Rassegna della giurisprudenza Costituzionale in materia penitenziaria nel primo semestre 2020

Leonardo Degl'Innocenti
23 Luglio 2020

La sentenza 15 gennaio 2020 n. 18. Con questa sentenza (depositata il data 14 febbraio 2020) la Corte prosegue nel processo di ampliamento dell'ambito di applicazione...
Le pronunce di illegittimità costituzionale

La sentenza 15 gennaio 2020 n. 18. Con questa sentenza (depositata il data 14 febbraio 2020) la Corte prosegue nel processo di ampliamento dell'ambito di applicazione provvisoria della detenzione domiciliare speciale prevista dall'art 47-quinquiesord. penit. già avviato con le sentenze n. 239 del 2014 e n. 76 del 2017.

La Corte ha infatti dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 47-quinquies, comma 1 ord. penit nella parte in cui la norma non prevede la possibilità di concedere la detenzione domiciliare speciale anche nei confronti delle madri di figli affetti da disabilità grave ai sensi dell'art. 3, comma 3 della legge n. 104 del 1992, ritualmente accertato in base alla medesima legge, indipendentemente dall'età della persona svantaggiata.

Secondo la Corte la preclusione ricavabile dal testo della norma risulta in contrato con gli artt. 3 e 31, comma 2, Cost.

Mette conto segnalare che la Corte ha rammentato che il Magistrato di sorveglianza chiamato a decidere sulla richiesta di concessione del beneficio è tenuto a contemperare le esigenze di cura del disabile “con quelle parimenti imprescindibili della difesa sociale e di contrasto alla criminalità”, con la conseguenza che la domanda avente ad oggetto la richiesta di concessione del beneficio dovrà essere rigettata nel caso in cui sia stata accertata la sussistenza del concreto pericolo della commissione di ulteriori delitti da parte della donna.

La sentenza 12 febbraio 2020 n. 32.

La Corte Costituzionale è nuovamente intervenuta in materia di delitti ostativi con la sentenza n. 32 del 12 febbraio 2020 (depositata in data 26 febbraio 2020).

Con questa decisione la Corte ha dichiarato:

a) l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett.b), l. 9 gennaio 2019, n. 3, in quanto interpretato nel senso che le modificazioni apportate all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della l. n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della l. n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 c.p. e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione previsto dall'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p.;

b) l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett. b), l. n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell'entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso.

La Corte ha accolto la tesi, sostenuta dalla dottrina prevalente, ma disattesa dalla costante giurisprudenza di legittimità, secondo la quale le norme che disciplinano le condizioni di applicazione delle misure alternative (affidamento in prova, detenzione domiciliare, semilibertà e liberazione condizionale) appartengono alle categorie delle norme penali sostanziali e, in quanto tali, sono soggette al divieto di retroattività in malam partem sancito dall'art. 25, comma2, Cost. (e dall'art. 7 CEDU).

Si tratta di una decisione che segna un punto di rottura con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

La Corte di Cassazione, infatti, aveva ripetutamente affermato che le norme che disciplinano le condizioni di applicazione dei benefici penitenziari non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto non sono soggette al divieto di irretroattività di cui all'art 25, comma 2, Cost.

Ne consegue che le norme che modificano in pejus la condizioni alle quali è subordinata la concessione dei benefici penitenziari, introducendo divieti o restrizioni rispetto alla disciplina vigente al momento della consumazione del reato, sono applicabili anche ai fatti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore, secondo il principio tempus regit actum, salvo che il legislatore abbia previsto una specifica disciplina transitoria (cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. un., 17 luglio 2006, n. 24561), disciplina transitoria assente nel caso della l. n. 3 del 2019.

A sua volta, la Corte Costituzionale rispetto a tale categoria di norme aveva elaborato, valorizzando il riferimento alla funzione rieducativa della pena, quella che potrebbe essere definita come la dottrina della retroattività affievolita o temperata

Secondo questa impostazione le norme che introducono divieti o restrizioni in ordine all'applicazione dei benefici penitenziari non possono vanificare, pena la violazione dell'art. 27, comma 3, Cost., l'esito positivo del percorso di risocializzazione già compiuto dal condannato così determinando una regressione incolpevole del trattamento incompatibile, appunto, col finalismo rieducativo della pena.

Alla base di questo principio si colloca la constatazione secondo la quale l'esecuzione della pena detentiva è un fenomeno che, per sua natura, si dipana diacronicamente, spesso anche a notevole distanza dal tempus commissi delicti.

Muovendo da questa premessa la Corte ha affermato, con riguardo al decreto l. n. 306 del 1992, convertito nella legge n. 356 del 1992, che le norme che avevano modificato in pejus le condizioni di accesso di benefici penitenziari non potevano essere applicate ai condannati che, al momento dell'entrata entrata in vigore di tale norme, avevano già iniziato a fruire di permessi premio, erano stati ammessi alla semilibertà o avevano comunque raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto (sentenze Corte cost. n. 306 del 1993; Corte cost. n. 504 del 1995; Corte cost. n. 445 del 1997 e Corte cost. n. 137 del 1999), sempre che non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali del detenuto con la criminalità organizzata (aspetto che attiene alla valutazione della pericolosità sociale del condannato).

Ne consegue, secondo questa giurisprudenza, che le norme che modificano in pejus le condizioni di accesso ai benefici penitenziari, introducendo divieti o restrizioni in ordine all'applicazione di tali istituti, si applicano anche ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore di tali norma, salvo che, in ossequio alla funzione rieducativa della pena, il condannato abbia già iniziato a fruire di tali benefici o comunque abbia raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto (ecco perché sembra possibile parlare, in senso atecnico, di “retroattività affievolita o temperata”: il temperamento alla retroattività è determinato dalla necessità di non vanificare gli esiti positivi del percorso di risocializzazione compiuto dal condannato nel rispetto, come detto, del principio enunciato dall'art. 27, comma 3, Cost.).

La decisione in esamesegna, dunque, un punto di rottura non solo col il c.d. diritto vivente, espresso dalla giurisprudenza delle Corte di Cassazione, ma introduce anche un elemento di forte discontinuità con la stessa giurisprudenza costituzionale, atteso che, in passato, le sentenze aventi ad oggetto le questioni di legittimità costituzionale sollevate rispetto alle norme che modificano in pejus le condizioni di accesso ai benefici penitenziari erano state pronunciate assumendo quale parametro di riferimento l'art. 27, comma 3, e non l'art. 25, comma 2, della Carta fondamentale.

Occorre, tuttavia, precisare che ai fini dell'operatività della garanzia costituzionale del divieto di irretroattività la Corte introduce, nell'ambito della categoria dei benefici penitenziari, la distinzione tra il permesso premio ed il lavoro esterno, da un lato, e le misure alternative dall'altro.

Le misure alternative sono vere e proprie pene, in tutto o in parte, alternative al carcere: trattasi dunque di istituti che incidono sulla qualità e quantità della pena e modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto: le norme che rendono più gravose le condizioni di applicazione delle misure alternative determinano un aggravamento del trattamento sanzionatorio rispetto a quello previsto al momento della commissione del reato e pertanto rientrano nell'ambito di operatività della garanzia enunciata dall'art. 25, comma 2, Cost.

La successio legis attuata mediante l'introduzione di norme che modificano in pejus le condizioni alle quale è subordinata l'applicazione delle misure alternativa, “determina l'applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto” con conseguente divieto di applicazione retroattiva di tali norme.

Secondo la Corte detto aggravamento del trattamento sanzionatorio “si verifica, paradigmaticamente, allorché al momento dei fatti fosse prevista una pena suscettibile di essere eseguita “fuori” dal carcere, la quale, per effetto della modifica normativa sopravvenuta al fatto – divenga una pena che, pur non mutando formalmente il proprio nomen iuris, va eseguita di norma, “dentro” il carcere. Tra il “fuori” ed il “dentro” la differenza è radicale: qualitativa, prima ancora che quantitativa. La pena da scontare diventa qui un aliud rispetto a quella prevista al momento del fatto; con conseguente inammissibilità di una applicazione retroattiva di una tale modifica normativa, al metro dell'art. 25, comma 2, Cost.

La stessa conclusione non può essere prospettata con riguardo al permesso premio ed al lavoro esterno: le norme che modificano in senso restrittivo le condizioni alle quali è subordinata l'applicazione di tali benefici comportano soltanto delle mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento della consumazione del reato, e, pertanto, non determinando “una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”, sono escluse dal divieto di irretroattività e soggette alla regola tradizionale tempus regit actum.

Le norme che modificano in pejus le condizioni di accesso al permesso premio sono, quindi, applicabili anche ai fatti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore, salvo che, come puntualizzato dalla Corte, il condannato avesse raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto.

Ciò che assume rilievo in questo caso non è la necessità di rispettare il divieto di irretroattività di cui all'art. 25, comma 2 Cost., ma la necessità di non vanificare l'esito positivo del percorso di risocializzazione intrapreso dal detenuto, in ossequio al principio enunciato dall'art. 27, comma 3, Cost.

La decisione in esame è destina a produrre conseguenze rilevanti sul piano applicativo.

In primo luogo devono ritenersi illegittimi gli ordini di carcerazione non sospesi emessi con riguardo a pene superiori a quattro anni inflitte per ciascuno dei reati ostativi di cui all'art 4-bis ord. penit. in tutti i casi nei quali la legge che ha inserito il reato in tale categoria è successiva alla data di commissione del reato stesso. iva alla data di commissione del reato stesso. Conformemente a tale principio la Corte Appello di Firenze, con ordinanza 10 marzo 2020, ha ordinato la sospensione dell'ordine di carcerazione, con conseguente ripristino della disciplina dettata dall'art 656, comma 5, c.p.p., emesso dal Procuratore Generale nei confronti del condannato per il delitto di cui all'art 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998 e s.m.i, inserito nel catalogo dei delitti ostativi di cui all'art 4-bis ord. penit. dal d.l. 18 febbraio 2015, n. 7, conv. in l. 17 aprile 2015, n.43, ma commesso nel 2002 per il quale era stata inflitta la pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione.

In secondo luogo merita di essere segnalata Cass. pen., Sez. I, 20 marzo 2020, n.12845, secondo cui il requisito dell'osservazione annuale previsto dall'art 4-bis, comma 1-quater ord.penit. non si applica in caso di reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della norma (art. 3, comma 1, lett. a), d.l. n. 11 del 23 febbraio 2019, conv. in l. 23 aprile 2019 n. 38). Come noto la predetta norma ha subordinato la concessione dei benefici penitenziari indicati dal comma 1 del citato art 4-bis ord.penit. (assegnazione al lavoro esterno, permessi premio e le altre misura alternative alla detenzione previste nel Capo IV (esclusa la liberazione anticipata) della l. n. 354 del 1975) ad una condizione particolare costituita dalla valutazione dei risultati dell'osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno, anche con la partecipazione degli esperti di cui all'art 80, comma 4 della medesima legge n. 354.

La sentenza 7.04.2020, n. 74. Con la sentenza 7 aprile 2020 n. 74 (depositata in data 24 aprile 2020) la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 50, comma 6, l. 26 luglio 1954 nella parte in cui non consente al Magistrato di sorveglianza di applicare in via provvisoria la semilibertà, ai sensi dell'art. 47, comma 4 della citata legge, anche nell'ipotesi in cui l'entità della pena residua da espiare è superiore a sei mesi, ma non a quattro anni.

La Corte muovendo dalla premessa secondo la quale l'affidamento in prova e la semilibertà sono misure distinte non solo sul piano dei presupposti, ma anche su quello dei contenuti, ha escluso che tra le due misure sia ravvisabile una sorta di “rapporto di continenza”a fronte del quale sarebbe senz'altro irragionevole precludere la misura alternativa meno ampia (la semilibertà) al condannato chepotrebbe, astrattamente, aspirare alla misura più ampia (principio che la Corte aveva enunciato con la sentenza n. 338 del 2008 con la quale aveva affermato che non poteva essere ritenuta irragionevole e lesiva del principio di eguaglianza l'esclusione della semilibertà, ma non anche dell'affidamento in prova, nei riguardi dei condannati per taluno dei reati indicati nell'art. 4-bis ord.penit. che non avevano ancora espiato i due terzi della pena, anche quando l'entità della pena residua da espiare non superava i tre anni, limite di pena illo tempore previsto per la concedibilità dell'affidamento in prova).

Nella prospettiva della Corte ciò che assume rilievo nel caso di specie non è la disciplina dei presupposti sostanziali per l'applicazione della misura, ma la possibilità di beneficiare, tramite la procedura dell'applicazione provvisoria riservata alla competenza funzionale del Giudice monocratico, di un accesso accelerato alla semilibertà. Pertanto nell'ambito di una disciplina che consente al Giudice di sorveglianza di applicare tanto l'affidamento in prova quanto la semilibertà “surrogatoria” al condannato che deve espiare una pena non superiore a quattro anni, indipendentemente dalla quota di pena espiata (esclusi, secondo quanto stabilisce expressis verbis l'art. 50, comma 2, ord.penit., i reati ostativi indicati nell'art. 4-bis, comma 1. ord.penit.), non vi sono ragioni “per lasciare contraddittoriamente disallineato in pejus il beneficio minore, quanto alla possibilità di accesso anticipato e provvisorio al beneficio in presenza di un pericolo di grave pregiudizio, tramite provvedimento dell'organo monocratico” (§7 del Considerato in diritto).

D'altra parte, prosegue la Corte, la mancata estensione della procedura prevista dall'art. 47, comma 4 ord. penit. alla semilibertà “surrogatoria” aveva una giustificazione con riferimento alla disciplina vigente anteriormente alla modificazione introdotta dall'art. 3, comma 1, d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, conv., con modificazioni, nella l. 21 febbraio 2914, n. 10. Come detto tale intervento normativo ha rimodulato il potere cautelare attribuito al Magistrato di sorveglianza sostituendo al potere di ordinare la sospensione dell'esecuzione della pena (con la conseguenza che il condannato in attesa della decisione del Tribunale sull'applicazione o meno dell'affidamento, beneficiava della integrale remissione in libertà), il potere di disporre l'applicazione provvisoria dell'affidamento.

Anteriormente alla citata modifica normativa appariva inopportuno estendere il meccanismo della sospensione pura e semplice anche ai condannati “privi dei requisiti di affidabilità richiesti per l'accesso all'affidamento in prova e condannati a una pena che, per la sua entità, non poteva dirsi sicuramente indicativa di una ridotta pericolosità. Analoga giustificazione non è più rinvenibile, per converso, in relazione alla procedura di applicazione provvisoria della misura, in presenza di situazioni di urgenza e sulla base di un filtro di merito del Magistrato di sorveglianza, introdotta dal d.l. n. 146 del 2013, come convertito, in sostituzione del predetto meccanismo” (§7 della motivazione).

La sentenza 5 maggio 2020, n. 97. Con la sentenza 5 maggio 2020 n. 97 la Corte Costituzionale (depositata in data 22 maggio 2020) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), l. 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui tale norma prevede l'adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata l'assoluta impossibilità per i detenuti sottoposti al regime differenziato appartenenti al medesimo gruppo di socialità di scambiare anziché “l'assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità”.

La Corte ha osservato che il divieto, previsto dalla norma in termini generali e inderogabili, di scambiare oggetti, ove applicato anche i detenuti appartenenti al medesimo gruppo di socialità, non appare coerente con le finalità perseguite dal regime differenziato ponendosi in contrasto con i principi enunciati dagli artt. 3 e 27 Cost.

Come evidenziato nella motivazione “il regime differenziato previsto dall'art. 41-bis, comma 2, ord.penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all'esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti col mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente, favorisce quali strumenti di reinserimento sociale … Ciò che l'applicazione del regime differenziato intende soprattutto evitare è che gli esponenti dell'organizzazione in stato di detenzione, sfruttando l'ordinaria disciplina trattamentale, possano continuare (utilizzando particolarmente, in ipotesi, i colloqui con familiari o terze persone) a impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche all'interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell'organizzazione”.

Ciò premesso, la Corte ha affermato che se da un lato non è configurabile il diritto del detenuto a scambiare oggetti, nemmeno con i detenuti assegnati al suo stesso gruppo di socialità, dall'altro l'esclusione di questa possibilità, espressione di una pur minima facoltà di socializzazione, può essere giustificata “non in via generale ed astratta, ma solo se esista, nelle specifiche condizioni date, la necessità in concreto di garantire la sicurezza dei cittadini, e la motivata esigenza di prevenire, come recita l'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a), ord.penit., “contatti con l'organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni criminali contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate”.

La sentenza 27 maggio 2020, n. 113. La Corte Costituzionale con la sentenza 27 maggio 2020, n. 113 (depositata in data 12.06.2020) ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 30-ter, comma 7, ord.penit., nella parte in cui prevede, mediante il rinvio al precedente art. 30-bis, che il provvedimento relativo ai permessi premio è soggetto al reclamo al Tribunale di sorveglianza entro il termine di ventiquattro ore dalla sua comunicazione anziché prevedere a tal fine il termine di quindici giorni.

La Corte ha ritenuto il termine per impugnare il permesso premio eccessivamente breve e in quanto tale incompatibile con gli artt. 3, 24 e 27 Cost.:

a) sotto il profilo dell'art. 3 Cost. la Corte ha ritenuto irragionevole la previsione di un unico termine di ventiquattro ore per l'impugnazione dei provvedimenti in materia di permessi premio di cui all'art 30-ter ord.penit. e di necessità di cui all'art 30, rispetto ai quali la previsione di un termine così stringente può ritenersi giustificata dalla situazione di urgenza allegata dal detenuto a fondamento della richiesta, situazione non configurabile nel caso in cui il condannato abbia chiesto la concessione di un permesso premio; come già evidenziato nella decisione n. 235 del 1996 la fissazione di un identico termine per impugnare si rivela irragionevole nella misura in cui non tiene conto del fatto che i provvedimenti oggetto di reclamo sono contraddistinti da presupposti e finalità diverse;

b) sotto il profilo dell'art. 24 Cost. la Corte ha considerato il termine di ventiquattro ore lesivo del diritto di difesa in quanto non consente al condannato, avvalendosi anche dell'assistenza tecnica di un difensore, “di articolare compiutamente nello stesso reclamo, a pena di inammissibilità, gli specifici motivi in fatto ed in diritto sui quali il Tribunale di sorveglianza dovrà esercitare il proprio controllo sulla decisione del primo giudice”;

c) sotto il profilo dell'art. 27 Cost. la Corte ha evidenziato che l'eccessiva brevità del termine al quale è subordinata la proposizione del reclamo avverso la decisione del magistrato di sorveglianza determina “un indebito ostacolo alla funzione rieducativa della pena … nell'eventualità di decisioni erronee del magistrato di sorveglianza, che l'interessato non abbia la possibilità di contestare efficacemente avanti al Tribunale di sorveglianza” dovendosi tener conto della funzione trattamentale del permesso premio quale beneficio penitenziario finalizzato al graduale reinserimento sociale del condannato anche, e soprattutto, in funzione della successiva concessione di misure alternative.

Quanto al termine per proporre reclamo la Corte ha fatto riferimento alla disciplina dettata dall'art 35-bis,comma 4, ord.penit. che stabilisce il termine di quindici giorni, decorrente dalla notificazione o comunicazione dell'avviso di deposito della decisione del magistrato di sorveglianza, per impugnare innanzi al Tribunale le ordinanze emesse dal giudice monocratico in materia di “reclamo giurisdizionale”, termine che coincide con quello previsto in via generale dall'art 585 c.p.p. per l'impugnazione dei provvedimenti emessi all'esito della camera di consiglio. Trattasi, per altro, di una soluzione non obbligata atteso che la Corte, avrebbe potuto “scegliere” il termine di dieci giorni previsto dall'art 69-bis comma 3 in materia di reclami al collegio avverso le decisioni del giudice monocratico in materia di liberazione anticipata.

In ossequio al principio della parità della armi per effetto della menzionata sentenza il termine di quindici giorni è applicabile anche allo ius impugandi esercitabile dal Pubblico Ministero.

Le pronunce di inammissibilità e di infondatezza

La sentenza 9 gennaio 2020, n. 50. L'art. 47-ter, comma 1-bis, ord. penit. prevede la c.d. detenzione domiciliare generica.

La misura può essere concessa quando non ricorrono i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale e sempre che essa sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati.

Prescindendo in questa sede dall'esame delle altre condizioni cui è subordinata l'applicazione di tale misura deve essere ricordato che la pena da espiare non deve superare i due anni anche se costituenti parte residua di maggior pena e non deve essere stata inflitta per uno dei reati ostativi di cui all'art. 4-bisord. penit..

Secondo il costante e consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità la condanna per uno dei delitti ostativi di cui alla citata norma preclude la possibilità di applicazione della detenzione domiciliare generica anche in caso di accertata insussistenzadi collegamenti con la criminalità organizzata.

La Corte Costituzionale con la sentenza 9 gennaio 2020, n. 50 (depositata in data 12 marzo 2020) ha escluso che il divieto di concessione di tale ipotesi di detenzione domiciliare, derivante appunto dalla natura del reato commesso, sia in contrasto con i principi di ragionevolezza (art. 3) e di rieducazione (art. 27, comma 3) Cost.

La Corte ha osservato che il divieto di applicazione di tale forma di detenzione domiciliare non si fonda sic et simpliciter sulla presunzione di pericolosità del condannato derivante dalla natura del reato commesso, ma discende dal fatto che il reo non si trova “neppure nelle condizioni utili per essere affidato in prova ai servizi sociali” che costituisce il presupposto negativo implicito della disciplina in questione.

La persona condannata per un reato ostativo (purché di seconda fascia ex art 4-bis, comma 1-ter ord. penit.) può infatti accedere all'affidamento, misura più ampia e più favorevole della detenzione domiciliare, e se ciò non accade dipende dal fatto che nel caso di specie “sono stati accertati elementi concretamente sintomatici di un'apprezzabile pericolosità”, ritenuta non contenibile mediante l'applicazione dell'affidamento.

In conclusione la norma non prevede una presunzione assoluta di pericolosità sociale fondata sulla natura del reato, ma una presunzione di inidoneità preventiva e rieducativa di una determinata misura (la detenzione domiciliare) nei confronti di un condannato rispetto al quale è stata accertato, in concreto, un grado di pericolosità incompatibile con la possibilità di applicare una misura più ampia (l'affidamento).

Per concludere deve essere evidenziato che il divieto di concessione comunque legato alla natura del reato induce ad escludere che la preclusione de qua possa essere superata mediante l'accertamento della collaborazione ex artt. 4-bis e 58-ter ord .penit..

La sentenza 30 gennaio 2020, n. 95. Con questa sentenza (depositata in data 20.05.2020) la Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 299 del D.P.R. n. 115 del 2002, sollevate dai Magistrati di sorveglianza di Pisa e di Alessandria, ed ha inoltre dichiarato infondata l'ulteriore questione di legittimità costituzionale, prospettata dal Magistrato di Sorveglianza di Alessandria, dell'art. 238-bis, commi 2, 5, 6 e 7, del predetto d.P.R.

La decisione merita di essere segnalata in quanto avvalora l'interpretazione seguita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità secondo la quale in caso di mancato pagamento della pena pecuniaria inflitta dal Giudice di Pace la competenza a disporre la conversione in libertà controllata spetta al Magistrato di sorveglianza e non al Giudice di Pace e ciò in ragione della intervenuta abrogazione dell'art. 42 d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (recante disposizioni sulla competenza del Giudice di pace) da parte dell'art. 299 d.P.R. n. 115 del 2002 (testo unico spese di giustizia), norma quest'ultima che per quanto riguarda la competenza del Giudice di pace in materia di esecuzione della pena pecuniaria non è stata “incisa” dalla declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 212 del 2003 della Corte Costituzionale (cfr., tra le tante, Cass. pen., Sez. I, 13 marzo 2019, n. 17098; nello stesso senso e da ultimo cfr. anche Cass. pen., Sez. I, 24 aprile 2019, n. 17595, inedita).

Mette conto segnalare che dalla motivazione della sentenza sembra emergere una indicazione in ordine alla disciplina applicabile in sede di conversione, nel senso che il Magistrato di sorveglianza nel disporre la conversione della pena pecuniaria non eseguita per insolvibilità del condannato dovrebbe applicare, non la libertà controllata, ma le misure previste dal sistema sanzionatorio delineato dal d.lgs. n. 274 del 2000 (permanenza domiciliare o lavoro di pubblica utilità) giacché nel confutare le ragioni addotte dal Giudici di merito che aveva sollevato la ricordata questione di legittimità costituzionale dell'art. 238-bis d.P.R. n. 215 del 2002, la Consulta ha affermato che “riguardo, infine, all'ipotizzato stravolgimento della coerenza interna del sistema della giurisdizione penale del giudice di pace, si tratta di un effetto che non può essere certamente riconnesso al mero fatto che, in determinati frangenti (nella specie, la conversione delle pena pecuniaria ineseguite), le speciali sanzioni previste per i reati di competenza del giudice onorario, vengano applicate da un giudice professionale. Altrettanto avviene, del resto, quando i predetti reati siano giudicati dalla Corte di Assise o dal Tribunale per ragioni di connessione (art 6 d.lgs. n. 274 del 2000)”.

La sentenza 12 febbraio 2020, n. 52. La Corte costituzionale con la sentenza 12.02.2020, n. 52 (depositata in data 12 marzo 2020) ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost. dal Tribunale di sorveglianza di Firenze, nella parte in cui non esclude dal novero dei reati ivi compresi quello di cui all'art. 630 c.p. allorquando sia stata applicata al condannato l'attenuante del fatto di lieve prevista dall'art 311 c.p. così come statuito dalla sentenza n. 68 del 2012. Con quest'ultima decisione la Corte Costituzionale aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 630 c.p. nella parte in cui non prevede che la pena comminata per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o le circostanze dell'azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità come appunto previsto dall'art. 311 c.p. in relazione al delitto di sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione di cui all'art. 289-bis c.p..

Con la predetta sentenza viene confermata la soluzione adottata dalla Corte Costituzionale con la sentenza 5.06.2019 n. 188 – depositata in data successiva al provvedimento di remissione in questione – in relazione alla analoga questione sollevata dalla prima Sezione penale della Corte di Cassazione con l'ordinanza 16 novembre 2018, n. 51877 in riferimento alla concessione di un permesso premio anziché della misura alterativa dell'affidamento in prova al servizio sociale come nel caso di specie.

Un'ulteriore questione di legittimità costituzionale

Per concludere questa breve rassegna deve, per completezza, essere ricordato come la Prima Sezione della Corte di Cassazione con ordinanza n. 18518 del 2020, depositata in data 18 giugno 2020, abbia ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 27 e 117 Cost., delle norme che escludono per i condannati all'ergastolo, per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbiano collaborato con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit, l'ammissione alla liberazione condizionale.

A questo riguardo deve essere ricordato che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 253 del 23 ottobre 2019, (depositata il 4 dicembre 2019), sostanzialmente condividendo le ragioni di critica rivolte dalla dottrina prevalente alla disciplina dettata dall'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. sotto il profilo della violazione degli artt. 3 e 27 Cost., ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non prevede che per i detenuti per uno dei delitti ivi indicati possano essere concessi permessi premio anche in assenza della collaborazione con la giustizia a norma appunto dell'art. 58-ter ord.penit. allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Per effetto di questa decisione le persone detenute in espiazione di pena inflitta per un delitto ostativo di prima fascia possono beneficiare del permesso premio anche se non hanno ottenuto l'accertamento della collaborazione con la giustizia.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario