Cumulo di cause scindibili e fallimento di una parte

20 Luglio 2020

In caso di cumulo di cause scindibili il fallimento della parte di una di queste spiega effetto nei confronti delle altre? Il processo prosegue per la parte che le riguarda?

In caso di cumulo di cause scindibili il fallimento della parte di una di queste spiega effetto nei confronti delle altre? Il processo prosegue per la parte che le riguarda?

Un caso pratico foriero di interessanti conseguenze processuali - specificamente in materia fallimentare - è quello che concerne la sorte del cumulo di cause scindibili laddove uno dei soggetti coinvolti fallisca.

Alla prima parte del quesito proposto, che descrive una situazione recentemente verificatasi nella prassi, in un processo apertosi in seguito ad opposizione a decreto ingiuntivo che vedeva coinvolti un debitore principale e i suoi fideiussori, occorre dare risposta negativa: il fallimento di una parte processuale, in un'ipotesi di cumulo di cause scindibili, non spiega i suoi effetti nei riguardi delle altre parti, sicché - e qui interviene la risposta al secondo quesito - il processo potrà proseguire per la parte che riguarda gli altri centri di interesse che non sono falliti.

Si tratta di un tema che ha suscitato numerosi dubbi applicativi, i quali sembrano essere stati di recente sciolti dalla Corte di Cassazione con l'arresto n. 8123/2020. La Corte di legittimità ha sostenuto il principio suddetto, che impatta direttamente sull'applicazione pratica dell'art. 43 l.fall. (e art. 143 d.lgs. n. 14/2019, Codice della Crisi e dell'Insolvenza: “1. Nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del debitore compresi nella liquidazione giudiziale sta in giudizio il curatore. 2. Il debitore può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico o se l'intervento è previsto dalla legge. 3. L'apertura della liquidazione giudiziale determina l'interruzione del processo. Il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l'interruzione viene dichiarata dal giudice”). Nei fatti, come spesso accade, l'evento interruttivo che ha coinvolto le parti processuali è rappresentato dall'apertura della procedura di fallimento, ex art. 43, comma 3, l.fall. (“l'apertura del fallimento determina l'interruzione del processo”).

Laddove la vicenda si colloca in un'ipotesi di cumulo di cause scindibili, la vicenda dell'apertura fallimentare non determina effetti nei riguardi delle altre parti processuali. Siffatta conseguenza non si verifica neppure laddove il giudice non abbia disposto la separazione delle cause, sicché in tale evenienza le parti non sono tenute a riassumere il processo. L'ulteriore conseguenza pratica è che nel caso in cui la riassunzione non sia stata tempestivamente compiuta nell'interesse della parte che sia stata colpita dall'evento, l'estinzione si verifica esclusivamente nei riguardi di questa. Dunque, dal punto di vista pratico, il processo può continuare nei riguardi degli altri litisconsorti. Più precisamente, conviene rievocare il caso pratico che è stato alla base della decisione della corte, che funge da paradigma per la soluzione di casi analoghi. Nel caso specifico, la Corte di Cassazione - in qualche modo riprendendo la riflessione accolta a Sezioni Unite con la sentenza n. 15142/2007 - ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado confermativa della decisione del giudice di prime cure emessa in una causa di opposizione a decreto ingiuntivo, che si era instaurata attraverso un unitario atto di citazione, dal debitore principale e dai debitori secondari (fideiussori). La sentenza cassata aveva sostenuto che il fallimento del creditore, soggetto garantito del rapporto accessorio, producesse un'interruzione dell'intero processo, determinando, di conseguenza, un'estinzione del processo medesimo, conseguentemente alla mancata tempestiva riassunzione da parte dei condebitori solidali. D'altra parte, proprio il tema della riassunzione suscita dal punto di vista pratico alcuni gravissimi problemi. È infatti dubbio da quale momento debbano iniziare a decorrere i termini per riassumere la causa ex art. 305 c.p.c. in caso di interruzione del processo determinata dalla dichiarazione di fallimento di una delle parti.

La corretta individuazione del momento a partire dal quale il fallimento di una delle parti, che costituisce l'evento interruttivo del processo, possa ritenersi penetrato nella sfera cognitiva della parte estranea all'evento. Come noto, il comma 3 dell'art. 43 l.fall. è stato novellato ad opera dell'art. 41 d.lgs. n. 5/2006: eppure la Corte di Cassazione ha sottolineato che anche in precedenza “il fallimento determinasse la perdita di capacità processuale del fallito e dunque l'interruzione del processo del quale fosse parte l'imprenditore poi assoggettato al fallimento, ma si riteneva che l'effetto interruttivo in tanto si producesse, in quanto l'evento fosse dichiarato o notificato secondo la previsione dell'articolo 300 c.p.c.” e che “l'inizio della procedura fallimentare non produce effetti interruttivi automatici sui processi in corso in cui il fallito sia parte, atteso che la perdita della capacità processuale a seguito di dichiarazione di fallimento non si sottrae alla disciplina di cui all'articolo 300 c.p.c., che prevede, a tal fine, la necessità della dichiarazione in giudizio o notificazione dell'evento”.

Se questa era la situazione in precedenza, si deve evidenziare la volontà acceleratoria della disposizione riformata, sicché la dichiarazione di fallimento produce automaticamente l'interruzione del processo senza che sia necessaria alcuna attività ulteriore, né di dichiarazione né di notificazione dell'evento medesimo. Ma dal punto di vista pratico, si è imposto un ulteriore dilemma, relativo alla possibilità di individuare un termine a quo diverso per la riassunzione: ci si scontra, infatti, con la permanente presenza nel nostro ordinamento, dell'art. 305 c.p.c., che indica un termine perentorio per la prosecuzione o la riassunzione del giudizio. Su tale articolo, nel 2010, la Corte Costituzionale aveva avuto modo di soffermarsi con la sentenza n. 17/2010, che ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale nella parte in cui farebbe decorrere il termine per la riassunzione del processo ad opera di parte diversa da quella dichiarata fallita dalla data di interruzione del processo per intervenuta dichiarazione di apertura del fallimento e non invece dalla data di effettiva conoscenza dell'evento interruttivo. Siffatto termine è di tre mesi dall'evento interruttivo, e la mancata riassunzione determina l'estinzione del processo medesimo.

Occorre ricordare, nella prassi applicativa, l'esortazione della Corte di legittimità, che ha sollecitato a evitare che si verificasse il fenomeno della c.d ‘estinzione misteriosa', ossia quell'estinzione non codificata e da attribuirsi all'inattività della parte, alla sua inerzia, che, in conseguenza dell'automatismo dell'interruzione, non abbia riassunto (ndr: il procedimento) per non aver avuto consapevolezza – o per non essere stata posta in condizione di avere consapevolezza – dell'interruzione prodottasi ipso iure in pendenza del verificarsi dell'evento interruttivo”. In altri termini, nella prassi occorre uniformarsi al generale e astratto indirizzo della Corte di Cassazione, che ha sottolineato come la conoscenza necessaria nelle vicende de quibus è la conoscenza detta ‘legale', sicché non serve la conoscenza effettiva, laddove ci sia stata la dichiarazione in udienza dell'intervenuto fallimento; diversamente, la conoscenza della vicenda che sia stata in altro modo acquisita è insufficiente ai fini del calcolo del computo del termine per riassumere.

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