazione della pena, la formazione del giudicato progressivo riguarda esclusivamente l'accertamento del reato e la responsabilità dell'imputato e non invece la pena e pertanto la detenzione dell'imputato deve essere considerata come custodia cautelare sottoposta alle regole sulla decorrenza termini e non come esecuzione di pena definitiva». La Corte di cassazione, sulla base di tale principio, annullò l'ordinanza del Tribunale del riesame di conferma del provvedimento con cui era stata rigettata la richiesta di declaratoria di avvenuto decorso dei termini di custodia cautelare sul presupposto che, annullata la sentenza di condanna limitatamente alla determinazione della pena base per l'omicidio prima della applicazione della diminuente, si era comunque formato il cosiddetto "giudicato progressivo" in relazione alla affermazione della responsabilità e quindi la pena da determinare non avrebbe potuto comunque essere inferiore al minimo teorico, comprese tutte le attenuanti e le diminuenti riconosciute, pari ad anni 9, mesi 8 e giorni 20. E richiamando la sentenza Attinà delle Sezioni unite, la Corte di cassazione precisò che l'irrevocabilità può non coincidere con la definitività della decisione quando, come in quel caso, si sia formato un giudicato parziale sulla responsabilità e non sia ancora intervenuta la determinazione della pena e quindi la sentenza non sia utilizzabile come titolo esecutivo.

Da qui la conclusione che «la pendenza del giudizio di rinvio dopo l'annullamento della Corte di Cassazione in relazione alla quantificazione della pena, impedisce la formazione di un titolo esecutivo, che si realizza soltanto a seguito della irrevocabilità della decisione».

Ma sul punto si possono richiamare tre sentenze di non scarso valore argomentativo. La prima è la sentenza Cass. pen., Sez. IV, n. 10674 del 19/02/2013, P.G. in proc. Macrì, Rv. 254940, la quale ha affermato che la formazione del giudicato sulla responsabilità, con rinvio soltanto per la determinazione della pena alla luce della contestazione di un'aggravante, non comporta che la decisione sia già eseguibile seppure abbia acquistato autorità di cosa giudicata. La seconda, pronunciandosi per l'applicabilità dei soli termini complessivi di custodia cautelare, è la sentenza Cass. pen., Sez. VI, n. 29554 del 03/04/2014, D'Agostino e altro, Rv. 259814, la quale ultima ha affermato che “in simili situazioni nelle quali, a fronte di sentenze di condanna, il rinvio è stato disposto esclusivamente per il giudizio sulla rideterminazione della pena o per l'applicazione di circostanze, …il giudicato parziale preclude l'applicazione dell'art. 129 c.p.p., anche in riferimento alla prescrizione … e consente l'esecuzione della sentenza nel caso in cui una quota della pena non possa più essere messa in discussione”, a nulla rilevando che l'annullamento sia limitato alla sussistenza di una circostanza aggravante. La terza - Cass. pen., Sez. VI, n. 2324 del 19/12/2013, dep. 2014, P.G. in proc. Ben Lahmar, Rv. 258251 - ha stabilito che «qualora venga rimessa dalla Corte di cassazione al giudice di rinvio esclusivamente la questione relativa alla determinazione della pena, la formazione del giudicato progressivo riguarda esclusivamente l'accertamento del reato e la responsabilità dell'imputato e non invece la pena e pertanto la detenzione dell'imputato deve essere considerata come custodia cautelare sottoposta alle regole sulla decorrenza termini e non come esecuzione di pena definitiva».

Da altra angolazione e per concludere, va osservato che un parametro di riferimento rivelatosi essenziale nella valutazione della correttezza motivazionale dell'ordinanza in commento è la nozione di anteriore "desumibilità" delle fonti indiziarie, poste a fondamento dell'ordinanza cautelare successiva dagli atti inerenti alla prima ordinanza cautelare.

Sul punto, è utile tracciare il discrimine tra desumibilità e "conoscenza" o "conoscibilità" di determinate evenienze fattuali. La desumibilità, infatti, per essere rilevante ai fini del meccanismo di cui all'articolo 297, comma 3, del c.p.p., deve essere individuata nella condizione di conoscenza, da un determinato compendio documentale o dichiarativo, degli elementi relativi a un determinato fatto-reato che abbiano in sé una specifica "significanza processuale"; ciò che si verifica allorquando il pubblico ministero procedente sia nella reale condizione di avvalersi di un quadro sufficientemente compiuto ed esauriente (sebbene modificabile nel prosieguo delle indagini) del panorama indiziario, tale da consentirgli di esprimere un meditato apprezzamento prognostico della concludenza e gravità delle fonti indiziarie, suscettibili di dare luogo - in presenza di concrete esigenze cautelari - alla richiesta e all'adozione di una misura cautelare.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.