L'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale sul cortile non costituisce uso della cosa comune ma impone una servitù

24 Luglio 2020

Discostandosi da un orientamento affermato anche di recente, il Supremo Collegio ha statuito - dando, invece, continuità ad un diverso insegnamento - che, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di veduta sul cortile di proprietà comune, non può invocarsi il principio nemini res sua servit, il quale trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante, e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell'altro, laddove, invece, considerando il “rapporto strumentale” fra l'uso del bene comune e la proprietà esclusiva, non sembra ragionevole individuare, nell'utilizzazione delle parti comuni, limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi in tema di comunione, e, comunque, va adeguatamente considerata la particolare conformazione degli edifici in condominio.
Massima

Nel caso di comunione di un cortile, sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi, l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c., finendo, altrimenti, per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., in quanto i rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi sono disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue o asservite.

Il caso

Il giudizio aveva avuto inizio con l'azione promossa da un soggetto nei confronti del proprietario di un immobile confinante, domandandone la condanna alla riduzione in pristino di una serie di costruzioni - una sopraelevazione, una finestra, un'antenna, un balcone - realizzate in violazione delle distanze legali.

Il convenuto, oltre a contestare la fondatezza delle pretese ex adverso azionate, aveva spiegato riconvenzionale - in piena sintonia con la classica “lite di vicinato” - invocando, a sua volta, la condanna dell'attore alla riduzione di pristino del tetto e del solaio modificati, di due lucernai, di una copertura del balcone, nonché al risarcimento dei danni per altre opere eseguite.

Il Tribunale - con una decisione salomonica - per un verso, aveva condannato il convenuto al ripristino dell'apertura al servizio del bagno, al ripristino del balcone, mentre, per altro verso, aveva condannato l'attore all'eliminazione dello sconfinamento del solaio, alla rimozione del cemento tra il pilastrino del balcone ed il muro di proprietà del vicino.

Pronunciando sugli appelli, principale e incidentale, avanzati da entrambi i contendenti, la Corte territoriale aveva condannato l'originario convenuto a ripristinare lo stato del suo fabbricato nelle condizioni antecedenti agli interventi compiuti, nonché a trasformare la veduta del bagno in luce regolare, rigettando ogni altra pretesa delle parti, e confermando, per il resto, la sentenza di primo grado.

Il prevalente soccombente proponeva, quindi, ricorso per cassazione avanzando plurime censure alla decisione del giudice territoriale.

La questione

Si trattava di verificare se dovesse applicarsi alla fattispecie in esame - concernente l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso il cortile in comunione sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi - l'art. 905 c.c., secondo cui non possono aprirsi vedute verso il fondo del vicino se non rispettando le distanze legali, oppure l'art.1102 c.c. in tema di uso di bene comune in àmbito condominiale.

Al riguardo, la Corte d'Appello aveva affermato che gli immobili delle parti in contesa non dessero luogo ad un condominio edilizio, ma alla mera “comunione di un cortile”, sicché dovevano essere rispettate le norme in tema di distanze legali per l'apertura di vedute e, in particolare, l'art. 905 c.c., mentre il ricorrente sosteneva, invece, che l'art. 1102 c.c. fosse applicabile al condominio, in forza dell'art. 1139 c.c., e, comunque, fosse applicabile alla comunione.

Le soluzioni giuridiche

I giudici di Piazza Cavour, rigettando il suddetto ricorso, hanno preliminarmente precisato - per quel che qui rileva - che l'indagine dei giudici del merito, diretta a stabilire se la situazione oggettiva desse luogo alla presenza di più unità immobiliari o più edifici aventi parti comuni, ai sensi dell'art. 1117 c.c. e dell'art. 1117-bis c.c. - quest'ultima norma, in realtà, disciplinante il c.d. supercondominio, inapplicabile ratione temporis essendo la citazione notificata nel 2009 - se, cioè, sussisteva la “relazione di accessorietà strumentale e funzionale” che collegava le unità immobiliari di proprietà esclusiva a talune cose/impianti/servizi comuni, i quali fossero contestualmente legati, attraverso la relazione di accessorio a principale, con più edifici o immobili, in modo che l'uso del bene comune non fosse suscettibile di autonoma utilità, ma solo correlato al godimento del bene individuale, si risolveva in un “apprezzamento di fatto, che esulava dal sindacato di legittimità” della Corte di Cassazione quando fosse sorretto da motivazione logica ed immune da errori di diritto (ad ogni buon conto, non si riesce agevolmente a comprendere come un cortile non potesse non servire “funzionalmente” a dare, quantomeno, luce e aria agli edifici frontistanti).

Il Supremo Collegio dà, quindi, atto che, talvolta, in giurisprudenza si è affermato che, quando un cortile è comune a distinti corpi di fabbrica e manca una disciplina contrattuale vincolante per i comproprietari al riguardo, il relativo uso è assoggettato alle norme sulla comunione in generale, e in particolare alla disciplina di cui all'art. 1102, comma 1, c.c., in base al quale ciascun partecipante alla comunione può servirsi della cosa comune, sempre che non ne alteri la destinazione e non ne impedisca il pari uso agli altri comunisti.

In tal senso, l'apertura di vedute su area di proprietà comune ed indivisa tra le parti costituirebbe opera sempre inidonea all'esercizio di un diritto di servitù di veduta, sia per il principio nemini res sua servit, che per la considerazione che i cortili comuni, assolvendo alla precipua finalità di dare aria e luce agli immobili circostanti, sono ben fruibili a tale scopo dai condomini, cui spetta, pertanto, anche la facoltà di praticare aperture che consentano di ricevere aria e luce dal cortile comune o di affacciarsi sullo stesso, senza incontrare le limitazioni prescritte, in tema di luci e vedute, a tutela dei proprietari dei fondi confinanti di proprietà esclusiva, con il solo limite, posto dall'art. 1102 c.c., di non alterare la destinazione del bene comune o di non impedirne l'uso da parte degli altri comproprietari (Cass. civ., sez. II, 14 giugno 2019, n. 16069; Cass. civ., sez. II, 26 febbraio 2007, n. 4386; Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 2005, n. 20200).

Tuttavia - ad avviso degli ermellini - appare corretta la diversa interpretazione, secondo cui, ove sia accertata, come nel caso in esame, la comunione di un cortile sito fra edifici appartenenti a proprietari diversi - ed allorché, come nella specie, accertato in fatto che, fra il cortile e le singole unità immobiliari di proprietà esclusiva, non sussista quel collegamento strutturale, materiale o funzionale, oppure quella relazione di accessorio a principale, che costituisce il fondamento della condominialità dell'area scoperta, ai sensi dell'art. 1117 c.c. - l'apertura di una veduta da una parete di proprietà individuale verso lo spazio comune rimane soggetta alle prescrizioni contenute nell'art. 905 c.c.

In buona sostanza, il partecipante alla comunione del cortile non può aprire una veduta verso la cosa comune a vantaggio dell'immobile di sua esclusiva proprietà, finendo altrimenti per imporre di fatto una servitù a carico della cosa comune, senza che operi, al riguardo, il principio di cui all'art. 1102 c.c., il quale non è applicabile ai rapporti tra proprietà individuali e beni comuni finitimi, che sono piuttosto disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue od asservite (Cass. civ., sez. II, 4 luglio 2018, n. 17480; Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2008, n. 12989; Cass. civ., sez. II, 20 giugno 2000, n. 8397; Cass. civ., sez. II, 25 agosto 1994, n. 7511; Cass. civ., sez. II, 28 maggio 1979, n. 3092).

Né - secondo le toghe del Palazzaccio - vi è ragione di invocare, al fine di escludere la configurabilità di una servitù di veduta sul cortile di proprietà comune, il principio nemini res sua servit, il quale, in realtà, trova applicazione soltanto quando un unico soggetto è titolare del fondo servente e di quello dominante, e non anche quando il proprietario di uno di essi sia anche comproprietario dell'altro, giacché in tal caso “l'intersoggettività del rapporto è data dal concorso di altri titolari del bene comune” (Cass. civ., sez. II, 3 ottobre 2000, n. 13106; Cass. civ., sez. II, 2 giugno 1999, n. 5390; Cass. civ., sez. II, 18 febbraio 1987, n. 1755).

Osservazioni

In effetti, la questione “a monte” è quella relativa alla disciplina applicabile in materia di distanze legali ogni qual volta siamo in presenza di un edificio condominiale - negato nella specie in base ad un (discutibile) apprezzamento di fatto insindacabile in sede di legittimità - ossia se la materia sia normata dall'art. 1102 c.c., oppure operi inderogabilmente la normativa in materia di vicinato (qui l'art. 905 c.c., anche se più spesso si invoca l'operatività dell'art. 907 c.c., disciplinante la distanza delle costruzioni dalle vedute).

Il Supremo Collegio non sembra aver dato risposte collimanti, nel senso che si registrano pronunce ad avviso delle quali la regolamentazione generale sulle distanze è applicabile anche nella realtà condominiale soltanto se “compatibile” con la disciplina particolare dell'uso delle cose comune, dovendo comunque quest'ultima prevalere in caso di contrasto in forza della sua specialità, e pronunce secondo cui il condomino ha un diritto “perfetto” al rispetto della distanza legale rispetto alla costruzione del vicino, che non può subire alcun condizionamento.

Sul punto, risultano pronunce (Cass. civ., sez. II, 19 dicembre 2017, n. 30528), secondo cui la regolamentazione generale sulle distanze è applicabile anche tra i partecipanti di un edificio condominiale solo se compatibile con la disciplina particolare relativa alle cose comuni, “dovendo prevalere in caso di contrasto la norma speciale in tema di condominio in ragione della sua specialità”, sicché, ove il giudice constati il rispetto dei limiti ex art. 1102 c.c., è legittima l'opera realizzata senza osservare le norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale.

Nella stessa lunghezza d'onda, si pongono altri arresti della magistratura di vertice, ad avviso dei quali, allorché il proprietario di un appartamento sito in un edificio condominiale esegua opere nella sua proprietà esclusiva facendo uso di beni comuni, “indipendentemente dall'applicabilità delle norme sulle distanze nei rapporti tra le singole proprietà di un edificio condominiale”, è comunque necessario verificare che il condomino stesso abbia utilizzato le parti comuni dell'immobile nei limiti consentiti dall'art. 1102 c.c. (Cass. civ., sez. II, 28 febbraio 2017, n. 5196; Cass. civ., sez. II, 2 agosto 2001, n. 10563; Cass. civ., sez. II, 4 agosto 1988, n. 4844; Cass. civ., sez. II, 28 gennaio 1984, n. 682).

Si puntualizza, poi, che, nell'ipotesi di contrasto, la prevalenza della norma speciale in materia di condominio determina l'inapplicabilità della disciplina generale sulle distanze che, nel condominio degli edifici e nei rapporti tra singolo condomino e condominio, è in rapporto di subordinazione rispetto alla prima; pertanto, “ove il giudice constati il rispetto dei limiti di cui all'art. 1102 c.c., deve ritenersi legittima l'opera realizzata anche senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti tra proprietà contigue, sempre che venga rispettata la struttura dell'edificio condominiale” (così Cass. civ., sez. II, 18 marzo 2010,n. 6546).

In senso non perfettamente sovrapponibile, si è espresso un altro filone giurisprudenziale (v., tra le altre, Cass. civ., sez. II, 27 gennaio 2016, n. 1549): a fronte della prospettazione dell'asserita necessità, nella fattispecie, di verificare la prevalenza o meno delle norme di uso comune (art. 1102 c.c.) su quelle relative alle distanze legali (art. 907, comma 2, c.c.), si è, invero, lapidariamente statuito che la prospettata censura è del tutto destituita di fondamento poiché “nessuna norma di uso comune può (né risulta mai essere stata utilizzata a tal fine) comportare il superamento delle prescrizioni di legge in materia di rispetto delle distanze legali”.

Tali considerazioni si pongono sulla medesima lunghezza d'onda di altra giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. II, 16 gennaio 2016, n. 955), ad avviso della quale il proprietario del singolo piano di un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle proprie aperture la veduta in appiombo fino alla base dell'edificio e di opporsi conseguentemente alla costruzione di altro condomino che, direttamente o indirettamente, pregiudichi l'esercizio di tale suo diritto, senza che possano rilevare le esigenze di contemperamento con i diritti di proprietà ed alla riservatezza del vicino, avendo operato già l'art. 907 c.c. il bilanciamento tra l'interesse alla medesima riservatezza ed il valore sociale espresso dal diritto di veduta, in quanto luce ed aria assicurano l'igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita.

In precedenza, si era conformato a tale indirizzo interpretativo un ulteriore decisum, a parere del quale l'obbligo di costruire a non meno di tre metri dalle vedute dirette aperte nella costruzione esistente sul fondo vicino, di cui all'art. 907 c.c., ha “natura assoluta”, e va osservato anche quando l'erigenda costruzione non sia tale da impedire di fatto l'esercizio della veduta, mentre una valutazione circa l'idoneità dell'opera ad ostacolare il diritto di veduta può venire in rilievo soltanto quando si intenda erigere un manufatto diverso da una costruzione in senso tecnico (Cass. civ., sez. II, 31 maggio 2011, n. 12033).

Guida all'approfondimento

Fontana, L'apertura di vedute nel muro comune costituisce modificazione o innovazione?, in Arch. loc. e cond., 2018, 652

Bordolli, L'apertura di finestre sul cortile condominiale, in Immob. & proprietà, 2011, 79

De Tilla, Apertura di finestre sul cortile comune, in Riv. giur. edil., 2010, I, 1498

Inversini, Tutela della riservatezza e diritto di veduta, in Urbanistica e appalti, 2000, 1081

Triola, Condominio e distanze legali, in Giust. civ., 1995, I, 665

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