La Cassazione ribadisce la chiusura alla c.d. “libera psicoanalisi”

Gianluca Bergamaschi
23 Luglio 2020

La “psicoanalisi pura” fondata esclusivamente sul metodo del dialogo e dell'ascolto deve essere sempre ricondotta ad una forma di “psicoterapia”, con la conseguente applicabilità della l. n. 56/1989 e dell'art. 348 c.p.?
Massima

La pratica della psicoanalisi freudiana fatta di colloquio ed ascolto, in quanto finalizzata a procurare la guarigione da talune patologie, integra il paradigma della psicoterapia, per cui è esercitabile solo dall'abilitato ex lege n. 56/1989, ricorrendone le condizioni ed essendo egli iscritto all'albo, di modo che l'assenza di ciò, non surrogabile con altri modelli formativi e abilitativi, non è scusata dalla presentazione con il titolo di psicoanalista anziché di psicoterapeuta ed il suo esercizio, secondo un proprio ciclo e ordine di sedute, integra il reato p. e p. dall'art. 348 c.p., quale “norma penale in bianco” incorporante la normativa di settore.

La formulazione di una diagnosi psicopatologica, deponendo davanti all'Autorità giudiziaria quale persona informata dei fatti e analista, costituisce un atto tipico della professione di psicologo o psicoterapeuta e non l'espressione di una semplice opinione, in quanto rilevante ai fini della decisione giudiziaria.

Il caso

Lo spunto è una sentenza del Tribunale di Milano, confermata in appello, con cui veniva condannata exart. 348 c.p., una donna che – laureata in lettere e filosofia, diplomata nella trattazione delle situazioni di “handicap psicofisici della vista e dell'udito” e non iscritta ad alcun albo professionale – aveva sottoposto, per due anni, ad un ciclo di sedute psicoanalitiche freudiane, con il metodo del colloquio e dell'ascolto, una bambina con problemi famigliari, affidatale dalla madre.

Inoltre, aveva sconsigliato il padre di partecipare alla comunione, perché, a suo dire, la stessa non era pronta a rivederlo; infine, aveva deposto, in qualità di persona informata sui fatti e di analista della piccola, davanti al Giudice del Tribunale dei Minori, ove (unitamente ad una psicologa ed ad una educatrice) aveva escluso che la bambina fosse vittima della “sindrome da alienazione parentale”, ma non che potesse essere vittima di particolari attenzioni da parte del padre.

Quindi, il padre della minore, scoperta l'assenza di titoli in capo alla sedicente “psicoanalista”, l'aveva denunciata, dando la stura alla vicenda giudiziaria.

La difesa ricorre in Cassazione, lamentando: 1) il travisamento della prova circa la ricorrenza di un “atto tipico della professione di psicoterapeuta”, nell'opinione espressa dalla donna davanti al Giudice; 2) l'erronea applicazione della legge, circa la riconducibilità della “psicoanalisi” alla legge n. 56/1989, in base all'indirizzo di legittimità, di cui chiede la revisione, che l'assimila alla psicoterapia, laddove, invece, è, per definizione, attività di osservazione e non di somministrazione di terapie; 3) vizio di motivazione dell'ordinanza di rigetto dell'eccezione di costituzionalità, in relazione alla l. n. 3/2018 (c.d. Lorenzin), entrata in vigore dopo il fatto e dopo la sentenza di primo grado; 4) violazione di legge per avere la Corte irrogato la pena nei nuovi limiti edittali introdotti dopo il fatto, in contrasto con il divieto di retroattività.

La Corte di Cassazione respinge gli argomenti addotti, per le ragioni sintetizzate nei principi di diritto supra esposti, salvo il quarto, e annulla con rinvio per la mera rideterminazione della pena, dichiarando irrevocabile l'affermazione di responsabilità.

La questione

La domanda è la seguente: la “psicoanalisi pura” fondata esclusivamente sul metodo del dialogo e dell'ascolto deve essere sempre ricondotta ad una forma di “psicoterapia”, con la conseguente applicabilità della l. n. 56/1989 e dell'art. 348 c.p.?

Le soluzioni giuridiche

La risposta – con la conseguente applicabilità o meno della l. n. 56/1989 e la violazione dell'art. 348 c.p., in caso di mancato rispetto della prima – è stata varia nella giurisprudenza di merito, la quale, non di rado, ha considerato la psicoanalisi una “libera professione non protetta”, regolata dal codice civile (artt. 2229-2238 c.c.) (Trib. Brescia n. 148/2001; G.I.P. Pordenone del 14. Luglio 2003; Trib. Parma, Sez. Fidenza, n. 86/2005), arrivando ad assolvere o archiviare perché il fatto non costituisce reato, ovvero ha ritenuto che essa, comunque, non integrasse il paradigma dell'atto terapeutico riservato, ossia diagnosi-prognosi-cura, assolvendo perché il fatto non sussiste (Trib. Trieste n. 1612/2007; Corte App. Bologna, III, n. 1413/2009).

La giurisprudenza di legittimità, come pure l'arresto in commento, manifesta invece una sostanziale chiusura a che la “libera psicoanalisi” venga esercitata da chi non sia in regola con la legge Ossicini, seppure con diverse sfumature argomentative.

Tempo addietro, infatti, la Cassazione – sulla scorta della Corte Cost. n. 199/1993, che negò all'art. 348 c.p. la natura di norma penale in bianco – considerava tale norma autosufficiente circa gli elementi costitutivi, cosicché declassava la normativa abilitativa a mero presupposto, dal quale trarre la nozione di atto professionale protetto, e, partendo dalla sostanziale convergenza del contenuto finalistico, individuarne il “contenuto essenziale” e giungere ad una definizione paradigmatica idonea a valutare se l'atto fosse espressione di quella competenza e di quel patrimonio di conoscenze che il legislatore ha inteso tutelare e se le modalità di esercizio rivelassero i caratteri tipici di quell'ordinamento professionale, in modo da possedere un termine di paragone per operare il confronto; il che, nello specifico, significa cogliere la “nozione di terapia (psicologica)” attraverso il paradigma “diagnosi-prognosi-cura” (Cass. pen., Sez. VI, n. 34200/2007; Cass. pen., Sez. III, n. 22268/08; Cass. pen., Sez. VI, n. 14408/11).

Forse per rimediare alla distonia fra enunciati teorici e applicazioni pratiche, figlie anche di chiare aporie scientifiche, la giurisprudenza più recente ha operato una specie di “sincretismo giuridico” teso a conciliare la riaffermata natura di norma penale in bianco dell'art. 348 c.p. (con il rientro a pieno titolo della normativa settoriale negli elementi costituiti del reato), con l'idea che si debba, comunque, approcciare l'ermeneusi dei fatti attraverso un paradigma comportamentale, essenzialmente di tipo teleologico (finalità terapeutica, genericamente intesa), anziché modale (sostanziale indifferenza al contenuto concreto della condotta posta in essere), con il che qualsiasi tipo di intervento diretto a produrre un effetto psicologico benefico finisce per essere considerato “psicoterapeutico” ed assoggettato alla l. n. 56/1989, pena l'integrazione del reato exart. 348 c.p. (Cass. pen., Sez. II, n. 16566/17; Cass. pen., Sez. VI, n. 39339/17; Cass. pen., VI, n. 2691/2018); ne deriva la totale ed indifferenziata chiusura a qualsiasi tipo di psicoanalisi, anche se praticata “in purezza”.

Osservazioni

Occorre premettere la distinzione tra la c.d. “psicoanalisi pura” e la “psicoterapia analitica”: la prima esclude l'idea di malattia e si fonda sul metodo del dialogo e dell'ascolto finalizzati a rimandare all'analizzando ciò che lui stesso sta dicendo, allo scopo di far emergere e consapevolizzare l'inconscio negato, affinché, sentendosi ascoltato ed accettato, impari ad ascoltarsi ed accettarsi; la seconda, invece, parte dal concetto di malattia e utilizza una base analitica, per poi passare a un intervento sui sintomi, attraverso precisi protocolli terapeutici e imput comportamentali.

Questa basilare distinzione, accettata dalla letteratura specialistica, è, invece, trascurata dalla giurisprudenza, ma mentre l'indirizzo degli anni duemila, che considerava l'art. 348 c.p. una norma autosufficiente e analizzava i fatti attraverso il paradigma diagnosi-prognosi-cura, lasciava qualche teorico spazio alla “psicoanalisi pura”, anche al di fuori del perimetro tracciato dalla legge Ossicini, quello successivo no.

A partire già dalla Cass. pen., VI, n. 14408/2011, infatti, si afferma che il dialogo è in sé stesso una forma di terapia, ossia anche senza bisogno che – in ossequio al paradigma diagnosi-prognosi-cura – si sostanzi in una effettiva ricerca diagnostica e si risolva in consigli comportamentali e posturali per contrastare i disturbi di natura psicologica, cosa che non fa la “psicoanalisi pura” e fa la “psicoterapia analitica”.

L'arresto in commento si attesta su quest'ultima linea e conferma la sensazione di fondo che, da un lato, continui a mancare un serio approfondimento circa i vari contenuti delle pratiche analitiche (declassate a: “pluriformi e sfuggenti definizioni”) per distinguere ciò che rientra da ciò che non rientra nel paradigma “diagnosi-prognosi-cura”; dall'altro, che vi sia una specie di tabu semantico ogni volta che la condotta sia denominabile con il prefisso “psico”, al comparire del quale scatta un riflesso condizionato che impone di ricondurre al sistema ordinistico, ossia all'autorità della Stato, qualsiasi attività.

A riprova del grado di confusione ancora sussistente, sta l'uso assai disinvolto che la sentenza fa del paradigma, laddove considera già sufficiente ad integrare un'attività diagnostica tipica dello psicologo o dello psicoterapeuta, l'aver risposto, doverosamente e con sincerità, alle domande del giudice, solo perché egli, come è ovvio, potrà tenerne conto nella decisione e senza che la diagnosi sia in diretta sequenza temporale e connessione funzionale con una prognosi ed una cura, ossia con gli altri elementi del paradigma.

Resta il rammarico dell'occasione perduta dalla l. n. 3/2018 (c.d. Lorenzin), che, nel sostituire l'art. 5 della l. n. 43/2006, relativo a nuove professioni sanitarie, ha posto il limite che le stesse non trovino rispondenza a professioni già riconosciute e che si evitino parcellizzazioni e sovrapposizioni con le stesse o con loro specializzazioni, senza nulla precisare in tema di psicoanalisi; con il che la lacuna deliberatamente lasciata dalla l. n. 56/1989 rimane intonsa, giacché la giurisprudenza continua a ricondurre la psicoanalisi alla psicoterapia, rendendo, cosi, inapplicabile alla stessa anche l'ultimo inane sforzo del legislatore.

Guida all'aprofondimento

Cfr.: G. BERGAMASCHI, “Esercizio abusivo della professione di psicoterapeuta per lo psicoanalista non iscritto all'albo e non abilitato ai sensi della L. n. 56 del 1989. Ma è davvero così?”; su ilPENALISTA, FOCUS del 6 novembre 2015.

Cfr.: E. SANAVIO e C. CORNOLDI, “Psicologia clinica”, Il Mulino/Manuali, pagg. 159, 160 e 161.

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